VUOTO (XXXV, p. 618; App. II, 11, p. 1129)
Le sempre crescenti esigenze nel campo industriale e scientifico hanno portato in questi ultimi anni ad un grande sviluppo nella produzione degli impianti di v., di tipo classico. Si producono infatti oggi pompe a diffusione di olio a più stadî della capacità di aspirazione di 10.000 l di aria al secondo alla pressione di 10-4 mmHg.
Questi ultimi anni sono stati caratterizzati inoltre dallo sviluppo della tecnica per la produzione di v. al di sotto di 10-7 mmHg, cioè nel campo di pressioni che viene chiamato dell'ultravuoto o del v. ultra spinto per distinguerlo dal campo dell'alto v., che, convenzionalmente, si estende da 10-4 sino a 10-7 mmHg.
L'interesse di ottenere v. ultra spinti è giustificato da una grande varietà di esperienze che solo tale grado di v. rende possibili. Nello studio delle proprietà fisiche delle superfici dei solidi, ad esempio, è necessario lavorare con vuoti dell'ordine di 10-10 mmHg; infatti le superfici di metallo esposte a pressioni di 10-6 mmHg vengono alterate dall'assorbimento di sottili strati di gas in tempi così brevi da rendere impossibili alcune misurazioni.
D'altro canto, la tecnica degli acceleratori di particelle e le ricerche nel campo della fusione nucleare hanno fatto sentire il bisogno di grandi apparecchiature nelle quali la pressione del gas raggiungesse valori ben inferiori a 10-7 mmHg.
Tecnica dell'ultravuoto. - Generalità. - Le cause che impediscono la produzione di v. molto spinti consistono essenzialmente:
a) nella evaporazione delle sostanze presenti nell'ambiente sotto vuoto. Deve quindi porsi molta cura nella scelta dei materiali usati nella costruzione di impianti per ultra vuoti; in particolare, debbono essere scartate le sostanze organiche in genere, che hanno tensioni di vapore troppo elevate.
Le guarnizioni di tenuta di simili impianti debbono pertanto essere metalliche; si usano comunemente guarnizioni di indio, di alluminio o di rame.
b) nell'assorbimento fisico e chimico di gas nelle pareti dei recipienti.
Le superfici metalliche si ricoprono, dopo lunga espozione all'atmosfera, di uno strato di gas; inoltre una grande quantità di gas rimane imprigionata nelle microporosità del metallo. Parte del gas absorbito, a seconda della sua natura, si combina chimicamente con il metallo.
Se una superficie metallica fa parte di un ambiente sotto v., i gas absorbiti si distaccano da essa con estrema lentezza; a pressioni dell'ordine di 10-6 mmHg essi rappresentano un apporto di gas che è in generale da 100 a 1000 volte più importante del gas residuo contenuto nel recipiente. Il tempo occorrente a liberare le pareti di un recipiente metallico dal gas absorbito è, a temperatura ambiente, di qualche mese con pressioni dell'ordine di 10-6 mmHg.
Per ottenere gli ultravuoti appare dunque necessario, oltreché una oculata scelta dei materiali, procedere a un accurato degassamento preventivo dei recipienti, ottenuto riscaldando, sotto v., i componenti dell'impianto. Per liberare le pareti dai gas absorbiti fisicamente, la temperatura di riscaldamento è dell'ordine di circa 500 °C, mentre per liberare la parte chimicoabsorbita la temperatura è di circa 1000 °C. I gas chimicoabsorbiti hanno peraltro importanza minore, sicché è sufficiente in generale il primo trattamento.
Ad esempio, per una parete di acciaio inossidabile cne alla temperatura ambiente ha una emissione di gas dell'ordine di 10-7 cm3 al secondo per cm2 di superficie, il degassamento sotto vuoto a 500 °C può ridurre detta emissione a circa 10-15 cm3/(sec. cm2).
