COLÒ, Zeno
Nacque il 30 giugno 1920 in località la Consuma nel Comune sparso di Abetone Cutigliano in provincia di Pistoia, primogenito di Teresa Rubechi e di Alfredo.
Zeno Colò crebbe in una famiglia – composta anche dalle sorelle Maria e Paolina e dal fratello Roberto, quest’ultimo affetto da sindrome di Down – di umili origini. Nonostante la miseria, il giovane Colò fin da tenera età cominciò a destreggiarsi per le piste e i boschi abetonesi grazie ai primi rudimentali sci in legno costruiti dal padre, che manteneva la famiglia facendo il boscaiolo. Lo sci non rappresentava per lui solo un divertimento, ma soprattutto un imprescindibile mezzo di trasporto invernale, fondamentale per aiutare il padre a 'fare legna'. In questo modo il giovane Colò cominciò a forgiare sia il coraggio, sia i muscoli e, in particolare, quelle 'gambe d’acciaio' che gli consentirono di entrare nella storia dello sci alpino.
Decisivo, per il suo sviluppo tecnico-sportivo, fu anche il contesto in cui crebbe. Sebbene fra le due guerre mondiali l’Appennino pistoiese fosse una zona particolarmente depressa – specializzata nella produzione del legno, del ferro e del ghiaccio e sostanzialmente esclusa dai principali circuiti economici – nel corso degli anni Trenta l’Abetone riuscì ad affermarsi come uno dei principali centri sciistici italiani, o quantomeno come il più importante al di fuori delle Alpi. I primi sci, provenienti dalla Norvegia, erano arrivati sulle montagne pistoiesi intorno al 1904; nel corso degli anni Venti la stazione sciistica toscana aveva iniziato a svilupparsi come meta turistica e, nel decennio successivo, su quelle piste emerse un’autentica generazione d’oro. Del resto le discese abetonesi, pur non avendo il dislivello di quelle alpine, si caratterizzavano per una neve 'difficile' e percorsi ostici su cui, più che alla velocità pura, ci si allenava al pericolo. Fra i campioni pistoiesi che quasi monopolizzarono la nazionale nel corso degli anni Trenta meritano una citazione Franco Sisi, i Petrucci (Olinto, Alessandro, Erina, Gualtiero e Marcella), i Ferrari (Guido, Vittoria e Anna Maria), i Seghi (Gino, Maria e Celina) ma soprattutto Rolando Zanni e Vittorio Chierroni. Questi ultimi due, in particolare, influenzarono profondamente la carriera di Colò rispettivamente come un punto di riferimento e come il suo principale rivale.
Colò mise in luce le sue qualità fin da ragazzino e, dopo le brillanti affermazioni nei tornei per juniores, nel 1940 entrò a far parte degli alpini alla Scuola centrale militare di alpinismo di Aosta. Questo istituto, fondato nel 1934 con l’obiettivo di migliorare la qualità del combattimento in montagna, aveva anche un’inclinazione sportiva. Proprio difendendo i colori del Nucleo pattuglie sci-veloci alpine Colò ottenne i primi importanti successi a livello nazionale. Il primo exploit arrivò nel 1941 quando, in occasione dei Campionati nazionali assoluti 'di guerra', si impose in tutte e tre le prove (discesa, slalom e combinata). Ciononostante, in occasione del IV Campionato mondiale di sci di Cortina (1941) fu convocato solamente come riserva. Si trattò di un’edizione sui generis a cui parteciparono atleti provenienti solo da paesi legati al Tripartito o neutrali. Anche per questa ragione, a guerra finita quel campionato fu declassato dalla Federazione internazionale sci (FIS) a semplice concorso internazionale. In quell’occasione Colò si dovette accontentare di fare l’apripista della prova di discesa libera, che completò con un tempo che gli avrebbe garantito il secondo posto. Le sue qualità sportive gli permisero di stare lontano dalla guerra, ciononostante nel 1942 il conflitto provocò la completa interruzione dell’attività internazionale e una drastica riduzione di quella nazionale.
