Vulcani
Un vulcano è una struttura morfologica formatasi intorno a una frattura attraverso la quale i magmi giungono alla superficie della Terra. I magmi sono fluidi multifase ad alta temperatura che, quando giungono in superficie, consistono in una fase liquida di composizione silicatica, nella quale sono sparse varie fasi cristalline e in una fase gassosa. Essi sono prodotti dalla fusione delle rocce costituenti il mantello o, più raramente, di quelle costituenti la crosta continentale.
L'attività vulcanica è il principale processo attraverso il quale viene formata la crosta e viene modificata la composizione dell'atmosfera terrestre. Attualmente, essa è concentrata lungo strette fasce che rappresentano meno dello 0,6% della superficie del nostro pianeta.
Esistono 538 vulcani le cui eruzioni sono state storicamente registrate e negli ultimi diecimila anni sono stati attivi 1300 vulcani. Il 94% di questi è ubicato lungo i margini distensivi o compressivi delle placche litosferiche. Il restante 6% si trova invece all'interno delle placche sia oceaniche sia continentali. Molti vulcani sono alimentati da punti caldi (hot spot), che sono l'espressione superficiale di zone di anomalia termica del mantello che si estendono probabilmente fino a circa 2900 km di profondità, dove è situato il confine con il nucleo. Queste anomalie termiche sono chiamate pennacchi caldi (hot plume), a causa della loro forma lunga e sottile. I punti caldi sono fissi nell'astenosfera e costituiscono in pratica delle zone di accumulo di magma che, a causa della minore densità, tende a risalire verso la superficie terrestre, perforando la litosfera sovrastante e formando un vulcano. Pertanto il passaggio di una placca litosferica sopra un punto caldo è marcato da una traccia costituita da una catena di vulcani ‒ allineata lungo la direzione di movimento della placca ‒ e la cui età aumenta all'aumentare della distanza dal punto caldo. Un esempio tipico è costituito dalla catena vulcanica sottomarina Hawaii-Imperatore, formata dal passaggio della placca pacifica sopra un punto caldo ubicato in corrispondenza dell'isola di Hawaii, la più meridionale dell'arcipelago, teatro attualmente di un'intensa attività vulcanica.
La quantità totale di magma che viene riversata sulla superficie terrestre è di circa 4 km3/anno, dei quali tre sono emessi lungo il sistema di fratture che costituisce le dorsali medio-oceaniche, 0,6 km3 nelle zone di subduzione (archi di isole, catene orogeniche recenti) e 0,4 km3 dai vulcani situati all'interno delle placche. La temperatura dei magmi al loro arrivo sulla superficie della Terra varia da 1000 a 1500 K; pertanto, l'attività vulcanica trasporta sulla superficie terrestre circa 2×1018 calorie all'anno (ca. 7,23×1023 W). Questa cifra rappresenta solo il 7% del flusso di calore conduttivo che attraversa la superficie del nostro pianeta, ma, poiché vi giunge in modo discontinuo e concentrato nel tempo, la sua potenza, e quindi il suo impatto sulla vita del nostro pianeta, è molto maggiore.
Pertanto la vulcanologia, oltre ai fenomeni di fuoriuscita delle masse fluide dalla crosta terrestre e alle relazioni con gli altri fenomeni associati (sismi e deformazioni del suolo), studia gli effetti delle eruzioni sull'atmosfera, i rischi per l'Uomo e l'utilizzazione dell'energia termica connessa al vulcanismo.
L'origine dell'attività vulcanica va cercata nell'interno della Terra, a profondità comprese tra qualche decina e qualche centinaia di chilometri, dove possono sussistere condizioni termiche favorevoli alla fusione parziale del materiale roccioso.
Gli studi sulla propagazione delle onde sismiche hanno permesso di stabilire che il mantello terrestre è essenzialmente un solido di composizione peridotitica, cioè costituito in gran parte da silicati di ferro e magnesio, tra i quali predomina l'olivina. La temperatura nel mantello è leggermente minore di quella alla quale la peridotite inizia a fondersi. Solo in una zona compresa tra 50 e 300 km di profondità, il rallentamento e l'assorbimento anomalo delle onde sismiche indicano che la temperatura è leggermente maggiore di quella di inizio della fusione e che nel solido sono presenti piccole percentuali (inferiori al 5%) di liquido. Riproducendo in laboratorio la fusione delle peridotiti alle condizioni di temperatura e pressione che si suppone esistano fino a 200 km di profondità, è stato osservato che i tipi principali di magmi relativi all'attività vulcanica possono essere prodotti dalla fusione parziale delle peridotiti.
