Ozu, Yasujirō
Regista e sceneggiatore cinematografico giapponese, nato a Tokyo il 12 dicembre 1903 e morto ivi il 12 dicembre 1963. Ritenuto con Mizoguchi Kenji e Kurosawa Akira uno dei più importanti registi del cinema giapponese, ne ha segnato con la sua opera le tappe principali, dagli anni del muto a quelli del colore, arrivando sino alle soglie della modernità. La sua grande influenza sul cinema contemporaneo è stata, fra l'altro, attestata dagli omaggi che al suo lavoro hanno attribuito registi come il tedesco Wim Wenders e il cinese Hou Hsiao-hsien. Progressivamente il cinema di O. venne a focalizzarsi intorno a un unico e grande tema, quello della famiglia, con particolare attenzione al rapporto tra genitori e figli. Estraneo a un approccio di tipo sociologico, il regista fece soprattutto dei sentimenti materni, paterni e filiali l'oggetto d'attenzione principale dei suoi film, riuscendo a dar loro una connotazione che, liberatasi da ogni particolarismo, rende conto della loro universalità. Ed è per questo che, pur essendo le sue storie ancorate ai costumi e alle tradizioni del suo Paese ‒ in patria è ancora oggi ritenuto 'il più giapponese dei registi giapponesi' ‒, i suoi film riescono davvero a parlare a tutti, coinvolgendo gli spettatori delle culture più diverse. Il cinema di O. è considerato in Giappone un'espressione del mono no aware, ovvero di quel sentimento di melanconia che si può vivere di fronte alla natura, alle stagioni e alle vicende umane. È proprio grazie a questo sentimento che i protagonisti dei suoi film arrivano, attraverso le loro esperienze, alla consapevolezza ultima del carattere effimero e transitorio di ogni cosa, a una sorta di dolente e matura accettazione dell'ineluttabilità del cambiamento. Cresciuto in un ambiente della media borghesia ‒ il padre era proprietario di una piccola industria di fertilizzanti ‒, O. visse per tutta la vita insieme alla madre, senza mai sposarsi. Studente mediocre e indisciplinato, trascorse gran parte del suo tempo guardando film americani. All'età di vent'anni entrò negli studi di Kamata della Shōchiku, dove gli venne affidato il ruolo di assistente operatore e poi, sotto la guida del regista Ōkubo Tadamoto, di ideatore di gag. Dopo aver steso una prima sceneggiatura, nel 1927 fu promosso a regista: nacque così Zange no yaiba (La spada della penitenza), suo primo e unico jidaigeki (film storico). Come accadeva in quel periodo a tutti i giovani registi assunti dalle grandi case di produzione cinematografica nipponiche, O. realizzò nei primi anni della sua carriera un gran numero di film: ben 19 fra il 1927 e il 1930, per arrivare poi a 54 al termine della sua vita. In questi primi film, che spaziano attraverso i generi più diversi, è evidente l'influenza dei modelli americani, e in particolare quella dello slapstick, come testimonia il suo primo lavoro oggi conservato per intero, Wakakihi (1929, Giorni di gioventù). Con l'arrivo degli anni Trenta, O. era pronto a essere promosso nel gruppo dei registi di prima fascia della Shōchiku, quelli che dirigevano i film con più ampio impegno finanziario e che potevano avvalersi dei migliori collaboratori. Segno di questo passaggio fu Ojōsan (1930, Signorina), che ottenne il terzo posto nella classifica redatta dall'importante rivista "Kinema junpō" dei migliori dieci gendaigeki (film d'ambientazione contemporanea) dell'anno. Fu anche l'inizio del felice rapporto tra il regista e la critica del suo Paese, confermato dal fatto che dal 1931 al 1937 (anno del suo ultimo film del decennio) un'opera di O. si trovò sempre fra le prime dieci della graduatoria di "Kinema junpō", e per tre anni di seguito ‒ con Umarete wa mita keredo (1932; Sono nato ma…), Dekigokoro (1933, Capriccio passeggero) e Ukigusa monogatari (1934, Storia di erbe fluttuanti) ‒ fu proprio un suo film a occupare la prima posizione. Gli anni Trenta videro anche una svolta fondamentale nella sua produzione: O. si specializzò nello shomingeki (dramma della gente comune), il genere cui progressivamente si dedicò in modo esclusivo. Dominante divenne anche il tema della famiglia, come testimoniano i film del periodo, tra gli altri, Umarete wa mita keredo, storia di due bambini che scoprono con amarezza la perdita di dignità del padre di fronte al suo datore di lavoro, e Hitori musuko (1936, Figlio unico), storia di una madre delusa dall'atteggiamento rinunciatario del figlio nei confronti della vita.
Nel settembre 1937 O. venne arruolato nell'esercito giapponese e spedito a combattere in Cina. Rientrò in patria nell'agosto 1939 e riprese il suo lavoro alla Shōchiku. Il clima culturale del Paese era però decisamente cambiato, e il governo richiese film consoni allo spirito di sacrificio necessario a una nazione in guerra: O. vi si adattò, senza tuttavia rinunciare al suo universo poetico. Nacquero così Toda ke no kyōdai (1941, Fratelli e sorelle della famiglia Toda) e Chichi ariki (1942, C'era un padre), due film a loro modo complementari: nel primo, che narra la storia di una grande famiglia, un figlio decide di portare con sé, nella Manciuria occupata, la madre e la sorella più giovane, che erano state abbandonate dagli altri parenti; nel secondo, che invece si concentra sul rapporto fra un padre vedovo e il suo unico figlio trasferitosi per motivi professionali, è invece il primo a costringere il secondo a lasciarlo solo, non ritenendo giusto che un uomo debba rinunciare al suo lavoro e ai suoi doveri sociali soltanto per poter restare accanto al proprio genitore.