Con l'armistizio dell’8 settembre 1943 arrivò anche il momento delle scelte. Colò fece parte di quel gruppo del Nucleo pattuglie sci-veloci alpine capitanato da Massimo Gagnoli che, non volendo farsi disarmare dai tedeschi ma conscio di poter offrire ben poca resistenza sul piano militare, svuotò i magazzini e le armerie, inforcò gli sci e attraversò il confine per consegnarsi alle autorità svizzere. Le qualità sportive di Colò e l’aiuto offerto dal nobile di origine ungherese, il barone Hugo De Rain, gli permisero di rendere più lieve il periodo dell’internamento. Con altri sciatori fu trasferito da Visp a Mürren, dove ricominciò a gareggiare. Per evitare che i suoi parenti potessero subire qualsiasi tipo di ripercussione da parte dei 'repubblichini' di Salò a causa della sua 'diserzione', assunse lo pseudonimo Blitz (in tedesco 'lampo'). Per due inverni consecutivi Blitz, Donner (lo pseudonimo di Silvio Alverà) e Smeterlink (ovvero Roberto Lacedelli) presero parte a diverse gare organizzate nelle principali località sciistiche elvetiche.
Finita la guerra, Colò riuscì a rientrare rapidamente a casa. Dopo un viaggio di fortuna, nel maggio del 1945 tornò all’Abetone dove si ricongiunse con la famiglia e riprese a fare il taglialegna. La guerra gli aveva portato via i primi anni di carriera, ma era ancora sufficientemente giovane per coltivare ambizioni agonistiche.
Il primo inverno, quello del 1945-1946, su invito dei compagni Roberto Lacedelli, Alberto Macellin ed Eugenio Bonicco lo trascorse a Madesimo, dove gareggiò difendendo i colori dell’omonimo sci club. La località lombarda quell’anno ospitò anche i campionati italiani in cui Colò giunse primo in slalom e combinata e quarto in discesa. In quella stagione l’attività internazionale fu sostanzialmente limitata a qualche incontro bilaterale informale con la Svizzera e Colò prese parte a quello organizzato fra gli sci club di Madesimo e St. Moritz. Le federazioni dei paesi vincitori avevano infatti imposto una silenziosa quarantena nei confronti dell’Italia in attesa che la sua posizione fosse discussa nel primo congresso della FIS nel dopoguerra, che si svolse in Francia nell’agosto del 1946. In quell’occasione, al contrario di Germania e Giappone, l’Italia riuscì a evitare l’esclusione dal consesso sciistico internazionale grazie anche al supporto dei paesi latini.
Malgrado la positiva esperienza con lo Sci club Madesimo, Colò era troppo legato alla sua terra, ai suoi boschi e alle sue piste per starne lontano. Così, già a partire dall’inverno successivo tornò a vestire di rosso, il colore dello Sci club Abetone, cui rimase legato per il resto della carriera rifiutando importanti offerte di lavoro. L’aria di casa ebbe un effetto positivo. Nei campionati italiani vinse il titolo di slalom e di combinata, classificandosi secondo in discesa, ma soprattutto, esauritasi la 'silenziosa quarantena' internazionale dell’Italia, fu convocato in azzurro e, a metà gennaio, centrò un importante terzo posto nella combinata del Lauberhorn, a Wengen. Due mesi più tardi, sempre in Svizzera, vinse la prova di discesa libera nella XII edizione dell’Arlberg-Kandahar disputatasi a Mürren. Dal 1928, ruotando le sedi di gara fra St. Anton, Mürren e poi Chamonix, il Kandahar era – almeno fino alla nascita della Coppa del Mondo nel 1966 – il più importante trofeo sciistico annuale. Anche se la combinata, e dunque anche il trofeo, fu vinto dal francese James Couttet, il successo in discesa di Colò rappresentò un momento importante per lo sci italiano, poiché andava a infrangere la superiorità transalpina, considerata inattaccabile.
Nel 1947 il nome di Colò balzò all’onore delle cronache anche perché si rese protagonista di un’impresa nata quasi per gioco: la conquista del record di velocità sul chilometro lanciato. Il 9 maggio, sulle nevi del Plateu Rosa a Cervinia, attraversò i cento metri cronometrati raggiungendo la velocità record di 159,292 chilometri l’ora. Alla prova, organizzata da Aldo Bobba, presero parte anche altri tre sciatori: l’amico Zanni, Marcellin e soprattutto Leo Gasperl. L’italo-austriaco, ex allenatore della Nazionale e di Colò, era anche il detentore del record, conquistato a St. Moritz nel 1931 con la velocità di 136,6 km/h, e si rivelò il rivale più agguerrito. Nella prima delle tre discese, che si svolsero l’8 maggio di fronte a poco pubblico ma in condizioni di neve perfette, Gasperl ottenne il tempo più veloce, finché alla terza e ultima prova, l’ 'allievo' Colò conquistò il primato, superando il suo maestro con un tempo di 152,542 km/h. Il giorno successivo migliorò il record sfiorando i 160 km/h. Lo fece con normali sci di legno della ditta Cambi, senza casco o altre 'bardature' usate in altri tentativi e con i postumi di un infortunio alla gamba subito una ventina di giorni prima in allenamento.