I magmi che alimentano l'attività delle zone tettonicamente distensive, quali le dorsali medio-oceaniche e le zone di vulcanismo interne alle placche, appartengono alla categoria dei basalti e sono caratterizzati in media da un contenuto in ferro più elevato del 10%, e contenuto in alcali inferiore al 4% con concentrazione in potassio inferiore all'1%. In particolare, la maggior parte dei magmi delle dorsali medio-oceaniche appartiene a una categoria di basalti, chiamati tholeiitici, impoveriti in elementi alcalini, titanio e fosforo. Un'altra categoria di basalti, diffusa soprattutto nei vulcani interni alle placche, è quella dei magmi alcalini, caratterizzata da un contenuto di potassio che raggiunge l'1,5%, da elevate concentrazioni di sodio e dalla presenza di altri elementi alcalini, titanio e fosforo (tab. 1). I magmi basaltici delle dorsali e delle zone interne alle placche sono probabilmente formati per fusione prodotta da decompressione; infatti, gli studi sperimentali e l'applicazione di principî termodinamici al mantello mostrano che la temperatura, alla quale inizia la fusione della peridotite, diminuisce al diminuire della pressione di circa 4÷5 K per km di roccia.
Studi teorici sulle condizioni termiche del mantello e l'osservazione di chiare strutture di flusso nelle peridotiti dimostrano che il mantello è soggetto a lenti moti convettivi; poiché le peridotiti hanno una conduttività termica molto bassa, una qualsiasi porzione del mantello, trasportata verso la superficie da moti convettivi, subisce una diminuzione di temperatura determinata dal gradiente di decompressione adiabatico, che è di circa 0,6 K a km. Di conseguenza, durante la sua risalita, questa porzione del mantello viene a trovarsi a una pressione inferiore a quella di inizio di fusione della peridotite e inizia a formarsi così una fase liquida; continuando l'ascesa, la fusione procede ulteriormente, e la percentuale di materiale fuso aumenta gradualmente. La composizione del magma basaltico così prodotto dipende dalla profondità alla quale avviene la fusione, dalla frazione di roccia che si fonde, dalla pressione di acqua e di anidride carbonica. In generale, fusioni a profondità di qualche decina di km con percentuali di liquido di 15÷30% producono magmi di composizione tholeiitica, mentre fusioni a profondità dell'ordine del centinaio di km con percentuali di liquido intorno al 5% forniscono basalti di composizione alcalina.
Il processo di formazione dei magmi nelle zone di subduzione è alquanto diverso; in queste zone, infatti, delle placche di litosfera, costituite da crosta oceanica con il sottostante mantello superiore, sprofondano nel mantello. La crosta oceanica contiene diversi minerali idrati, quali cloriti, anfiboli e serpentini, che si deidratano man mano che la litosfera sprofonda nel mantello e viene riscaldata per attrito. L'acqua liberata dalla litosfera si diffonde nel mantello sovrastante, causando una drastica riduzione della temperatura di fusione della peridotite; vengono così prodotti magmi caratterizzati da elevato tenore in allumina (Al2O3, superiore al 16%), da concentrazioni in alcali intorno al 4÷5%, da contenuti in ferro non superiori all'8%. Questi magmi appartengono alla serie calco-alcalina, i cui termini più diffusi sono le andesiti.
Uno dei maggiori progressi negli ultimi decenni è stata la comprensione dei meccanismi che regolano la segregazione di un liquido magmatico dalla sua matrice rocciosa e la sua ascesa verso la superficie terrestre.
La fusione della peridotite inizia sui bordi di granuli formati da differenti minerali. Quando l'angolo solido formato dalle superfici dei granuli è minore di 60° si formano delle vie di interconnessione che vengono percorse dal liquido. Il flusso è quindi quello di un fluido in un mezzo poroso, governato dalla legge di Darcy, secondo la quale il flusso di fluido e, quindi, la capacità del fluido di separarsi dalla roccia sorgente, dipende dalla viscosità del liquido, dal suo peso specifico, dalla dimensione dei granuli e dal gradiente di pressione.
