Vyakarana
Termine sanscr. («analisi grammaticale») che indica la tradizione grammaticale indiana.
Il linguaggio è sin dall’antichità una delle preoccupazioni fondamentali della filosofia indiana. Già alcuni inni del Ṛgveda si occuparono della forza e dei limiti del linguaggio, ipostatizzato in una potente e influente divinità (Vāc). Delle sei discipline propedeutiche allo studio del Veda, tre erano linguistiche, l’analisi grammaticale (vyākaraṇa), l’analisi etimologica (nirukta) e la fonetica (śikṣā). Il nucleo essenziale del linguaggio fu individuato nelle radici verbali, dalle quali derivano le parole grazie alla combinazione delle radici con preverbi, suffissi, desinenze nominali e verbali. I primi abbozzi di grammatica descrittiva della lingua vedica e sanscrita furono portati a un alto grado di perfezionamento nell’Aṣṭādhyāyī di Pāṇini (➔) (5° sec. a.C.). Pāṇini si occupò principalmente di morfologia, ma diede spazio anche a problemi sintattici e, in misura minore, semantici. I sūtra di Pāṇini furono in seguito integrati da aforismi aggiuntivi, i cosiddetti vārttika, da parte di Kātyāyana, e commentati nel Mahābhāṣya («Grande commento») di Patañjali (2° sec. a.C.), che diventerà la principale autorità interpretativa nella tradizione pāṇiniana. La sezione iniziale del Mahābhāṣya introduce alcuni tra i più importanti problemi di filosofia del linguaggio e in tal senso può essere considerato il primo testo indiano di filosofia della grammatica. Fu tuttavia Bhartṛhari (5° sec. d.C.) a portare la grammatica nell’alveo filosofico, creandone i presupposti di sistema indipendente. Risale al 7° sec. d.C. un altro influente commento all’Aṣṭādhyāyī, la Kāśikāvṛtti, composta dai due autori Jayāditya e Vāmana. In seguito la complessità del sistema di Pāṇini portò al sorgere di varie grammatiche di più facile comprensione rispetto all’Aṣṭādhyāyī, tra le quali la più diffusa e ancora oggi molto studiata è la Siddhāntakaumudī di Bhaṭṭoji Dīkṣita (16° sec.).
Uno dei principali problemi trattati nella linguistica indiana è la natura della relazione tra elementi linguistici (śabda) e significati (artha). I grammatici indiani distinguono tra suoni inarticolati o rumori, come il suono di uno strumento a percussione, e suoni linguistici, le vocali e le consonanti; questi sono, secondo alcuni autori, le unità linguistiche di base, che insieme formano le parole, che a loro volta formano unità di significato più ampie. Questa teoria atomistica, però, presenta il problema del ruolo della sequenza dei fonemi nell’apprendimento del significato, in quanto sequenze diverse degli stessi fonemi possono produrre significati differenti (per es., nadī, «fiume» e dīna, «povero»). Al momento dell’ascolto dell’ultimo fonema di una parola, inoltre, i fonemi precedenti non sono più udibili; se la percezione uditiva produce direttamente il significato nella mente di chi ascolta, come spiegare allora la significazione? Due sono le possibili spiegazioni, una che prevede la mediazione della memoria e l’altra che considera i suoni non come i veri significanti, bensì come fattori nella graduale manifestazione di un significante latente, lo sphoṭa (➔). Bhartṛhari introduce le nozioni di sphoṭa della frase, della parola e del fonema, quest’ultimo utile a spiegare la significazione di elementi atomici come prefissi o affissi. L’individuazione della minima unità di significato è un tema assai dibattuto e risolto in modi diversi dalle varie scuole filosofiche. La semantica di Bhartṛhari prevede inoltre la centralità della frase, ma quest’idea è contestata sia dalla Mīmāṃsā della scuola Bhāṭṭa, sia dal Nyāya, che invece cercano di giustificare la significazione di parole e fonemi anche indipendentemente dalla frase.