L’anno successivo Colò, che anche alla luce di questo primato era ormai considerato il miglior sciatore della Penisola, divenne il primo italiano a conquistare la temuta e prestigiosa discesa del Lauberhorn a Wengen, che aveva solo sfiorato l’anno precedente. Il 1948 era soprattutto l’anno olimpico e in molti, dopo quel successo in Svizzera, erano convinti che avrebbe potuto conquistare una medaglia nella quinta edizione dei Giochi invernali, previsti sempre in terra elvetica a St. Moritz dal 30 gennaio all’8 febbraio 1948. Pur essendo all’esordio in una grande manifestazione internazionale, Colò era, assieme agli austriaci Franz Gabl ed Egon Schöpf, ai francesi Henri Oreiller e Couttet e agli svizzeri Romedi Reinalter e Karl Molitor, tra i favoriti. Nella gara di discesa, che si corse il 2 febbraio, non volle fare calcoli e si gettò a capofitto lungo la pista per inseguire l’agognato alloro. Nella prima parte di gara fece registrare il miglior intertempo, ma poco dopo l’irruenza gli giocò un brutto scherzo e, tradito da una gobba, cadde rovinosamente fuori pista e ruppe gli sci. Andò quasi peggio due giorni dopo nello slalom speciale poiché si piazzò mestamente al 14° posto. L’amarezza per la sconfitta gli diede però nuove energie e, nel finale di stagione, riaffermò il proprio valore conquistando tutti e tre i titoli in palio ai campionati italiani e vincendo le più importanti competizioni nazionali.
Dopo un’estate passata a smaltire le delusioni olimpiche lavorando nei boschi, nel 1949 Colò andò alla ricerca di nuovi successi. Nel classico appuntamento di metà gennaio a Wengen una caduta gli impedì di ripetere il successo in discesa, ma si rifece immediatamente conquistando lo slalom. A Chamonix, nonostante la rottura di un bastoncino giunse, di un soffio, secondo in discesa; sulle piste del Sestriere, tuttavia, dimostrò nuovamente di essere il più forte vincendo le tre prove della coppa Tre funivie e riuscendo finalmente a prendersi la rivincita sui francesi. Dopo aver trionfato anche nei campionati italiani e nelle gare di Madesimo, Colò si recò a St. Anton dove era prevista la XIV edizione dell’Arlberg-Kandahar, la più importante e attesa gara della stagione. Sulla pista austriaca dimostrò tutta la sua classe. Nella discesa centrò il nuovo record della pista e rifilò oltre cinque secondi ai rivali; nello slalom, nonostante la neve molle da lui mai troppo gradita, riuscì a difendersi agguantando un secondo posto che gli permise di sollevare l’ambito trofeo, che prima di lui in Italia aveva conquistato solo la sua amica e compaesana Celina Seghi nel 1947 e nel 1948. Nel finale di stagione, legittimò ulteriormente la sua superiorità, riconosciutagli ormai anche al di là delle Alpi, mettendo a segno uno straordinario poker di vittorie in tutti e quattro gli slalom previsti a Solaise, in Val d’Isère in Francia.