Il grado di vuoto ottenibile e la rapidità con cui questo può essere raggiunto dipendono dalla temperatura e dalla durata del degassamento; quest'ultimo viene in genere protratto fino a. 12 ore ed oltre.
Impianti per ultravuoti. - In fig. 1 è schematizzato un tipico impianto per la produzione di ultra vuoto, composto da una pompa meccanica e da due pompe a diffusione, in serie (per la disposizione in serie di più pompe e per i vantaggi che se ne conseguono, v. XXXV, p. 623). Con un simile sistema è possibile, dopo degassamento dell'impianto al disopra di 400 °C, ottenere pressioni finali tra 10-9 e 10-11 mmHg.
Il recipiente nel quale deve essere prodotto il v. è collegato all'impianto per mezzo di 3 "trappole" ad aria liquida in serie, in modo da garantire un efficientissimo frenamento dei vapori del fluido con il quale le pompe a diffusione funzionano.
Il sistema di trappole ad aria liquida è sufficiente qualora la pompa a diffusione adoperata lavori con mercurio. Se la pompa lavora a vapori di olio, D. Alpert ha mostrato che può essere ottenuto un più efficiente frenamento dei vapori di olio quando prima delle trappole ad aria liquida venga inserita una conduttura nella quale sia contenuta una lamina di rame più volte ripiegata.
Queste trappole a rame diminuiscono però di efficienza rapidamente e pertanto non si riesce con esse a mantenere degli ultravuoti che per un tempo relativamente breve (da alcune ore ad alcuni giorni a seconda della bontà del sistema). Sono preferiti impianti con pompe a mercurio, per i vapori del quale le trappole ad aria liquida hanno un'efficienza molto grande.
Per evitare l'inconveniente di un grosso apparato di trappole refrigerate, che devono essere costantemente rifornite di aria liquida, e poiché il mercurio corrode rubinetti e guarnizioni metalliche, si fa ricorso a nuovi tipi di pompa che vanno sotto il nome di pompe ad evaporazione e ionizzazione.
Queste pompe hanno preso le mosse da un artifizio fisico della tecnica di costruzione dei tubi elettronici, nella quale, per ridurre la pressione di gas residuo dopo la chiusura del bulbo, si usa far evaporare nel bulbo stesso per mezzo di riscaldamento elettrico adatti metalli, quali il bario, il titanio, lo zirconio o il magnesio, detti getter. Questi metalli, evaporando, si combinano con i gas residui contenuti nel recipiente formando dei composti chimici stabili che si depositano poi sulle pareti del tubo stesso. In questa maniera si riesce ad ottenere nell'interno dei bulbi pressioni residue dell'ordine di 10-8 mmHg e anche minori.
Il metodo descritto, per mezzo del quale si riesce ad ottenere v. statici molto spinti, ha suggerito la possibilità di realizzare sistemi adatti alla vuotatura di grossi recipienti con evaporazione continua di un metallo. Sono stati così costruiti in questi ultimi anni diversi tipi di pompe funzionanti su questo principio, nelle quali l'evaporazione del metallo è ottenuta in diverse maniere.
In fig. 2 è raffigurata una pompa a filo di titanio, costruita da R.H. Davis e A.S. Divatia (1954).
Un sistema meccanico b fa svolgere un rocchetto a sul quale è avvolta una grande quantità di filo di titanio del diametro di 0,5 mm. Il filo attraversa un tubo c e perviene in un fornello di carbone f, riscaldato dal bombardamento degli elettroni emessi dal filamento e ad una temperatura di circa 2000 °C. Il titanio evapora ed i vapori, dopo essersi combinati con i gas residui contenuti nella pompa, vanno a depositarsi sulla parete della pompa stessa, che è mantenuta a temperatura ambiente per mezzo di acqua circolante in una serpentina g saldata sulla parete esterna. In questa maniera si ottiene un'evaporazione continua del titanio che può durare anche alcuni mesi, fino all'esaurimento del filo. La pompa ora descritta riesce ad evaporare sino a 20 mgr di titanio al minuto.