Il referente esterno e il concetto mentale sono entrambi denotati dal termine artha. Non è quindi sempre possibile interpretare il punto di vista degli autori indiani circa la distinzione della relazione diretta tra parola e referente rispetto alla relazione indiretta, mutuata dal concetto mentale del referente. Se per taluni i referenti delle parole sembrano essere oggetti esterni e reali, secondo altri, come Bhartṛhari e i buddisti, sono costrutti mentali. L’importanza delle radici verbali nella lingua sanscrita portò i grammatici ad approfondire anche la loro funzione semantica. Fu Bhartṛhari a notare come un unico verbo possa implicare una serie di operazioni che hanno luogo in una determinata sequenza. L’espressione «cuoce», per es., include una serie di attività come accendere il fuoco, riempire un recipiente, porlo sul fuoco, mescolare ecc. La parola «cuoce» racchiude tutte queste azioni, che possono a loro volta essere analizzate in gruppi di altre azioni più elementari. A partire da queste e altre riflessioni di Bhartṛhari sul tema, grammatici successivi sono giunti ad analizzare la radice verbale in due significati essenziali, una funzione attiva (vyāpāra) e un risultato (phala). Il verbo «cuocere», per es., implica l’attività di cottura dell’ingrediente crudo, per es. il riso, che culmina nel risultato di tale attività, il riso cotto. C’è divergenza di opinioni sulla natura dei due significati di «attività» e «risultato», cioè se siano due significati principali della radice verbale, se uno dei due vada inteso come accessorio e se le desinenze verbali abbiano un ruolo primario nella significazione; Maṇḍana Miśra, per es., ritiene che il risultato sia denotato dalla radice e che l’attività lo sia dalla desinenza. La tradizione grammaticale ebbe anche grande influenza sullo sviluppo della teoria dei molteplici strati di significato, primario, secondario e suggerito (➔ rasa, lakṣaṇā), che ha origine nella distinzione tra significazione diretta e indiretta delle espressioni linguistiche.
I grammatici considerano in genere la relazione tra significante e significato in termini di capacità o potenza significante (śakti) e accettano l’idea, forse mutuata dalla Mīmāṃsā, di una relazione significante- significato originaria o fissa, in virtù della sua regolarità nel tempo, pur lasciando un certo spazio anche alla teoria della convenzione linguistica proposta dal Nyāya. Infatti, se da una parte la relazione tra un’espressione linguistica e il suo significato va ritenuta fissa perché tramandata da sempre in modo univoco, dall’altra è fissa perché consiste nella capacità, inerente al linguaggio, di esprimere un significato, senza con questo contraddire necessariamente l’idea che l’origine della relazione tra significante e significato dipenda da una convenzione.
Con Bhartṛhari la grammatica acquisisce anche una funzione soteriologica. Bhartṛhari parla di uno «yoga del linguaggio» (śabdapūrvayoga) in tre fasi: la prima è la purificazione del linguaggio dalle sue forme corrotte, che porta all’acquisizione di un merito morale e spirituale e alla comprensione dell’unità dello sphoṭa, cioè all’abbandono dell’illusione della lingua come composta di parti; la seconda è la concentrazione sull’assoluto linguistico (śabdabrahman); la terza è l’unione con tale assoluto che corrisponde alla liberazione finale. Il superamento dell’illusione di parti linguistiche avviene grazie a un movimento graduale dal linguaggio esteriore a quello interiore, concepito da Bhartṛhari in tre livelli: linguaggio parlato (vaikhārī), linguaggio interiore (madhyamā) e linguaggio allo stato puro (il livello di completa realizzazione dello sphoṭa, chiamato paśyantī) (➔ Utpaladeva). Nello yoga del linguaggio le parole e i pensieri verbalizzati sono solo riflessi più o meno perfetti di un’unica entità linguistica e assoluta. L’Advaita Vedānta sostiene che il linguaggio non sia possibile senza una dicotomia parola-oggetto, che è solo empiricamente reale, mentre al livello transcendente non ci può essere linguaggio. Per Bhartṛhari, invece, la distinzione tra significante e significato si colloca a un livello superficiale di consapevolezza linguistica, mentre in stati di coscienza più sottili parola e oggetto diventano via via più omogenei fino a fondersi in un’unità linguistica (śabda-advaita) al livello più profondo di identità con la coscienza.