apposizione
appoṡizióne s. f. [dal lat. appositio -onis, der. di apponĕre «apporre»]. – 1. L’atto di apporre: l’a. della firma, del timbro d’ufficio, della data, del sigillo. In diritto, azione di a. di termini, azione con cui il proprietario di un fondo può costringere il vicino a contribuire alla metà della spesa necessaria per apporre materialmente i termini fra il suo e l’altro fondo, quando manchino i segni di confine o siano diventati irriconoscibili. 2. In botanica, uno dei due modi di accrescimento della parete cellulare, e cioè quello dovuto alla deposizione di sostanze, per es. cellulosa, sulla parete già esistente con conseguente ispessimento di questa. 3. In grammatica, sostantivo che s’aggiunge a un altro per determinarlo e attribuirgli una proprietà particolare.
Grammatica. – L’apposizione può precedere il termine a cui si riferisce (per es.: il console Cicerone, il dottor Antonio, il cane Medoro) o seguirlo (per es.: Pietro Rossi, meccanico), ed è spesso capace di ulteriori determinazioni (per es.: Pirro, re dell’Epiro; Tacito, il grande storico romano; un mio amico, dottore in scienze commerciali). A differenza dell’attributo, che può essere necessario o accessorio, l’apposizione ha sempre funzione accessoria. Nelle lingue fornite di declinazione, l’apposizione concorda sempre nel caso col nome che determina, e, fin quando è possibile, nel genere e nel numero (quindi: lat. Cicero consul, Ciceronis consulis, ecc.). Nelle altre lingue la concordanza si limita al genere e numero, se l’apposizione è un nome mobile (il re Teodorico, la regina Vittoria); altrimenti può anche non esservi concordanza alcuna (il fiume Senna; i figli, oggetto delle più attente cure). All’apposizione latina subentra talora in italiano un rapporto di dipendenza: la città di Roma, il nome di Giulio (lat. urbs Roma, nomen Iulius); lo stesso rapporto si ha in determinazioni appositive del tipo quel monello di Pierino; quella birba di mio figlio, e sim.