Poiché il titanio non si combina con i gas nobili, questi vengono pompati con un meccanismo di ionizzazione. Infatti una parte degli elettroni emessi dal filamento e viene accelerata verso le griglie d; essi durante il loro percorso ionizzano i gas nobili, gli ioni dei quali si dirigono verso le pareti della pompa e qui vengono intrappolati dai vapori di titanio che su di esse si depositano.
Questi tipi di pompe entrano in funzione a pressioni dell'ordine di 0,1 mmHg e quindi hanno bisogno all'inizio di una pompa preparatoria meccanica; questa può essere disconnessa non appena la pompa ha cominciato a funzionare.
Nella tabella qui sotto riportata si danno le portate in l/sec, per alcuni gas, di una pompa del genere, del diametro di 12 pollici (circa 30 cm) e evaporante 5 mg di titanio al minuto.
Le differenze di portata sono dovute alla diversa affinità chimica del titanio rispetto ai varî gas.
Con un degassamento efficiente queste pompe possono raggiungere un vuoto limite di 10-9 mmHg.
Un secondo tipo di pompa ad evaporazione e ionizzazione, detta a scarica e ideata da C. D. Hall (1958), è rappresentata in fig. 3. Attualmente pompe funzionanti su questo principio vengono costruite per portate fino a 5000 l/sec.
La pompa è costituita sostanzialmente da elettrodi di titanio a (catodo) e da una griglia b, ed è immersa in un campo magnetico H. Quando tra catodo e griglia è applicata una tensione di qualche migliaio di volt, gli ioni negativi presenti nel gas residuo vengono accelerati verso la griglia; essi si dirigono verso di questa percorrendo una traiettoria a spirale per effetto del campo magnetico. Poiché, come indicato in fig., la griglia è reticolare, gli ioni non vengono raccolti dalla griglia ma l'attraversano dirigendosi verso il catodo; qui trovano un campo elettrico che li frena e li respinge nuovamente verso la griglia. In questo modo gli ioni negativi, prima di depositarsi sulla griglia fanno il percorso descritto alcune centinaia di volte. Durante questo percorso ionizzano il gas residuo; gli ioni positivi incidono direttamente sul catodo, provocando la evaporazione di un certo numero di atomi di titanio che si combinano chimicamente con i gas attivi e si vanno poi a depositare sulle pareti della pompa: si ha così l'effetto di pompaggio. I gas nobili vengono pompati con lo stesso principio della pompa a filo di Davis; infatti la scarica ionizza i gas nobili, gli ioni dei quali, dopo essere stati raccolti dagli elettrodi, vengono intrappolati dal titanio che si deposita su di essi.
La fig. 4 mostra un catodo di una simile pompa dopo un certo periodo di funzionamento. Si può notare chiaramente che un notevole quantitativo di titanio è evaporato per effetto del bombardamento ionico.
Come per la precedente pompa a filo la portata di queste pompe varia per ciascun gas; nella tabella seguente si dà la portata, in l/sec, di una pompa funzionante su questo principio.
Con la pompa descritta Hall, dopo un accurato degassamento a 500 °C sotto v., ha ottenuto una pressione limite dell'ordine di 10-10 mmHg. Pompe del genere sono oggi usate come getter continui per il mantenimento del vuoto in tubi elettronici di grande potenza, come ad esempio in alcuni tipi di klystron.