La viscosità dei magmi basaltici (fig. 3) è dell'ordine di 50 Pa∙s sulla superficie terrestre, ma poiché diminuisce rapidamente all'aumentare della temperatura, essa è probabilmente compresa tra 1 e 10 Pa∙s nell'interno del mantello. I liquidi andesitici hanno invece viscosità da 10 a 100 volte maggiore e, quindi, risalgono molto più lentamente. Il gradiente di pressione è prodotto dal carico di roccia sovrastante. Il fluido magmatico ha infatti densità di 5÷10% più bassa della roccia che lo ha prodotto e quindi la gravità tenderà a far muovere il liquido verso l'alto e a deformare e far scorrere verso il basso la matrice cristallina; si formano così onde di magma, analoghe ai solitoni, che si propagano verso l'alto. Quando il magma si accumula formando un corpo di notevoli dimensioni (per es., di qualche centinaio di metri di lunghezza), la spinta verso l'alto può superare la resistenza alla fratturazione delle rocce circostanti e quindi il corpo assume una superficie superiore convessa e si apre la via fratturando per pressione la roccia sovrastante.
Le masse di magma tendono a salire fino al livello in cui la densità diventa uguale a quella delle rocce circostanti. Quando però la pressione del magma è molto maggiore del punto di rottura della roccia circostante, esso può provocare la formazione di una frattura che si propaga fino alla superficie terrestre. La velocità di propagazione di una frattura in una roccia è dell'ordine di alcuni km/s, ma un magma basaltico è troppo viscoso per poter scorrere a questa velocità. Nell'eruzione del 1991 del vulcano Hekla, in Islanda, sono state osservate, con una rete di dilatometri da pozzo, deformazioni del suolo chiaramente correlate alla risalita del magma da circa 4 km di profondità, con una velocità misurata di circa 2 m/s.
Le zone nelle quali il magma ristagna, perché la differenza di densità con le rocce circostanti si annulla, vengono chiamate camere o serbatoi magmatici. La presenza di camere magmatiche è stata suggerita dall'osservazione, in molti vulcani, di variazioni nella composizione dei prodotti eruttati per differenziazione magmatica, il processo attraverso il quale un magma inizialmente omogeneo varia gradualmente la concentrazione dei componenti del fuso, per esempio mediante le sedimentazione graduale, sul fondo di un corpo magmatico, di minerali ad alta temperatura di cristallizzazione e alta densità. L'erosione ha inoltre portato in superficie le radici di vecchi vulcani ormai completamente smantellati, le quali consistono in una serie di dicchi che si diramano da corpi intrusivi. La forma e le variazioni spaziali della composizione di questi ultimi sono quelle stimate per una camera magmatica.
Un ulteriore indizio della presenza delle camere magmatiche è costituito dalle strutture circolari di collasso, chiamate caldere, formatesi in seguito a eruzioni nelle quali vengono emesse enormi quantità di magma. Esse sono dovute alla brusca diminuzione della pressione del magma nella camera magmatica e al conseguente crollo del tetto di questa (fig. 4). La presenza di una camera magmatica è stata dimostrata in modo attendibile per alcuni vulcani. Un esempio ormai classico è costituito dal Kilauea, un vulcano basaltico in attività quasi continua, situato nell'isola Hawaii. Quando il magma risale verso la superficie le pareti del condotto sono soggette a continui impulsi meccanici che le fratturano, originando così terremoti. La precisa localizzazione degli eventi sismici ha permesso di delineare il sistema di alimentazione. Questo è formato da un condotto cilindrico di circa 1 km di diametro che porta il magma dal mantello fino a una camera magmatica superficiale con un un volume di 10 km3 situata da 2 a 6 km al di sotto del cratere centrale. La posizione della camera magmatica è stata confermata dai modelli costruiti in base ai dati sulle deformazioni del suolo che accompagnano l'attività eruttiva. Ogni eruzione, infatti, è preceduta da un lento sollevamento del suolo, che può raggiungere anche un metro di ampiezza massima, attribuibile al graduale riempimento della camera magmatica. Quando la pressione del magma è sufficiente a fratturare il tetto della camera, ha inizio l'eruzione. Questa può avvenire sia dal cratere centrale sia da crateri laterali. In ogni caso, l'eruzione è seguita da un rapido abbassamento del suolo, legato evidentemente alla diminuzione di pressione conseguente all'eruzione del magma. Il confronto tra l'entità delle deformazioni e la quantità di magma eruttato ha consentito di calcolare il flusso di magma nella camera che, dal 1958 a oggi, è rimasto più o meno costante intorno al valore di 0,1 km3/anno. Un'ulteriore conferma e una più dettagliata definizione della camera magmatica è stata ottenuta adoperando metodi tomografici di prospezione sismica.
