messere
messère s. m. [dal provenz. meser «mio signore»; v. sere]. – Titolo di dignità assai comune un tempo, che spettava di norma a giudici e notai, ma era usato anche, per rispetto e riverenza, come appellativo di alti personaggi e attribuito persino ai santi; in posizione proclitica, troncato di solito in messèr. Poteva essere adoperato come vocativo (messer sì, messer no), o precedere il nome, senza articolo se nome proprio, per lo più con l’articolo interposto se nome comune: Vidi messer Marchese (Dante); messer Cino e Dante (Petrarca); per ciò che divotissimi tutti vi conosco del baron messer Santo Antonio (Boccaccio; e nel Decameron si trovano inoltre esempî di messer lo giudice, messer l’abate, messer e messere lo frate, messer lo prete, messer Domeneddio). Essendo già anticam. poco sentito il sign. proprio della parola («mio signore»), si aveva talora l’aggiunta pleonastica di signore o del possessivo: il signor messer Currado (Pucci); venne al suo messere, ecc. Usato assol. (con o senza art.), il signore: madonna, ecco messer che torna (Boccaccio); Poi che costui si vide qua il messere (Pulci); anche, il padrone, soprattutto nelle frasi essere o fare il messere, spadroneggiare; esser messere e madonna, esser padrone assoluto e dispotico. La parola è usata talvolta in frasi scherz. o canzonatorie: buon dì, messere!; messer no!; caro messer mio, le cose stanno proprio così; che ha oggi il messere, che è così nero?; frequenta certi m. poco raccomandabili. ◆ Dim. messerino, con valore per lo più iron. o spreg.: S’indraca Messerin contro i pedanti (Carducci, con allusione all’editore fiorentino Giuseppe Polverini; è probabile reminiscenza d’un noto sonetto caricaturale di Rustico di Filippo: Quando Dio messer Messerin fece ...).