voluptade
Come forma volgare del latino voluptas il sostantivo indica il " piacere " o " godimento " sia della mente che del corpo. Nell'uso esso passò a connotare, prevalentemente, il piacere corporeo e quello carnale in particolare. Tale uso fu legato alla volgarizzazione della teoria epicurea del piacere, per cui v. fu senz'altro identificata con il godimento dei sensi o, semplicemente, con la ‛ libidine '.
Il termine v. è usato due volte da D. proprio in riferimento a Epicuro, il quale disse questo nostro fine essere voluptade (non dico ‛ voluntade ', ma scrivola per P), cioè diletto sanza dolore. E però [che] tra 'l diletto e lo dolore non ponea mezzo alcuno, dicea che ‛ voluptade ' non era altro che ‛ non dolore ', sì come pare Tullio recitare nel primo di Fine di Beni (Cv IV VI 11-12). Come si vede, l'accezione dantesca di v. come non dolore, si attiene a una valutazione culta della teoria epicurea del piacere, di cui è senz'altro rifiutata la facile identificazione col godimento carnale (per tutto ciò, cfr. EPICUREI; epicuro).
In Cicerone, infatti, D. poteva trovare non soltanto un'esatta collocazione dell'ἡδονὴ di Epicuro entro il contesto dei valori del linguaggio latino (" primum idem esse dico voluptatem quod ille [Epicuro] ἡδονήν…. nullum inveniri verbum potest, quod magis idem declaret Latine, quod Graece, quam declarat voluptas. Huic verbo omnes, qui ubique sunt, qui Latine sciunt, duas res subiciunt, laetitiam in animo, commotionem suavem iucunditatis in corpore ", Fin. II IV 13), ma anche una sua chiara definizione come stato d'interiore equilibrio e letizia derivante dall'eliminazione del dolore (" doloris omnis privatio recte nominata est voluptas... itaque non placuit Epicuro medium esse quiddam inter dolorem et voluptatem ", Fin. I XI 37; e ancora: " eoque intellegi potest quanta voluptas sit non dolere ", XVII 56; e v. ancora II III 8 - IV 11).
Che questa fosse la nozione di v. presente a D. è confermato da VE I VI 3, dove voluptas è data nel significato di " quiete dei sensi " (ad voluptatem nostram sive nostrae sensualitatis quietem).
Quanto alla chiosa esplicativa contenuta nel citato passo del Convivio: voluptade (non dico ‛ voluntade ', ma scrivola per P), essa, tradizionalmente recepita dagli editori, è invece espunta dalla Simonelli (Il Convivio, p. 146 n. 7) che la considera " glossa scrittoria " d'indubbia evidenza, in quanto cioè indirizzata non già da D. ai lettori, ma dallo scriba ai trascrittori. A tale soluzione, in realtà, osta proprio la formulazione in prima persona: l'esordio dichiarativo della glossa (non dico) enuncia infatti una scelta semantica che solo l'autore poteva attribuirsi, mentre è soltanto nella seconda parte (ma scrivola) che la corrispondente scelta grafica viene indicata.
In ogni caso, l'avvertimento appare quanto mai opportuno, volto com'è alla tutela di una grafia tante volte corrotta nella tradizione manoscritta medievale. Per i testi latini, lo scambio di voluptas con voluntas è incidente scrittorio assai comune nel Medioevo e andrà notato che, a favorire la variante voluntas, oltre l'esile discriminante paleografica, agì indubbiamente un dato di natura ideologica: la resistenza cioè a recepire un termine tanto negativamente connotato come voluptas, e la propensione inconscia a emendarlo con un termine graficamente possibile e concettualmente, se non adeguato, certo esente da equivoche contaminazioni.