Il tipo di camera magmatica del Kilauea, comune anche ad altri vulcani basaltici, è comunque un sistema aperto, nel quale l'arrivo di nuovo magma dalla zona sorgente crea le condizioni per una nuova eruzione. In altri casi, i tempi di residenza di un magma in una camera superficiale sono sufficientemente lunghi perché i cristalli più pesanti comincino a segregarsi dal liquido concentrandosi verso il fondo e la composizione del magma residuo cominci a cambiare. Oltre alla deposizione di cristalli, il meccanismo più comune di differenziazione magmatica è la convezione composizionale, dovuta al fatto che la formazione dei cristalli ad alta temperatura di solidificazione ha l'effetto di far diminuire la densità del liquido. Si formano così sottili pellicole di liquido che tendono a unirsi e a migrare verso l'alto, dove vanno a formare uno strato di magma più freddo e meno denso.
Le caratteristiche eruttive di un vulcano dipendono essenzialmente dalla viscosità del magma che lo alimenta e dalla possibilità d'interazione del magma con falde acquifere superficiali. Nei magmi fluidi i gas si liberano facilmente, sfuggendo verso la superficie: il magma rigonfia e trabocca fuori dal cratere attraverso colate di lava (attività effusiva).
I magmi basaltici sono quelli dotati di una maggiore fluidità e le loro eruzioni consistono quindi in tranquille effusioni accompagnate da fontane di lava intermittenti e deboli esplosioni, come nel Kilauea, nell'Etna e nei vulcani islandesi. In questi vulcani le eruzioni esplosive avvengono generalmente a causa di interazioni dei magmi con l'acqua (esplosioni freatomagmatiche).
Se il magma è viscoso, la fuga del gas verso la superficie è ostacolata e, in casi estremi, impedita. I gas si accumulano in sacche all'interno del magma, a profondità diverse a seconda del gradiente di viscosità, fino a raggiungere l'energia necessaria a vincere la pressione sovrastante e quindi a esplodere violentemente, lanciando in aria brandelli di magma liquido e frammenti solidi delle rocce del condotto (attività esplosiva o piroclastica). I magmi andesitici, o quelli ancora più ricchi in silice (riolitici), hanno viscosità di diversi ordini di grandezza maggiore di quelli basaltici e danno luogo a terrificanti eruzioni esplosive. Questo tipo di magma è soprattutto diffuso nei vulcani situati sui margini compressivi delle placche litosferiche (regione andina, archi di isole del Pacifico come Giappone, Indonesia, Filippine, ecc.).
Le eruzioni esplosive di media e grande violenza liberano generalmente energie comprese tra 1015 e 1019 J. L'esplosività di un'eruzione dipende dall'efficienza con cui l'energia termica del magma viene trasformata in energia meccanica, che secondo esperimenti di laboratorio è massima quando il rapporto in peso tra magma e gas-acqua è compreso tra 0,1 e 1. La quantità di acqua disciolta in un magma dipende dalla composizione chimica del magma e dalla temperatura e pressione alla quale esso si trova. Nella risalita del magma verso la superficie terrestre, la solubilità dell'acqua diminuisce e, al di sotto di una pressione critica, essa comincia a separarsi dalla fase liquida formando bolle di gas; la quantità di gas che esce dalla soluzione delle bolle e la dimensione delle bolle aumentano rapidamente. Queste ultime si uniscono tra loro e, infine, si forma alla sommità del condotto una specie di schiuma costituita da magma liquido e dalle bolle, nella quale il rapporto in volume aumenta rapidamente a favore della fase gassosa; l'espansione delle bolle cessa quando la viscosità del magma impedisce una rapida aggregazione. Ciò accade in genere quando il rapporto volumentrico tra gas e magma è di quattro o cinque a uno. Cessata l'espansione, la pressione del gas all'interno delle bolle aumenta rispetto alla pressione confinante. Quando si supera la forza di coesione del magma, le bolle che si trovano in superficie cominciano a esplodere frammentandosi in pezzi minuti formati sia dalle pareti delle bolle (ceneri) sia da brandelli di magma con incluse le bolle (pomici).
