TREVISAN, Zaccaria
junior. – Nacque, forse a Venezia, nel 1414 da Zaccaria senior, dottore e cavaliere (il noto umanista; v. la voce in questo Dizionario), morto nello stesso anno, e da Caterina (Cattaruzza) Marcello; apparteneva alla famiglia Trevisan di S. Stae, che, benché ammessa in Maggior Consiglio solo nel 1381 (per le benemerenze acquisite durante la guerra di Chioggia), nel XV secolo appare inserita stabilmente nella più ristretta élite del patriziato.
Non deve essere confuso con l’omonimo e coetaneo cugino Zaccaria di Febo, padre del procuratore di S. Marco Domenico e nonno del doge Marcantonio.
Nel 1432 fu presentato in Avogaria dal prozio Azzo e dall’umanista Francesco Barbaro, suo mentore nonché amico e discepolo di Zaccaria senior, che nel testamento lo aveva parificato ai propri figli. A sua volta il giovane Trevisan si sarebbe rivolto a Barbaro (in una delle due lettere pervenute fino a noi) chiamandolo esplicitamente «padre ottimo» e «integerrimo» (Francisci Barbari et aliorum ad ipsum Epistolae, 1743, p. 243) e fu certo anche il suo esempio a spingerlo a dedicare agli studi l’intera giovinezza.
Infatti, anche se nel 1434 era entrato in Maggior Consiglio come avogadore piccolo presso un tribunale minore (avendo ancora Barbaro come padrino), le sue occupazioni principali furono in quel periodo altre: completati gli studi di umanità fu allievo di Paolo della Pergola alla scuola di Rialto e quindi passò all’università di Padova, dove l’8 novembre 1434 ottenne la licenza e il dottorato in arti. In seguito si dedicò allo studio del diritto, componendo anche un’orazione (1435) per la licenza in utroque di Giovanni Marin, un compagno di studi e futuro collega in politica. Come il padre, pensò inizialmente di dedicarsi alla carriera ecclesiastica, e pare abbia ricevuto gli ordini minori o almeno la tonsura: lo afferma Barbaro raccomandandolo come fratello e tutore al cardinale di Aquileia Ludovico di Teck per la nomina a protonotario apostolico (una posizione ambita da molti umanisti); ben presto, però, il giovane mostrò aspirazioni diverse e nel 1439 sposò Dorotea Venier (figlia del kavalier Santo e di Franceschina Foscari, la sorella del doge) da cui ebbe almeno tre maschi: Giovanni (consigliere ducale), Andrea (dottore in utroque, podestà di Feltre e poi, su richiesta dei canonici, vescovo della stessa città) e Benedetto. Il 25 e il 26 agosto 1442, poi, ottenne licenza e dottorato in diritto.
Per l’occasione Marco Donà compose una orazione in cui la lode del celebre padre si unisce a quella di Zaccaria stesso, di cui si sottolineano l’austerità che l’aveva portato a dedicarsi agli studi e la particolare modestia nel comportamento, ritenuta ancora più adatta a un ecclesiastico che a un aspirante alla carriera politica.
Zaccaria avrebbe replicato (almeno fino a un certo punto) la gloria conseguita dal padre, ma con due importanti differenze: se questi aveva ricoperto cariche di governo a Firenze e a Roma e aveva sempre saputo trovare un equilibrio tra interessi culturali e attività politica, il figlio da un lato avrebbe trascorso tutta la vita al servizio della Repubblica ma dall’altro avrebbe sostanzialmente ridotto capacità e conoscenze acquisite a uno strumento funzionale al perseguimento di una carriera di altissimo livello, che lo portò a entrare appena trentenne nei grandi Consigli della Repubblica (Collegio, Consiglio dei dieci, Signoria). A essi appartenne praticamente senza interruzioni, salvo i periodi in cui fu impegnato fuori Venezia: fu almeno quattro volte consigliere ducale (la prima a soli trentaquattro anni), almeno cinque volte fra i Dieci, almeno dodici volte in Collegio (come savio di Terraferma fino al 1451 e poi come savio grande).