Non è un caso, del resto, che le due forme venissero spesso a confronto nelle grammatiche e nei repertori lessicali (cfr. Carisio Ars gram. V ‛ De Differentiis ', ediz. C. Barwick 391, 14: " Voluntatem et voluptatem. Voluntas facto gaudet, voluptas fieri cupit "; Isidoro Differ. I 374 " Voluntas est desiderium nondum adeptae rei, voluptas vero rei adeptae delectatio vel bonae vel malae ", e come lui Papias vocabulista sub v.; De Proprietate sermonum et rerum, ediz. M. L. Uhlfelder, p. 82 n. 252: " Inter voluntatem et voluptatem hoc interest, quod voluntas animi, voluptas corporis ") mentre assai eloquenti sono alcuni esempi di varianti: alla formula di Terenzio (Andr. V 3, 3-4), " Ego deorum vitam propterea sempiternam esse arbitror, / quod voluptates eorum propriae sunt ", la tradizione manoscritta di Nonio (De comp. doctr.V De varia signific. verborum, ediz. W. M. Lindsay, p. 574) sostituisce " quod voluntates eorum propriae sunt " (e cfr. Servio in Verg. Ecl. VII 31, in Aen. I 73); e ancora Lucrezio (IV 984), " studium et voluptas [voluntas] "; Virgilio (Georg. III 130), " concubitus primos iam nota voluptas [voluntas] / sollicitat " (e cfr. Culex 89); Quintiliano (II X 10), " inclinare ad voluptatem [voluntatem] audientium debemus "; Cipriano (Ad Donatum 7), " Homo occiditur in hominis voluptatem [voluntatem] ", e Ireneo (Adv. haeres. I 12, ediz. W. W. Harvey i p. 55), nella cui versione latina è presente " idolothyta... in omnem festum ethnicorum pro voluntate in honore idolorum factum primi conveniunt " in luogo di " pro voluptate in honorem deorum "; per Aristotele si veda il luogo di Topica III 2, 117a 23-24 nella translatio Boethii, ediz. L. Minio-Paluello, Leida 1969 (" Aristoteles latinus " V 1-3, per cui v. anche p. 375); da segnalare infine esempi anche nella Scrittura (cfr. II Petr. 2, 13).
Neppure i testi danteschi andarono esenti da tale variante. Un caso, singolare, è quello di Ep I 5 alla cui lezione attestata dall'unico codice (Bibliot. Apost. Vat., Pal. lat. 1729, f. 60v) ad quid aliud enses et tela nostra rubebant, nisi ut qui civilia iura temeraria voluptate truncaverant et iugo piae legis colla submitterent et ad pacem patriae cogerentur?, l'edizione Barbera (Firenze 1919) e del Monti (Le lettere di D., Milano 1921, 14) sostituiscono per congettura temeraria voluntate. Tenendo fermo che temeraria indica un atto di ‛ temeritas ', di audacia che travalica nell'abuso e nel crimine, la lezione voluptate ne aggrava i connotati morali con riferimento al beneplacito e alla cupiditas che troncano i civilia iura, mentre la congettura voluntate sottolinea l'intenzionalità dell'arbitrio che non si sottomette alla " pia lex " e alle superiori ragioni della " pax patriae ". Un altro caso è quello di Mn II V 16, ove il termine ricorre due volte nel contesto di una citazione di Cicerone (Fin. II XIX 61) che celebra nei Decii il disprezzo della personale voluptas in nome della salvezza della patria. Anche qui a voluptatibus suis e quam Epycurus voluptatem petendam putat il testo tramandato dal suddetto codice (f. 41v) sostituisce de voluntatibus suis cogitabat e quam Epicurum voluntatem petendam putat.
Il termine latino ricorre ancora in Mn I IV 3 ov'è contrapposta la pax evangelica alle divitiae, voluptates, honores, longitudo vitae, sanitas e robur, e dove " voluptas " conserva il valore medio di " godimento umano ". in Eg II 84 dira voluptas, se quanto alla lettera riporta alle crudeli conseguenze della passione amorosa, per via allegorica (v. EGLOGHE; Polifemo) alluderà alla radice dei torbidi politici, in singolare corrispondenza col tema di Ep I 5.