La profondità a cui avviene la frammentazione del magma è inferiore a qualche centinaio di metri. I frammenti di magma e di rocce incassanti sono lanciati e trascinati in alto da una colonna di gas caldi, che può raggiungere anche un'altezza di qualche decina di chilometri. La ricaduta di questi frammenti forma delle coltri incoerenti di ceneri, sabbie, pomici e lapilli.
In molti casi la colonna ha anche una forte componente orizzontale e quindi, oltre a elevarsi in altezza, scivola lungo i fianchi del vulcano, formando una nube che si muove a una velocità dell'ordine del centinaio di chilometri/ora. Questo è il tipo di eruzione più pericoloso, quello che ha prodotto in epoca storica le maggiori devastazioni. Le colate piroclastiche possono essere generate principalmente da due meccanismi. Il primo è quello di una colonna molto densa, perché molto carica di ceneri e lapilli, che prima s'innalza verticalmente e poi crolla sotto il proprio peso, generando così dense colate di cenere che, spinte dalla forza di gravità, si propagano lungo i fianchi della montagna (le parti più diluite, quindi più veloci, sono chiamate surge). Il secondo meccanismo è quallo di esplosioni che avvengono a piccola profondità, in vicinanza della superficie terrestre. In questo caso le pareti del condotto vulcanico non riescono a impedire il trabocco e la propagazione della nube in direzione orizzontale: si genera così il fenomeno del base surge, cioè un'emulsione turbolenta e molto diluita di gas caldi e ceneri che si propaga con enorme rapidità lungo i fianchi del vulcano. L'esplosività di un'eruzione è classificata attraverso un indice in scala logaritmica chiamato VEI (Volcanic eplosivity index), il cui valore dipende dal volume totale di materiale emesso e dall'altezza raggiunta dalla colonna esplosiva (VEI=0, 5, 7 rispettivamente per le eruzioni effusive, per l'eruzione vesuviana del 79 d. C. e per quella del vulcano Tambora del 1815).
È noto da diversi secoli che le eruzioni, in particolare quelle esplosive, sono precedute da intensa attività sismica e da notevoli deformazioni del suolo che pertanto rappresentano fenomeni premonitori classici. Soltanto nella seconda metà del XX sec. i vulcanologi hanno cominciato a utilizzare con sistematicità altre metodologie. Tra queste, le più promettenti appaiono le variazioni locali del campo elettromagnetico, della composizione chimica dei gas emessi dal vulcano e del regime termico prodotte dall'avvicinarsi del magma alla superficie terrestre.
L'intervallo di riposo tra successive eruzioni di uno stesso vulcano aumenta notevolmente con il grado VEI. Vulcani basaltici (0〈VEI〈2) hanno tipicamente periodi di riposo di 1÷10 anni, mentre vulcani fortemente esplosivi (VEI=5÷6) presentano intervalli di riposo di 100÷1000 anni. Conseguentemente le conoscenze sulla previsione delle eruzioni sono progredite molto più rapidamente per i vulcani a prevalente attività effusiva. Per il Kilauea per esempio, tra i vulcani più studiati, la sequenza regolare di deformazioni del suolo è utilizzata dai vulcanologi per capire quando il vulcano è vicino a un'eruzione, mentre la velocità di subsidenza serve ad avere indicazioni sulla durata dell'eruzione e sul volume di magma che sarà emesso. Inoltre, con il rilevamento dell'attività sismica si monitorano sia le oscillazioni della colonna magmatica e dei gas in essa contenuti, le risposte di risonanza di parti del condotto a variazioni della pressione magmatica e sia l'apertura e la propagazione di fratture eruttive.