Alla soglia dei trent’anni Colò era ormai a tutti gli effetti un campione, ma gli mancavano ancora la consacrazione mondiale e quella olimpica. Il primo di questi obiettivi fu raggiunto nel 1950 ad Aspen, in Colorado, dove dal 13 al 18 febbraio si disputò la prima edizione dei Mondiali di sci del dopoguerra. Colò fu uno dei pochi punti fermi di una squadra che, per via degli elevati costi della trasferta, era formata da soli cinque atleti. Fu un autentico trionfo. La 'freccia dell’Abetone' dominò vincendo due ori e un argento, ma anche i suoi compagni ottennero ottimi piazzamenti, in particolare Celina Seghi, terza nello slalom speciale. Il 14 febbraio Colò aveva conquistato la sua prima medaglia d’oro vincendo davanti allo svizzero Grosjean e ai francesi Couttet e Oreiller lo slalom gigante, che proprio ad Aspen fece il suo esordio come disciplina mondiale. Due giorni dopo, nello slalom, si era classificato secondo dietro allo svizzero Othmar Schneider. Infine, su una pista considerata tra le più difficili al mondo, concluse il suo superbo Mondiale con un’affermazione nella disciplina che più di tutte amava: la discesa libera. In quella gara, sciando in maniera sensazionale, diede un secondo e tre decimi al suo principale rivale, il francese Couttet, e mise in fila tutti i migliori specialisti del tempo fra cui Schöpf, Perren e Christian Pravda. La Gazzetta dello Sport titolò enfaticamente: Tutti battuti: il più grande campione di tutti i tempi conquista all’Italia un secondo titolo mondiale e anche i quotidiani stranieri celebrarono il suo trionfo. Il New York Times scrisse: «Ci si aspettava che il tagliaboschi trentenne scendesse dalla montagna con il suo solito stile spericolato e spettacolare, ma questa volta l’Italiano dall’aspetto delicato sui suoi scintillanti sci è stato il ritratto della grazia» (19 febbraio 1950).
Il successo non trasformò di certo il riservato e taciturno Colò; lo si evince chiaramente dalla lettera che inviò alla sua sposa Laura Petrucci e alla famiglia: «Cara moglie cari genitori, sono molto contento. Ho incontrato Gary Cooper e mi hanno fatto centinaia di fotografie. Mi vedrete anche al cinematografo. Spero che anche voi siate felici e abbiate festeggiato le mie vittorie come ho fatto io: con una buona bevuta» (cit. in Cambi - Meucci, 2013, p. 17).
Dopo le sue gesta ai Mondiali, fu invitato a partecipare ai Campionati nord-americani, che in quell’anno si disputarono sulle piste canadesi di Banff, e alle gare a Sun Valley valide per la Coppa Harriman. In Canada conquistò la combinata riconfermandosi in discesa e vincendo anche nello slalom, in cui si prese la rivincita su Schneider che lo aveva sopravanzato ai Mondiali. I successi di Colò oltreoceano contribuirono a proiettare l’Abetone e i suoi abitanti al centro dell’attenzione nazionale e internazionale. Anche per questo, una volta tornato a casa, trovò ad aspettarlo una Fiat 500, generoso omaggio dei suoi amici e compaesani come riconoscenza per le emozioni che lo sciatore toscano aveva dato loro.
La stagione agonistica del 1951 iniziò in modo tutt’altro che scintillante, con molti piazzamenti e poche vittorie. Persino in Italia la sua egemonia venne messa in discussione dal giovane cortinese Eugenio Monti. Non fallì però nell’appuntamento più importante della stagione: l’Arlberg-Kandahar che per la prima volta si svolgeva sulle nevi italiane a Sestriere. Sulle ripide piste del Rio Nero Colò dominò in discesa con un tempo sbalorditivo e, nonostante il quinto posto nello slalom, riuscì ad aggiudicarsi il suo secondo Kandahar in carriera.
Alla soglia dei 32 anni a Colò restava ancora un grande sogno: una medaglia olimpica. Malgrado la non più verde età e i nuovi avversari arrivò ai Giochi di Oslo del 1952 tra i favoriti, tuttavia nello slalom gigante inaugurale rimediò soltanto uno sfortunato quarto posto, risultato che ripeté anche nello speciale. Il 16 febbraio, però, nella sua disciplina, la discesa libera, Colò fece la gara perfetta e, stabilendo anche il record della pista, raggiunse il meritato trionfo. Come dichiarò al traguardo, prima ancora che tutti i rivali fossero scesi: «La pista era pericolosa, non ne ho tenuto conto. Ma più forte di così non si poteva andare» (Jacomuzzi, 1964, p. 645). Più che una rivincita su quegli atleti che lo avevano preceduto in slalom – alle sue spalle si piazzarono gli austriaci Schneider e Pravda, lo svizzero Fredy Rubi, l’americano William Beck e il norvegese Stein Eriksen – fu soprattutto una rivalsa nei confronti della sorte e di quella cunetta che quattro anni prima lo aveva mandato a gambe all’aria a St. Mortiz. Giovanni Battista Fabjan, nella sua duplice veste di giornalista e segretario della Federazione Italiana Sport Invernali (FISI) scrisse su La Gazzetta dello Sport: «La vittoria del più grande discesista di tutti i tempi è il frutto di una superiorità tecnica, di coraggio e di volontà, dove nulla, proprio nulla è concesso alla sorte» (17 febbraio 1952).