E tuttavia fu soprattutto come rettore di città suddite e diplomatico che egli poté mettere a frutto le proprie abilità retoriche e la conoscenza del diritto comune. Già nel 1443 fu eletto ambasciatore a Bologna, poi nel 1444 andò a Rimini presso Sigismondo Malatesta, nel 1445 di nuovo a Bologna e quindi nel 1446 a Firenze; richiamato nell’aprile del 1447, fu inviato a presentare l’omaggio della Signoria al nuovo papa Niccolò V e, tra i quattro patrizi partecipanti, toccò proprio a lui comporre e recitare l’orazione di saluto. Nel 1448, invece, si recò presso Ludovico di Savoia per discutere di una alleanza militare; doveva desiderare moltissimo questi incarichi, perché Marin Sanudo il Giovane afferma che arrivò a rinunciare alla dotazione stanziata pur di ottenere quella missione.
Del resto le sue possibilità economiche dovevano essere superiori alla media perché Ludovico Foscarini lodò la sua generosità verso i nobili poveri, tra i quali si era formato una vera e propria clientela, e sembra avesse fama di aiutare anche altri umanisti, tra cui il segretario del Senato Niccolò Sagundino.
La successiva tappa della sua carriera (la prima in un rettorato di Terraferma) fu la podesteria nell’importante centro di Verona (1449-50), che coincise con l’approvazione della riforma degli statuti cittadini. Non di rado nel Quattrocento ne furono protagonisti, anche altrove, podestà umanisti e/o giuristi (Francesco Barbaro a Vicenza nel 1425, Ludovico Foscarini a Feltre tra il 1439 e il 1440). Per retorica e per adulazione, ma anche in ossequio a una concezione del rettore cittadino come rappresentante degli interessi locali piuttosto che della Dominante nel proemio degli statuti si volle sottolineare come «[la nuova redazione] videtur ius Zacharianum appellari posse, et quidem convenientius quam Papinianum ac Flavianum ius fuerit appellatum» (Statuta..., 1582, p. [VII]), sottolineando la sua preparazione come giurista di diritto comune. A Verona fu anche collocata una iscrizione in suo onore.
Negli anni successivi Trevisan, oltre a partecipare ai Consigli veneziani, ricevette altri incarichi come ambasciatore; nel 1451 le difficoltà incontrate durante una missione a Napoli e a Firenze – per un’alleanza che garantisse quiete e riposo all’Italia – gli fornirono l’occasione per comporre una epistola ai fiorentini.
Nel 1452, mentre ricopriva la carica di luogotenente della Patria del Friuli, ricevette a Venzone (da Federico III, che aveva accolto con particolare sfarzo mentre rientrava in Austria dopo l’incoronazione imperiale a Roma) le insegne di cavaliere (già concesse al padre, al suocero e al mentore Barbaro, e in seguito pure al figlio Benedetto). Anche a Udine fu posta un’iscrizione in onore di Trevisan.
Tornato a Venezia fu eletto savio grande e quindi, nel maggio del 1454 – per le recenti relazioni con l’imperatore – fu inviato in Germania a rappresentare la Signoria alla dieta di Ratisbona, convocata in vista di una lega antiturca. Solo parzialmente prese parte ai lavori dell’assemblea (poi trasferita a Francoforte e a Wiener Neustadt), perché in autunno fu incaricato di sondare una possibile alleanza di Venezia e Firenze con il papa e con la casa d’Aragona; ma nelle trattative con Alfonso il Magnanimo, a Gaeta, incontrò resistenze cui dovette supplire l’ambasciatore veneto ordinario, Giovanni Moro, che con il re aveva maggior consuetudine.
Nonostante questo parziale smacco nei mesi successivi Trevisan sedette ancora in Collegio e poi fra i Dieci, fino al febbraio del 1456 quando fu eletto in Avogaria, ove inizialmente affiancò Ludovico Foscarini, nella congiuntura delicatissima (anche dal punto di vista simbolico) del processo a Jacopo Foscari e della deposizione del doge Francesco, suo padre (zio della moglie di Zaccaria).