I progressi nella previsione delle eruzioni basati sulle caratteristiche dell'attività sismica sono legati strettamente al progredire delle nostre conoscenze sul meccanismo di origine della sismicità dei vulcani. A partire dagli anni Ottanta del XX sec. le conoscenze in questo settore sono notevolmente progredite grazie all'utilizzazione di reti sismiche digitali a grande dinamica, che permettono di superare problemi di saturazione e quindi di analizzare nella sua completezza il segnale emesso da un terremoto e non soltanto i primi arrivi delle onde longitudinali e trasversali. Si è messo quindi in evidenza che l'energia degli eventi a lungo periodo e del microtremore vulcanico è correlata alla pressurizzazione del sistema magmatico. I terremoti vulcanotettonici riflettono invece una variazione di sforzo nel mezzo solido, che non indica necessariamente l'imminenza di una eruzione, ma che riveste una enorme importanza nel rilevamento della distribuzione geometrica degli sforzi in profondità e della sua variazione nel tempo.
La previsione del risveglio eruttivo di vulcani ad alta esplosività, le cui eruzioni si ripetono a intervalli di centinaia o migliaia di anni, è un compito ancora molto arduo. Le violente eruzioni di questo tipo avvenute a partire dal 1980 (Mount St. Helens) hanno confermato che esse sono sempre precedute da attività sismica molto intensa, ma le relazioni tra questa e l'attività eruttiva variano da vulcano a vulcano e, a volte, anche da eruzione a eruzione dello stesso vulcano. Queste eruzioni, causate da magmi con grande viscosità, sono probabilmente precedute da notevoli deformazioni del suolo, ma le tecniche tradizionali di rilevamento di queste ultime (livellazioni geometriche, misurazioni continue delle variazioni di inclinazione con pendoli, sistemi ad acqua o a mercurio, misurazioni di distanza con tecniche laser) sono spesso di difficile utilizzazione negli impervi e tormentati paesaggi vulcanici. Nuove e interessanti prospettive sono offerte dall'utilizzazione del Global positioning system (GPS) e dai progressi in atto sul rilevamento a distanza delle variazioni nella composizione chimica dei gas emessi dai vulcani.
La distribuzione nello spazio e nel tempo dei prodotti immessi in atmosfera da alcune recenti grandi eruzioni esplosive è stata studiata con notevole dettaglio con rilevamenti sia da terra sia da satellite; tra questi ultimi sono risultate particolarmente utili le determinazioni della dispersione dell'anidride solforosa effettuata con uno strumento disegnato per rilevare la distribuzione di ozono (Total ozone mapping spectrometer, TOMS) montato sul satellite a orbita polare Nimbus-7.
Le eruzioni esplosive immettono nell'atmosfera enormi quantità di composti dello zolfo che, attraverso una serie di reazioni fotochimiche, finiscono per formare nella stratosfera una nube di aerosol formato da goccioline di acido solforico. Un'eruzione con VEI compreso tra 3 e 4 può produrre decine di megatonnellate di acido solforico. Il processo di formazione dell'aerosol stratosferico può durare anche mesi. Il tempo di residenza dell'aerosol nell'atmosfera dipende dalla velocità di nucleazione e di crescita delle goccioline, che in media hanno un diametro di decine di nanometri; queste goccioline rimangono anche per alcuni anni nella stratosfera prima di coagularsi in gocce di dimensioni tali da depositarsi sulla superficie terrestre.
Questo aerosol stratosferico altera il bilancio termico globale. La dimensione media delle goccioline è infatti dieci volte più grande della lunghezza d'onda della radiazione proveniente dal Sole e 6÷7 volte più piccola della lunghezza d'onda della radiazione riflessa dalla Terra; di conseguenza, le nubi di aerosol si lasciano attraversare preferibilmente dalla radiazione riflessa dalla Terra e assorbono e riflettono verso lo spazio quella proveniente dal Sole. L'effetto globale è quello di raffreddare la bassa atmosfera. È stato calcolato che l'immissione di 0,003 km3 di aerosol ridurrebbe la radiazione solare alla superficie terrestre del 20% e questa quantità di aerosol è solo un centomillesimo del volume di materiale emesso nell'eruzione del Krakatoa del 1883. Sono ben noti nella storia gli anni senza estate che seguirono le eruzioni del Tambora nel 1815 e del Krakatoa nel 1883 (fig. 7).
Inoltre, la deposizione delle goccioline di aerosol sulle superfici dei ghiacciai produce degli improvvisi aumenti di acidità del ghiaccio che vengono preservati nel tempo. L'identificazione di questi picchi di acidità in carote di prospezione prelevate in Groenlandia o nelle zone polari ha permesso una ricostruzione dettagliata delle variazioni di aerosol atmosferico legato alle grandi eruzioni.