Questi nuovi tipi di pompa stanno sempre più affermandosi nella tecnica per la produzione degli ultravuoti sia per la loro grande praticità sia per le loro interessanti proprietà, di cui qui sotto indichiamo le principali: 1) Solo all'innesco esse hanno bisogno di una prevuotatura dell'ordine di 10-1 mmHg. Una volta innescate esse possono essere sigillate e funzionare senza l'ausilio di una pompa meccanica continuamente in funzione. 2) Non necessitano di un fluido per il pompaggio e quindi possono essere usate senza trappole o sistemi di refrigerazione. 3) La loro portata è pressoché uniforme nell'intervallo di pressioni da 10-1 a 10-10 mmHg. 4) La corrente di ioni al catodo della pompa di Hall può inoltre dare, quando sia opportunamente tarata, una indicazione del grado di vuoto raggiunto entro di essa.
Un vantaggio della pompa di Hall sulla pompa a filo è che la quantità di titanio evaporato è autocontrollato dalla pressione stessa: infatti la corrente ionica alla quale è affidata l'evaporazione del getter decresce con il decrescere della pressione.
Strumenti di misurazione. - Lo strumento comunemente adoperato nella usuale tecnica degli alti v., cioè di quelli ottenibili con pompe a diffusione di tipo convenzionale, è il manometro (o vacuometro) a ionizzazione sviluppato da Buekley e Dushman. Esso è costruito come un normale triodo e la misura della pressione si ricava dal rapporto tra la corrente di placca e la corrente di griglia (v. XXXV, p. 625). La minima pressione leggibile con questo tipo di manometri è dell'ordine di 10-8 mmHg. Questa limitazione è dovuta al fatto che gli elettroni che colpiscono la griglia creano raggi X di bassa energia; questi estraggono fotoelettroni dalla placca generando così nel circuito anodico una corrente dello stesso segno di quella dovuta agli ioni positivi che arrivano sulla placca stessa.
Onde evitare questo inconveniente ed estendere la portata dello strumento, R. T. Bayard e D. Alpert hanno suggerito un nuovo tipo di manometro a ionizzazione, nel quale (fig. 5) la placca cilindrica del manometro convenzionale è sostituita da un sottilissimo filo p posto all'interno della griglia g e il filamento f è collocato al difuori della griglia. In questo modo l'angolo solido che la placca presenta ai raggi X provenienti dalla griglia è così ridotto che il fondo di questo mariometro è inferiore di 1/1000 e più rispetto ai manometri convenzionali. È oggi possibile trovare in commercio manometri di Alpert che permettono letture di pressioni fino a 10-11 mmHg ed oltre.
Le misure eseguite con lo strumento ora descritto indicano la pressione totale del gas. È di estrema importanza in molti casi conoscere le pressioni parziali dei singoli gas contenuti all'interno del recipiente in cui si produce il v., per es. al fine di controllare l'efficienza delle "trappole" predisposte per intercettare i vapori del fluido con il quale lavora la pompa. Per tutte queste misure può, come è ovvio, essere usato un comune spettrometro di massa; generalmente viene però preferito, data la sua grande praticità, un apposito strumento, denominato Omegatrone, il cui schema è riportato nella fig. 6.
Agli elettrodi a, b, f sono applicate tensioni opportune, in modo che gli elettroni emessi dal filamento b, dopo aver attraversato la scatola d passando per due fori c g su di essa praticati, vengono raccolti dalla placca f. L'omegatrone è immerso in un campo magnetico costante H il quale ha la stessa direzione della traiettoria degli elettroni. Un campo elettrico a frequenza variabile è applicato ai due elettrodi e e h. Il sottile pennello di elettroni nel traversare la scatola ionizza le molecole del gas in essa contenute. Gli ioni che, in relazione al campo magnetico H, hanno una "frequenza di ciclotrone" (v. App. II, 1, p. 584) uguale alla frequenza del campo elettrico applicato fra e e h, cioè una determinata carica specifica, entrano in risonanza e, percorrendo una traiettoria a spirale, pervengono al collettore i: la corrente ionica raccolta da questo è proporzionale alla pressione parziale del gas da cui si sono originati, all'interno, gli ioni in questione. Variando la frequenza del campo elettrico si può fare l'analisi di tutti i gas contenuti nello strumento. Nella fig. 7 si dà un esempio di un rilevamento eseguito con omegatrone in un recipiente sotto vuoto.