La successiva e ultima fase della carriera di Trevisan si svolse tutta nelle magistrature cittadine e in Terraferma, a eccezione della missione di rappresentanza per l’omaggio al papa neoeletto, il veneziano Paolo II (1464), nel corso della quale, fra i dieci patrizi partecipanti, proprio Zaccaria fu incaricato di comporre l’orazione di saluto (uno tra i pochi testi suoi sopravvissuti).
Fu dunque capitano di Brescia (1456-57), capitano di Verona (1459-60), podestà di Padova (1462-63). Qui venne ricordato soprattutto per la ricognizione delle reliquie di s. Luca, provocata da una controversia fra benedettini padovani e francescani veneziani: una vicenda in cui la devozione si intrecciò al nuovo metodo storico-filologico e al rapporto fra dominante e centri sudditi. Fu, inoltre, altre due volte avogadore (1458-59 e 1464) e una volta fra i Dieci (1461-62); nel 1462, poi, fu tra i quarantuno elettori del doge Cristoforo Moro.
Dalla citata missione a Roma rientrò in ritardo perché ammalato; già una descrizione fisica redatta da un medico e risalente al 1453 lo presenta grassoccio, di complessione flemmatica e di salute tutt’altro che ferrea (come testimoniato anche da Barbaro negli anni Quaranta). Eletto ancora consigliere ducale, nel giugno del 1466 gli fu permesso di rimanere per tutto il mese alle terme nel Padovano per curarsi, ma nonostante ciò morì, probabilmente già prima del 18 luglio, quando è attestata la presenza di un nuovo consigliere. Fu sepolto nella chiesa veneziana della Certosa, dove circa vent’anni dopo lo raggiunse la moglie Dorotea (già nel 1449 Barbaro aveva fatto riferimento in una lettera al legame fra Trevisan e i certosini).
Zaccaria Trevisan jr appartiene certamente al numero dei patrizi veneziani classificabili come umanisti, ma fra essi il suo ruolo non fu certo paragonabile a quello avuto in precedenza dal padre, e anche Margaret King lo esclude dal core group umanistico di quei decenni. Le sue opere non furono certo molte, e quelle giunte fino a noi sono: alcuni discorsi (prevalentemente recitati in occasione di missioni diplomatiche) e un paio di lettere di annuncio o di ringraziamento per incarichi e titoli ottenuti; circostanze della composizione e contenuto (con frequenti riferimenti alla grandezza della Repubblica e ai doveri dei patrizi verso di essa) sono quindi quasi sempre legati alle vicende della sua carriera, che costituì certamente per lui l’impegno preponderante e che lo portò fin dalla giovinezza a ricoprire le più importanti cariche dello Stato.
Lo smacco subito a Gaeta, peraltro, può far pensare che, anche come diplomatico, le sue doti migliori fossero culturali più che strettamente politiche; lo stesso, del resto, è stato osservato a proposito del più noto Foscarini. In ogni caso, è assai probabile che la carriera di Zaccaria avesse ricevuto più di una spinta proprio grazie agli studi compiuti e al prestigio anche culturale del padre, per tacere del ruolo attribuibile al legame matrimoniale con i Foscari; se da giovane egli era apparso austero e modesto poi divenne certamente più ambizioso e non alieno dall’apparire. L’interesse maggiore della sua figura risiede comunque proprio nel complesso e contraddittorio intreccio fra la formazione improntata ai valori culturali ed etici dell’umanesimo e l’ambizione politica bisognosa continuamente di compromessi: se all’inizio fu certo la prima a dare l’impulso decisivo alla seconda, in seguito ciascuna delle due finì per porre rilevanti limitazioni all’altra.
