consonanza
s. f. [dal lat. tardo consonantia, der. di consonare «consonare»]. – 1. Il fatto di consonare, di dar suono insieme: chi, passando per una fiera, s’è trovato a goder l’armonia che fa una compagnia di cantambanchi, quando, fra una sonata e l’altra, ognuno accorda il suo stromento, facendolo stridere quanto più può,... s’immagini che tale fosse la c. di quei, se si può dire, discorsi (Manzoni). 2. In musica, virtù attribuita ad alcuni intervalli e accordi (diversi dall’una all’altra epoca e civiltà) di produrre, per l’apparente fusione dei loro suoni in uno solo, un effetto d’affermazione, di consenso, di riposo (in contrapp. a dissonanza): c. perfette, fin dalle antiche civiltà classiche, gli intervalli di ottava e di quinta; c. imperfette, fin dall’avanzato medioevo, gli intervalli di terza e di sesta. 3. Nella versificazione, l’accordo delle sillabe finali di due o più parole da cui risulta la rima. In senso stretto, e in opposizione alla «rima perfetta», l’uguaglianza delle sole consonanti nella terminazione di due parole, mentre la vocale tonica è differente (contrariamente a quanto avviene nell’assonanza, in cui sono identiche solo le vocali); è sempre consonante, per es., il verso di mezzo dello stornello rispetto agli altri due: «Fior tricolore, Tramontano le stelle in mezzo al mare, E si spengono i canti entro il mio core» (Carducci); una lieve consonanza, consentita peraltro anche nelle rime perfette, si ha nei casi in cui una vocale aperta è in rima con una vocale chiusa, per es.: «Mentre tuttora là dalla rivièra, Romba il mulino nella dolce séra» (Pascoli). Le rime consonanti, spec. quelle di quest’ultimo tipo, sono dette anche rime apofoniche. 4. fig. Corrispondenza di opinioni, di sentimenti e sim.: tra le nostre idee non c’è c.; c. di affetti.