Rivelatori di fughe. - Come ben si comprende, è di estrema importanza che un recipiente da v. sia perfettamente stagno, specialmente quando assai alto è il grado di v. che in esso si vuole ottenere. Molti sono i sistemi più o meno complessi ideati per la rapida ricerca e localizzazione delle "fughe". Lo strumento oggi più efficiente e più sensibile è il rivelatore di fughe a spettrometro di massa.
Questo strumento fu costruito ed usato per la prima volta nel 1944 negli S. U. A. in un grande impianto destinato alla separazione di isotopi dell'uranio; poiché l'impianto conteneva un grande numero di recipienti di riserva e molti chilometri di tubatura sotto v. occorreva uno strumento rapido, sicuro e di estrema sensibilità.
In fig. 8 sono indicati due possibili schemi per l'uso dello spettrometro di massa come "cerca fughe". Il metodo in fig. 8a viene generalmente usato per piccoli recipienti o comunque per recipienti che possono essere vuotati con l'impianto di v. dello spettrometro stesso. Il metodo di fig. 8b viene usato per la prova di grandi recipienti o comunque quando il v. dentro di essi deve essere praticato con un impianto separato da quello dello spettrometro. Il principio generale è comunque il seguente. Lo spettrometro di massa viene predisposto in modo da risultare sensibile ad un determinato gas, che viene spruzzato per mezzo di un piccolo capillare sulle pareti del recipiente sotto prova. Se la parete presenta una perdita, anche piccola, il gas si diffonde all'interno del recipiente e lo spettrometro ne segnala immediatamente la presenza. Il segnale fornito dallo spettrometro è più o meno grande a seconda della quantità di gas di prova che è diffusa all'interno del recipiente e quindi dà anche una indicazione della grandezza della perdita.
Come spettrometro, cioè come rivelatore di fughe vero e proprio, viene usato uno strumento particolare, che essenzialmente è un tipo semplificato di spettrografo di Dempster con deflessione a 180° (v. App. II, 11, p. 875) e il cui schema è riportato nella fig. 9.
Gli elettrorri emessi dal filamento c ionizzano il gas contenuto in d; gli ioni così ottenuti vengono accelerati dal campo elettrico esistente fra e ed f. All'uscita dalla fenditura dell'elettrodo f gli ioni, essendo lo strumento immerso in un campo magnetico H, sono deflessi dalla loro traiettoria iniziale e percorrono un cammino circolare il cui raggio R (in cm) è legato al numero di massa m degli ioni dalla relazione mV = − 48 B2R2 dove V è la tensione acceleratrice (in volt) e B è l'induzione magnetica (in kilogauss). Il valore di V e quello di B sono scelti in modo da focalizzare sul collettore a soltanto gli ioni del gas di prova.
Come gas di prova si usa generalmente l'elio, sia perché è contenuto in quantità trascurabile nell'aria sia perché ha la proprietà di diffondersi con estrema facilità. Oggi si costruiscono rivelatori di fughe a spettrometro di massa, ad elio, di sensibilità altissima, capaci di rivelare un atomo di elio su più di 2 ×106 molecole di gas qualunque.
Bibl.: K. Mels e R. Jaechel, in Leybold Wakuum Taschenbuch, Berlino 1958; D. Alpert, in Rev. Scient. Instr., XXIV, p. 1004 (1953); R. H. Davis e A. S. Divatia, in Rev. Scient. Instr., XXV, p. 1193 (1954); C. D. Hall, in Rev. Scient. Instr., XXIX, p. 367 (1958); L. Holland, in Journ. Scient. Instr., XXXVI, p. 105 (1959); D. Alpert, in Journ. Appl. Phys., XXIV p. 860 (1953); H. Sommers, in Phys. Rev., LXXXII, p. 697 (1951).