Fu nel 1949, con Banshun (Tarda primavera), che il cinema di O. entrò nella sua vera e propria maturità: lo stile si radicalizza e i temi rimangono gli stessi degli anni precedenti, ma le sue famiglie, ora, sembrano essere diventate delle entità a sé stanti, prive di qualsiasi legame con il resto della società. Banshun, nel suo narrare le vicissitudini di un padre vedovo che, per spingere la figlia a sposarsi e a farsi una propria vita, finge di avere un'amante, è, nei fatti, la matrice narrativa di altri successivi film del regista come Akibiyori (1960; Tardo autunno) e Sanma no aji (1962; Il gusto del sakè), l'ultimo suo lavoro. I ruoli dei due protagonisti sono interpretati da Ryū Chishū, il padre, già protagonista di Chichi ariki, e da Hara Setsuko, la figlia: i due attori che con i loro volti avrebbero segnato più di ogni altro interprete l'ultimo periodo del cinema di Ozu. Si ritrovano entrambi in Tōkyō monogatari (1953; Viaggio a Tokyo), il film del regista più apprezzato in patria e più noto in Occidente, che narra la storia di un'anziana coppia di genitori in visita ai diversi figli, ormai grandi, sposati e con prole, che vivono nella capitale. Anche in questo caso ‒ come per es. già accadeva per Hitori musuko ‒ i due genitori dovranno misurare la distanza che ormai li separa dai figli, e prendere atto della definitiva disgregazione del loro nucleo familiare. La morte della madre e la solitudine del padre, con cui si chiude la vicenda, acquistano così un evidente valore simbolico. Se il tono di Tōkyō monogatari era prevalentemente drammatico, gli ultimi film di O., anche grazie all'uso del colore, avrebbero invece assunto talvolta l'andamento di una commedia, come testimoniano Ohayō (1959, Buon giorno), storia di due fratellini che entrano in conflitto con il padre perché questi non vuole comprar loro un televisore, e Higanbana (1958; Fiori d'equinozio), che s'incentra sul contrasto tra un padre e la figlia, rea di aver scelto da sé il proprio futuro sposo.
Dal punto di vista narrativo, spesso i film di O. presentano un andamento strutturale assai simile che prende le mosse da una situazione di apparente armonia, destinata a rompersi attraverso la rivelazione di una verità nascosta che determina così un momento di conflitto, cui però segue l'accettazione di questa nuova realtà e il conclusivo instaurarsi di un'armonia contrassegnata da un'autentica consapevolezza. È questa, per es., la struttura che regola i rapporti tra figli e padre in Umarete wa mita keredo, tra madre e figlio in Hitori musuko, tra figlia e padre in Banshun. Sul piano stilistico il cinema di O. si è invece affermato sia per la progressiva riduzione del suo lessico cinematografico a poche ed essenziali figure che evitano movimenti di macchina, dissolvenze e tutto ciò che il regista considerava un mero artificio tecnico, sia per alcune scelte che conferiscono ai suoi film una dimensione iconica affatto particolare. Tra queste, di rilievo l'uso insistito della posizione bassa della macchina da presa (da non confondersi con l'angolazione dal basso cara, per es., a Orson Welles), che sembra dare alle azioni dei personaggi un andamento quasi rituale, come se questi si muovessero su un palcoscenico; il montaggio che procede per dominanti e armonici, in cui l'oggetto principale di un'inquadratura diventa secondario in quella seguente, la quale si trova dominata da un nuovo elemento, destinato tuttavia anch'esso a una posizione subordinata nel piano successivo; i campi e controcampi nelle scene di dialogo ripresi con la macchina da presa che inquadra frontalmente i personaggi, quasi che le loro parole fossero rivolte agli spettatori; le inquadrature di transizione, ovvero quei campi vuoti che legano le scene di un film sospendendo il corso degli eventi e prolungando nel tempo i sentimenti e le emozioni suscitati nello spettatore da quanto è appena accaduto. Sono queste tuttavia soltanto alcune delle peculiarità espressive del cinema di O., un regista che, come i più grandi, non adattò le sue scelte formali alle particolarità delle storie e ai personaggi rappresentati, ma le piegò a un universo espressivo che, nel senso letterale e traslato dell'espressione, costituisce una vera e propria visione del mondo.
T. Satō, Ozu Yasujirō no geijutsu (L'arte di Ozu Yasujirō), Tokyo 1971.
P. Schrader, Transcendental style in film: Ozu, Bresson, Dreyer, Berkeley 1972 (trad. it. Il trascendente nel cinema, Roma 2002, pp. 19-59).
D. Richie, Ozu, Berkeley 1974.
D. Bordwell, Ozu and the poetics of cinema, London-Princeton 1988.
D. Tomasi, Ozu Yasujirō, Firenze 1991.
D. Tomasi, Ozu Yasujirō ‒ Viaggio a Tokyo, Torino 1996.
Ozu's Tokyo story, ed. D. Desser, Cambridge 1997.
Sh. Hasumi, Yasujirō Ozu, Paris 1998.
Y. Yoshishige, Ozu Yasujirō no han eiga, Tokyo 1998 (trad. ingl. Ozu's anti-cinema, Ann Arbor 2003).