L’oro olimpico di Oslo rappresentò il suo capolavoro e allo stesso tempo il suo canto del cigno. Gli stimoli cominciavano a mancare e, per un atleta dilettante, era tempo di guardare al futuro. Così il 1953 lo passò lontano dalle gare, concentrandosi sul lavoro ma senza smettere di sciare e di collaborare con quel mondo che tanto amava. Dopo un anno di inattività il richiamo della competizione fu però troppo forte, anche perché i campionati italiani del 1954 si svolgevano proprio all’Abetone. Vi partecipò conquistando tre titoli assoluti. Con uno straordinario inizio di stagione dimostrò di essere ancora di gran lunga il migliore discesista italiano, eppure ciò non fu sufficiente per schierare Colò ai Mondiali che si disputarono dal 1° al 7 marzo ad Åre in Svezia. Alla vigilia delle gare internazionali, infatti, la FISI lo squalificò per professionismo in quanto alcune ditte – la Nordica e la Colmar – in cambio di un compenso intorno ai tre milioni di lire avevano commercializzato scarponi e giacche a vento firmate con il suo nome. Nel corso degli anni Cinquanta le aziende sportive avevano cominciato a comprendere che i campioni dello sci rappresentavano un potenziale economico non utilizzato, tuttavia i principali dirigenti internazionali del tempo, in nome dei valori olimpici, erano fermamente convinti che questo sport dovesse essere praticato esclusivamente secondo i dettami del più rigido dilettantismo. I suoi biografi tendono a descrivere quella di Colò una leggerezza, ma probabilmente, dopo aver vinto tutto quello che c’era da vincere, accettare a 34 anni le lusinghe degli sponsor fu anche una pragmatica scelta di vita di un uomo che solo quattro anni prima andava alle gare in treno e che, proprio per inseguire il sogno olimpico, aveva rifiutato le ben più ricche offerte statunitensi. Situazioni simili erano capitate anche ad altri sciatori europei, ma le rispettive federazioni li avevano protetti sfruttando le 'zone grigie' dei regolamenti. Invece, con i Giochi di Cortina del 1956 alle porte e soprattutto con la candidatura olimpica di Roma per il 1960 in discussione nel 1955, la FISI e il CONI, con un eccesso di zelo, vollero dimostrarsi ligi alle regole trasformando Colò in un simbolo da sacrificare sull’altare del prestigio internazionale. In ogni caso la fama di Colò – presente in Svezia come tecnico della spedizione azzurra – era tale che gli organizzatori di Åre lo vollero comunque come apripista della discesa, completata con un tempo che se cronometrato ufficialmente lo avrebbe portato sul podio.
Profondamente amareggiato, Colò si rifugiò all’Abetone. A 35 anni la sua carriera sembrava ormai finita, ma complici anche i limiti tecnici e sportivi delle nuove leve azzurre e il riavvicinamento con la FISI, nel 1955 ebbe ancora la forza di arrivare primo in libera e slalom e secondo nel gigante ai Campionati italiani. Proprio quando i dissidi sembravano ormai rientrati, alla vigilia della Coppa Colli giunse dalla FISI una nuova squalifica sempre per professionismo. In questo modo per Colò, che restava il miglior sciatore azzurro, si spegnevano definitivamente le speranze di partecipare alle Olimpiadi di Cortina del 1956. Fu una delusione talmente grande che neppure la nomina a Cavaliere della Repubblica per meriti sportivi voluta da Luigi Einaudi riuscì a lenire l’amarezza. Così il 26 gennaio 1956, giorno d’apertura delle prime Olimpiadi disputate in Italia Colò non era nello stadio con gli atleti azzurri ma in cima alla pista delle Tofane, dalla quale scese sciando per portare la fiamma olimpica allo stadio dove la cedette agli altri tedofori. Fu quello il commiato della 'freccia dell’Abetone' dai suoi tifosi.