Benedetto, figlio di Zaccaria jr e di Dorotea Venier, nato attorno al 1455, fu provato nel 1474 e, dopo aver ricoperto cariche minori, entrò in uno dei collegi intermedi di elettori (i Quaranta) in occasione dell’elezione dogale del 1486, anno in cui, inoltre, rifiutò l’elezione a camerlengo di Comun (malgrado la pena prevista): la ferma determinazione a evitare gli incarichi sgraditi sarebbe stata caratteristica di tutta la sua carriera. Nel 1489 fu provveditore per gli offici di Cipro (donata a Venezia proprio allora dalla regina Caterina) e due anni dopo sposò Betta, figlia di Tomaso Mocenigo e vedova di un Vitturi, da cui ebbe almeno un maschio, Zaccaria.
Attorno al 1490 entrò in Senato; rifiutata un’ambasciata in Ungheria (febbraio del 1492), pochi mesi dopo accettò la nomina a oratore ordinario a Milano, dove il 30 novembre 1493 il duca Gian Galeazzo Maria Sforza lo armò cavaliere (in occasione del matrimonio tra Bianca Maria Sforza e Massimiliano d’Asburgo): per i Trevisan il titolo equestre era, ormai, quasi una tradizione di famiglia. La morte in circostanze oscure del duca (1494) contribuì a generare una profonda diffidenza di Trevisan nei confronti dello zio e successore di lui, Ludovico il Moro. Per discutere dell’alleanza antifrancese stipulata a Venezia il 31 marzo 1495 Trevisan fu inviato con Zaccaria Contarini in Germania presso Massimiliano I; la consegna (approvata il 9 maggio) era di invitare il re a scendere in Italia appena chiusa la Dieta a Worms, per ricevere la corona imperiale e mettersi personalmente a capo della Lega, enumerando nel contempo le risorse che la Signoria intendeva mettere in campo e ricordando alla regina Bianca Maria la comunanza di interessi fra Venezia e Milano. A Worms Trevisan tenne uno splendido discorso (31 maggio), con ampia captatio benevolentiae, secondo le consegne ricevute. L’insensibilità dei principi tedeschi («bestie e peggio che bestie», secondo Massimiliano) alle cose d’Italia – da cui, in Germania, avrebbe tratto vantaggio solo il re – complicò la situazione; Trevisan e Contarini nei loro dispacci ne danno conto, così come delle loro schermaglie con il re (che richiedeva il pagamento delle contribuzioni per la dieta, in forza del diploma del 1437 che concedeva a Venezia il vicariato su parte della Terraferma). Dopo aver seguito Massimiliano nei suoi spostamenti in Germania, Trevisan, tornato in patria nel dicembre del 1495, rientrò in Senato, ma fu subito (1496) designato podestà di Chioggia, dove ebbe l’onore di ricevere il duca di Ferrara, Ercole d’Este, diretto a Venezia.
Dopo aver rifiutato con pervicace ostinazione (1498) un’ambasciata a Napoli, nell’aprile del 1499 Trevisan accettò una missione presso il re di Francia Luigi XII; nell’estate, dopo la conquista francese di Milano, si recò in Lombardia per incontrare il re, con altri tre patrizi e un corteo di ben cento cavalli, e nel novembre accompagnò il sovrano nel ritorno Oltralpe, nelle vesti di ambasciatore ordinario. Non mancò un incidente tecnico (l’invio senza cifratura, da parte di Trevisan, di un dispaccio con informazioni confidenziali sui signori di Ferrara e Mantova, poi sfortunatamente intercettato, con il seguito di proteste ufficiali), ma Trevisan rimase in Francia, anche dopo l’arrivo del suo sostituto Francesco Foscari, nel 1500, sebbene a Venezia fosse stato eletto ad altri incarichi, congelati in attesa del suo ritorno oppure da lui – una volta di più – espressamente rifiutati. A dicembre si ammalò a Tours, ma, preoccupato del proprio onore di patrizio, continuò a svolgere le sue funzioni con la caratteristica veemenza; le sue condizioni, però, peggiorarono e il 9 febbraio 1501 morì a Lione, dopo due mesi di infermità.
