ZENODOTO (Ζηνόδοτος, Zenodŏtus) di Efeso
Filologo alessandrino, scolaro di Fileta di Coo. Come il suo maestro e come tutta la prima generazione dei grammatici alessandrini, fu, secondo la tradizione, oltre che filologo, poeta. Fu il primo bibliotecario di Alessandria, il che aiuta a determinare approssimativamente la cronologia della sua vita, sebbene un papiro di Ossirinco, scoperto anni sono (X, 1241), abbia piuttosto suscitato che risolto la difficoltà. Si può tuttavia credere che egli fu bibliotecario tra il 290 e il 270. Con questa cronologia si accorda benissimo la notizia, ch'egli fosse precettore dei figli del Sotere: il più giovane dei quali, il Filadelfo, nacque nel 308. Verso il 275 i lavori omerici di Z. dovevano essere già noti.
Quale primo bibliotecario iniziò il lavoro di raccolta di tutta la produzione greca precedente. Sappiamo che mutò per congettura un passo di Anacreonte, per ragioni reali, zoologiche, e che discusse dell'ortografia di due luoghi pindarici. È tuttavia improbabile che egli abbia curato edizioni di lirici.
Di effetto duraturo sono i lavori su Omero. Z. raccolse glosse omeriche sul modello degli "Ατακτα del suo maestro Fileta. Ma principalmente curò un'edizione dell'Iliade e dell'Odissea. Edizione (ἔκδοσις) significa per gli Alessandrini la redazione di un unico esemplare, che doveva servire di base alla ricerca e alla discussione con gli scolari. Ma l'edizione di Z. ebbe per la storia del testo efficacia decisiva. Forse risale a essa la divisione di ognuno dei due poemi in 24 libri, benché sicuro sia soltanto che tale divisione risale a uno dei grandi Alessandrini. Per questa edizione Z. inventò il più antico segno critico, l'obelo (ὀβελός "spiedo"), che, segnato di fianco a un verso, lo caratterizza quale non autentico.
Già nell'antichità, si formò una leggenda che dipingeva Z. quale critico arbitrario, che cancella e muta versi a capriccio. Il pregiudizio contro Z. poté durare a lungo, perché noi siamo informati della sua opera principalmente dagli scolî omerici; i quali registrano le sue lezioni solo quando Aristarco divergeva da lui, e, sotto l'influsso di Aristarco, contro di lui polemizzano. Ma l'ingegno metodico del grande filologo A. Nauck e più tardi le scoperte dei papiri ci hanno mostrato che Z. era invece critico conservatore. E intanto noi sappiamo che Z. mentre ometteva del tutto versi che i posteriori riintrodussero in Omero, altri, che pur riteneva spurî, si contentava di contrassegnare coll'obelo, di "espungere". Quale la ragione di questa differenza? Evidentemente, che alcuni di questi versi erano omessi da parte della tradizione, mentre questa non confermava per altri il dubbio del critico. Gli scavi d'Egitto ci hanno rivelato che in quel paese circolavano esemplari omerici allargati con aggiunte di minimo valore. Merito di Z. fu di essersi accorto quanto poco valessero questi testi più estesi e di avere cercato e trovato (in Attica?) esemplari più fededegni. Siccome questi davano meno versi, Z. si tenne con ragione al criterio che il testo più breve fosse autentico. È naturale che questo metodo, applicato meccanicamente, producesse errori; ma era ancora il solo possibile. Che egli mantenesse versi da lui ritenuti spurî, purché documentati da tutta o dalla più autorevole tradizione, è suo merito insigne: se avesse proceduto altrimenti, una parte di Omero sarebbe stata perduta.
Il carattere conservativo della critica di Z. si palesa anche in ciò, che egli ha lasciato immutati passi corrotti e quindi incomprensibili. Quanto a varianti qualitative, molte di quelle accettate da Z. si sono man mano rivelate di altissimo valore. Di alcune, che si credevano sue congetture, è stato dimostrato che esse sono presupposte da imitatori di Omero (tutti i poeti greci imitano Omero) molto anteriori. Altre sono confermate dalla linguistica, cioè da una disciplina di cui Z. non aveva idea: così alcune di esse suppongono il digamma, di cui Z. ignorava l'esistenza. Altre si raccomandano per la loro stessa singolarità. E anche dove il testo di Z. appare peggiore di quello aristofaneo o aristarcheo, si vede spesso chiaro che egli è stato ingannato da manoscritti modernizzati o tinti di dialetto.
È perfin dubbio se Z. abbia introdotto congetture proprie nella sua edizione. Sicuro è che congetture audacissime furono perpetrate nel sec. IV e forse già nel V da una filologia soluta legibus. Z. fu spesso vittima di queste congetture, che, insinuatesi nei testi, dovevano a lui sembrare tradizione. Il testo di Z. fu forse migliore di quella che ora è la nostra volgata, sebbene sia naturale che Aristofane e Aristarco abbiano adoprato manoscritti ancora ignoti al loro predecessore, e sebbene egli abbia talvolta errato nella scelta delle lezioni, traviato da pregiudizî sulla "convenienza" (τὸ πρέπον) e da ubbie razionalistiche.
Bibl.: Sulla cronologia, v. biblioteca, VI, p. 943 e per la bibliografia, p. 947. L'attività omerica di Z. fu rivendicata da A. Nauck, Mélanges gréco-romains, II, p. 323. La ricostruzione di A. Römer, Über die Homer-Rezension des Zenodot (in Münchner Abh., 1886) parte da presupposti errati. Molto meglio N. Wecklein, Über Zusätze und Auslassung von Versen in homerischen Texte, e Über Zenodot und Aristarch (in Münchner Sitz.-Ber., 1918-19); e ancor meglio U. v. Wilamowitz, Die Ilias und Homer, Berlino 1916, passim. Esagera nello zenodotismo H. Bolling, External evidence for interpolation in Homer, Oxford 1925; più rettamente giudica H. Fränkel, in Gött. Gel. Anz., 1926, 237 segg. Conferme linguistiche a lezioni zenodotee in Wackernagel, Sprachlichte Untersuchungen zu Homer, Gottinga 1916, p. es. 71, 54. Su forme modernizzate, Wackernagel, op. cit., pp. 71-74; per un beotismo, Wilamowitz, op. cit., p. 41, n. 2. Per le relazioni con gli ἐνστατικοί e λυτικοι (sui quali K. Lehrs, De Aristarchi studiis Homericis, 3ª ed., Lipsia 1882, p. 335); v. E. Schwartz, Adversaria, progr., Gottinga 1908. Su tutto il problema orienta G. Pasquali, Storia della tradizione e critica del testo, Firenze 1934, pagine 201-247.