Taciturno, riservato, tenace, testardo, schivo ma non scontroso, Zenò Colò fu il primo grande campione prodotto dallo sci italiano. Oltre al talento naturale e a una notevole dose di coraggio e sfrontatezza, molto del suo successo fu dovuto a una straordinaria etica del lavoro. Aveva il culto della fatica, basti pensare che d’estate, quando non era all’Abetone ad 'allenarsi' lavorando come taglialegna, era solito salire lo Stelvio in bicicletta anche tre volte a settimana. Il suo unico vizio erano le 'nazionali' di cui, anche prima delle gare, era un fumatore accanito.
Tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta fu, come ammise anche il suo rivale, lo svizzero Molitor, «il più forte nel campo della discesa pura» (Giacomini, 1968, p. 362). Pur non sciando in maniera 'pulitissima' per i canoni estetici dell’epoca, Colò fu senz’altro un innovatore. Il suo stile raggruppato aereodinamico, la sua posizione raccolta, prepararono il terreno per la nascita del moderno discesismo e di quella che sarebbe stata conosciuta come la posizione 'a uovo', poi perfezionata dai francesi e in particolare da Jean Vuarnet.
Conclusa la carriera agonistica, lo sci, che molto gli aveva dato sul piano della gloria ma poco dal punto di vista economico, divenne la sua professione. Contribuì a disegnare numerose piste e supervisionare impianti, ma soprattutto si dedicò all’insegnamento, prima a Madesimo poi nella sua amata Abetone, dove diresse anche la locale Scuola Nazionale di Sci. D’estate si spostava sui ghiacciai, prima a Courmayeur, poi al rifugio Livrio sullo Stelvio.
Non divenne mai ricco, visse con la moglie ma non ebbe figli. Continuò a sciare fino a tarda età, finché nel 1987 gli fu diagnosticato un tumore al polmone. Economicamente in difficoltà per pagarsi le cure, ricevette, dopo l’interessamento dell’on. Colucci un vitalizio in virtù della legge Bacchelli, che gli consentì di sopravvivere dignitosamente. Accettando il contributo commentò amaramente: «Malato sì, nel senso che non posso lavorare come ho sempre fatto, ma la parola miseria mi sembra un po' forte. Sarebbe stato meglio dire in non floride condizione economiche» (La Stampa, 13 maggio 1993).
Morì nell’ospedale di San Marcello Pistoiese il 12 maggio 1993. Il giorno dopo, in un Abetone a lutto, oltre duemila persone parteciparono al suo funerale. Fra questi il suo erede Alberto Tomba, che dichiarò a La Stampa: «Sono qui per onorare il mio maestro ed un grande campione» (14 maggio 1993).
F. Campiotti, I segreti dei maestri di sci, Milano1957; Q. Sarti - M. Masetti, Da Lars Tuorda a Z. C.: enciclopedia dello sci, Bologna 1957; R. Marchi, Il fulmine Z. C., in 60 anni di sport in Italia, a cura di Giordano Goggioli, Firenze 1960; S. Jacomuzzi, Sci e guidoslitte, in Gli sport a cura di S. Jacomuzzi, Torino 1964; 122 piste di discesa illustrate da Z. C., a cura di G. Maioli, Rocca San Casciano 1966; Catalogo Bolaffi dello sci, a cura di G. Bruno, Torino 1966; R. Giacomini, Sport invernali, in Enciclopedia dello Sport, Roma 1968; R. Marchi, Cinquant’anni di sci in Italia e i Campionati del mondo 1970, Milano 1970; R. Vannacci, Z. C.: una vita dedicata allo sci raccontata per immagini, Firenze 1982; M. Di Marco, La leggenda dello sci alpino, Milano 1997; R. Bassetti, Storia e storie dello sport in Italia. Dall’unità ad oggi, Venezia 1999; A. Teja - S. Giuntini, L’addestramento ginnico-militare nell’esercito italiano (1946-1990), Roma 2007; F. Cambi - G. Meucci, Z. C., Ospedaletto 2013; S. Giuntini, I grandi risultati sportivi, in Il CONI nella storia dello sport e dell’Italia contemporanea, Roma 2015; N. Sbetti, La "diplomazia sportiva" italiana nel secondo dopoguerra: attori e istituzioni (1943-1955), in Diritto dello Sport, 2016, n° 1.