lamentare
v. tr. e intr. pron. [lat. lamĕntari, lat. tardo lamĕntare] (io laménto, ecc.). – 1. tr. Compiangere, provare dolore o rammarico per qualche cosa: tutti lamentarono la sua morte; l. i proprî errori, la propria incoscienza. Con sign. attenuato (per lo più nella forma impersonale), parlando di disgrazie, fatti dolorosi e sim., essere costretti ad attestarli, a darne notizia: nell’incidente si lamentano parecchi morti; fortunatamente non si lamenta nessuna vittima; si lamentano gravi disordini. 2. intr. pron. a. Con uso assol., emettere lamenti, per dolore fisico o morale: il malato non fa che lamentarsi; s’è lamentato tutta la notte per lo spasimo; l’ho sentito lamentarsi nel sogno. Anticam. anche senza la particella pron.: Giusto duol certo a lamentar mi mena (Petrarca). b. Con compl. di specificazione (che può anche essere sottinteso), esprimere la propria scontentezza, dolersi presso altri di cosa che non ci soddisfa, di un torto subìto, di quanto ci fa soffrire: lamentarsi della cattiva sorte; si lamenta di crampi allo stomaco; lamentarsi di essere stato isolato; non mi lamento, non posso lamentarmi, per dire che non si è scontenti, che in fondo si è soddisfatti di qualche cosa: «Come va la salute?» «Non mi lamento» (e con soggetto di 2a o 3a persona: non puoi lamentarti, non hanno motivo di lamentarsi, e sim.). Spesso è inclusa l’idea di un certo risentimento: lamentarsi del cattivo trattamento, del pessimo vitto, della poca pulizia di un locale, della disorganizzazione degli uffici; lamentarsi di lavorare troppo; lamentarsi presso i superiori, ecc.