ZEUSI (Ζεῦξις, Zeuxis, forse abbreviazione di Ζεύξιττος, che è il nome dato dai codici del Protagora di Platone)
Pittore d'Eraclea, probabilmente quella di Lucania: in tal caso uno degl'Italioti immigrati colà. Era un giovane, verso il 425 a. C., venuto da poco in Atene, e sembra che fosse già morto nel 394, quando Isocrate (Antidosis, 2) lo ricordò in un suo discorso: dovrebbe dunque essere vissuto una sessantina d'anni. Lavorò pure in Italia, a Crotone, e in Macedonia, a Pella, sulla fine del sec. V, e, se vogliamo credere all'aneddoto di Eliano (Varia hist., II, 2), avrebbe dimorato anche a Efeso. Al dire di Plinio (Nat. Hist., XXXV, 61) due erano i maestri attribuitigli, Demofilo d'Imera e Neseo da Taso. Come familiare a Socrate, è nominato da Platone e Senofonte. Concorde è il giudizio degli antichi nel riconoscere in Z. uno dei più grandi maestri, ma è difficile a noi intendere in che consistesse la sua originalità artistica e tecnica. Quintiliano (Instit. or., XII, 10, 4) gli attribuisce la norma delle luci e delle ombre, e poiché Plinio lo indica come il continuatore di Apollodoro lo σκιαγράϕος, dobbiamo ritenere che l'Eracleota abbia dato un valore nuovo a quei principî, trovando più potenti effetti di luce: possiamo considerarlo, sotto questo rispetto, come il Rembrandt dell'antichità. Luciano esalta invece la ricerca di temi inusitati, l'invenzione di nuovi tipi. Aristotele (Poet., 25) gli riconosce la bellezza ideale delle figure, che supera il modello, pure avvertendo che mancava alle sue opere la maestà di Polignoto. Non manca qualche altra censura: Quintiliano afferma che le figure di Z. erano massicce, e Plinio riferisce che qualcuno criticava le proporzioni delle teste, troppo grosse. Dell'altissimo concetto ch'ebbe di sé stesso l'artista, sono documento due suoi epigrammi (Anthol., append. III, 29 e Plin., XXXV, 63, che traduce quello riferito da altri ad Apollodoro) nei quali egli afferma che nessuno lo può superare. E si può aggiungere la tradizione che egli avrebbe deciso un giorno di non vendere più i suoi quadri, ma di donarli, ritenendo che non vi fosse somma bastevole per pagarli quanto valevano. Il successo gli fruttò una vera ricchezza: quali fossero i suoi onorarî si può argomentare dalle 400 mine (circa kg. 175 d'argento, o un po' meno di 16 kg. d'oro) che ebbe dal re Archelao di Macedonia, per la decorazione del palazzo (Eliano loc. cit., XIV, 17).
Le opere ricordate sono una dozzina, tutte su tavola, ma alcune notizie sono semplici barzellette, come quella d'un ritratto di vecchia che avrebbe cagionato la morte del maestro, scoppiato dalle risa nel rimirare il lavoro (Festo, p. 228 Lindsay), dell'uva, che sarebbe stata beccata dagli uccelli, sia come "natura morta" sia aggiunta ad un putto. D'un quadro soltanto, "una famiglia di centauri", possiamo farci un'idea, rispetto ai tipi e alla composizione, perché Luciano (Zeuxis, 3-8) l'ha descritto attraverso una copia, quando da gran tempo l'originale s'era perduto in un naufragio. Da un lato, accovacciata sull'erba, la centauressa era in atto d'alzarsi, puntando al suolo le zampe anteriori, e aveva al seno uno dei piccoli, mentre l'altro poppava a modo d'un puledro: il padre, quasi sorgendo da un masso che ne celava la parte equina, teneva sollevato un leoncello, come per impaurire, scherzando, i rampolli. L'invenzione del soggetto, la bellezza delle forme nella femmina, lo studio delle espressioni, sono i pregi che il descrittore esalta di più. Gran fama ebbe un'Elena, eseguita per il tempio di Era Lacinia, presso Crotone. Da cinque fanciulle, Z. avrebbe ritratte le membra più perfette, per comporre la figura ideale della bellezza muliebre: Cicerone (De inventione, II, 1, 1) aggiunge che le modelle furono celebrate da molti poeti. Plinio dice che, ai tempi suoi, la pittura era a Roma; Eustazio (Ad Iliad., II, p. 868) riferisce, non sappiamo da qual fonte, ch'era stata in Atene. Eliano (Varia hist., IV, 12) racconta della mercede che il pittore riscuoteva per mostrarla.
Degli altri dipinti sappiamo anche meno. Plinio ricorda come maestoso uno Zeus in trono, circondato da altri numi, e la scena di Eracle bambino che strozza i serpenti, poi un'Alcmena donata agli Agrigentini. Quest'ultima poteva essere una figura isolata, come sembra che fossero altri soggetti: Eros coronato di rose (scholio a v. 991 segg. degli Acarnesi d'Aristofane), Pan, Marsia legato, la Penelope che mostrava con l'aspetto la sua buona condotta, un atleta. Luciano (Timon., 54) accenna genericamente a Borea e Tritone; Tzetze, tardo compilatore bizantino, ricorda (Chiliade, VIII, 390) un Menelao che liba sulla tomba del fratello, dicendo ch'era esistito a Efeso, ma è fonte assai discutibile. Pitture monocrome "in bianco" e lavori in plastica, forse rilievi dipinti, non si sa che cosa rappresentassero. Ai tempi di Tiberio si vendevano a Roma dei falsi "Zeusi" (Fedro, Fabulae, V, 1, 7).
Ritrovare qualche traccia dello stile di Z. in opere antiche non sembra oggi possibile. Nelle pitture vascolari contemporanee, pure astraendo dalla tecnica, tanto lontana allora da quella della grande arte, gl'influssi di parecchi maestri rendono più arduo che mai il giudizio. L'Ippodamia d'una nota anfora d'Arezzo ha qualcosa di massiccio che forse potrebbe riferirsi alla tendenza ricordata più sopra. E anche nella produzione pittorica d'età romana riflesso dell'opera di Z. ci sfugge, né sappiamo dire quanto ne resti in un musaico della Villa Adriana, con un centauro che lotta contro belve, già messo a paio con il quadro descritto da Luciano.
Bibl.: H. Brunn, Gesch. der griech. Künstler, 2ª ed., II, Stoccarda 1889, p. 51 segg.; W. Klein, Gesch. der griech. Kunst, Lipsia 1904-07; E. Pfuhl, Malerei u. Zeichnung d. Griechen, II, Monaco 1923, p. 681 segg.
Per i testi: J. Overbeck, Antike Schriftquellen, Lipsia 1868, nn. 1647-91; A. Reinach, Textes grecs et latins rélatifs à l'hist. de la peinture, I, Parigi 1921, nn. 199-256, con un commento abbastanza utile.