Da pochi decenni sappiamo che la Terra non è l'unico corpo del Sistema solare ad avere una tettonica e un vulcanismo attivo. Infatti, agli inizi degli anni Settanta la sonda statunitense Mariner 9 inviò le prime immagini di giganteschi vulcani che si elevavano sulla superficie di Marte. Questa è nettamente divisa in due emisferi con caratteristiche radicalmente diverse. L'emisfero meridionale appare intensamente craterizzato da impatti meteoritici, con un paesaggio che assomiglia a quello delle zone montuose della Luna; le strutture vulcaniche appaiono lì notevolmente erose e tra esse non sono riconoscibili vulcani giovani. L'emisfero settentrionale è invece formato da pianure scarsamente craterizzate e in esso sono localizzati diversi vulcani che appaiono geologicamente molto giovani. Il più grande di essi, il Mount Olympus, ha un diametro di circa 600 km (ca. cinque volte maggiore del più esteso vulcano terrestre) e la sua vetta è a circa 23 km di altezza rispetto alla pianura circostante. Alla sommità del vulcano è visibile un'enorme e complessa caldera; lungo le pendici sono chiaramente distinguibili strutture di flusso, simili a colate laviche. Il vulcano è delimitato tutt'intorno da una ripida scarpata, alta circa 4000 m. Su Marte non sono stati osservati edifici vulcanici che mostrino una prevalenza di attività esplosiva, tipica delle zone di convergenza delle placche litosferiche, né sono state osservate catene montuose a pieghe; è quindi possibile che la litosfera del pianeta non sia suddivisa in placche in moto relativo tra loro. La presenza così imponente di vulcani è compatibile con l'ipotesi che il vulcanismo recente di Marte sia alimentato da anomalie termiche, analoghe ai punti caldi terrestri, sulle quali però la litosfera non si sposta. La costruzione di edifici così imponenti sarebbe possibile quindi, oltre che per il minor valore dell'accelerazione di gravità, anche per la persistenza della placca di litosfera sopra l'anomalia che l'ha generata.
Nel 1979 la sonda spaziale Voyager l fotografò per la prima volta un'attività vulcanica al di fuori della Terra. Avvicinandosi a Io, il più interno dei satelliti di Giove scoperti da Galileo Galilei, essa inviò le immagini di un tipico, enorme, campo vulcanico molto giovane, sul quale spiccavano inconfondibili le immagini di nove pennacchi eruttivi. I dati termici e spettrometrici inviati da Voyager l indicano che la temperatura dei pennacchi varia da 400 a 650 K e che essi sono costituiti essenzialmente da zolfo. È probabile che l'attività vulcanica su Io sia dovuta al riscaldamento che esso subisce a causa degli attriti legati alle intense maree solide provocate dalla enorme massa di Giove.
È probabile che anche su Venere esista un'attività vulcanica. La superficie venusiana è piatta e su essa sono state individuate solo due strutture di tipo continentale, che occupano solo il 5% della superficie del pianeta. Una di queste, la Terra di Ishtar, si trova vicina al polo settentrionale e comprende la Regio Beta, nella quale sono state identificate strutture simili a grossi vulcani (Mons Theia e Mons Reia, entrambi alti più di 4500 m) e una grande frattura rettilinea, bordata da strutture di tipo vulcanico. A sud di questa regione si trova la Regio Phoebe, anch'essa ricca di strutture vulcaniche. Su Venere non sono state osservate direttamente eruzioni, ma è difficile spiegare la composizione dell'atmosfera venusiana senza ammettere la presenza di un vulcanismo attivo. Altri indizi di attività vulcanica sono costituiti dalla notevole diminuzione della quantità di particelle di caligine misurata dal 1978 al 1983, spiegabile con l'immissione, in un periodo immediatamente precedente il 1978, di notevoli quantità di anidride solforosa da parte di imponenti eruzioni esplosive, e dagli impulsi radio a bassa frequenza captati dalla sonda Pioneer Venus. Questi impulsi provengono dalle regioni vulcaniche di Regio Beta e Regio Phoebe e possono essere dovuti a fenomeni elettromagnetici correlati a forti eruzioni esplosive in atto in quelle aree.
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