Non avrebbe voluto funerali costosi (forse versava in ristrettezze), ma, per l’onore della Signoria, Bonino de Boninis, «l’amico fidel» di Venezia (M. Sanudo, Diarii, 1879-1886, III, col. 1426), volle comunque delle esequie in grande stile, che il cronista descrisse in tono compiaciuto, aggiungendo che il defunto era molto stimato, tanto che anche il cancelliere di re Luigi lo aveva lodato definendolo «cavalier, jurisconsulto e monarcha» (ibid., col. 1138): parole, queste, che estendono un po’ anche a Benedetto il prestigio del padre e del nonno, «dottori e cavalieri». Il cronista racconta come anche negli ultimi giorni l’ambasciatore soffrisse profondamente – più che per la morte ormai certa – per l’impossibilità di completare l’ultima missione presentando alla Signoria la sua relazione; questi sentimenti appaiono certo in contrasto con il suo ostinato rifiuto degli incarichi sgraditi e tuttavia esprimono bene il senso del dovere e dell’onore insiti nel legame fra il singolo patrizio e lo Stato.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Venezia, Avogaria di Comun, regg. 162-I, c. 161r; 164-III, cc. 327rv, 328r; 165-IV, c. 362v; 170-2, c. 225r; 177-1, c. 74r; 178-2, c. 134r; Collegio, Notatorio, regg. 8-10, passim (in partic. 8, c. 75v; 9, c. 90r; 10, c. 148v); Collegio, Secreti, reg. 1490-4, passim; Maggior Consiglio, Deliberazioni, Registri, Regina, cc. 38v-40r; Stella, c. 77v; Segretario alle Voci, regg. 6, cc. 7v, 18r, 38v, 104r, 107r, 113r; 8, cc. 2v, 5r; 9, cc. 6v, 8v; Misc. Codd., s. 1, 23, Storia veneta: M. Barbaro - A.M. Tasca, Arbori de’ patritii veneti, VII, pp. 123 s.; Senato, Secreti, regg. 16-22, 34-38 (in partic. reg. 37, c. 189rv); Segretario alle Voci, Misti, reg. 4, cc. 56v, 62v, 93r, 94v, 111r, 115v, 117v, 119v, 130v, 142v, 146rv, 148v, 152v, 194r; San Daniele del Friuli, Biblioteca Guarneriana, mss. 104, 165; Venezia, Biblioteca nazionale Marciana, It. VII, 799 (8002), cc. 20v-83v (in partic. cc. 30 ss.). Statuta magnificae civitatis Veronae, Verona, 1582; Francisci Barbari et aliorum ad ipsum Epistolae, Brescia 1743, pp. XXII, 242 s., App., pp. 9, 66 s.; D. Malipiero, Annali veneti dall’anno 1457 al 1500, a cura di F. Longo, Firenze 1843-1844, I, pp. 336, 417, 551, II, p. 945; M. Sanuto, Diarii, Venezia 1879-1886, I-III, ad ind., IV, col. 840, V, coll. 961, 1071 s.; Centotrenta lettere inedite di Francesco Barbaro, a cura di R. Sabbadini, Salerno 1884, pp. 84 s., 119 s., 126 s.; G. Priuli, I Diarii, a cura di A. Segre, in RIS, XXIV, 3, 1, Città di Castello-Bologna 1912-1921, I, pp. 21, 39, 193, 223, 271, II, p. 71; Acta graduum academicorum gymnasii Patavini, a cura di G. Zonta - G. Brotto, Padova 1970, pp. 229, 337; M. Sanudo, Le vite dei dogi (1474-1494), II, Padova 1989, pp. 520, 656, 666, 706; Ausgewählte Regesten des Kaiserreiches unter Maximilian I, a cura di H. Wiesflecker et al., I, Wien-Köln-Weimar 1996, passim; M. Sanudo, Le vite dei dogi. 1423-1474, a cura di A. Caracciolo Aricò, Venezia 1999, I, pp. 426, 433, 464, 499, 520, 524, 532, II, pp. 35, 73, 945.
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