VOLTURNO (A. T., 27-28-29)
È il maggior fiume dell'Italia meridionale, spettante per la massima parte alla Campania. Ha origine col nome di Fosso di Vigna Lunga dal Monte Meta e riceve dopo pochi chilometri le copiose acque della sorgente di Capo Volturno, da cui comunemente si considera che abbia inizio il fiume. Riceve poi, sulla sinistra, le acque della Vandra (la cui valle mette al passo detto Bocca di Forli), ingrossata dal torrente Cavaliere che scola la conca d'Isernia. Scorre prima tra la Meta e il Matese, e poi, deviato, dai materiali eruttati dal vulcano di Roccamonfina, dal suo originario corso pressoché rettilineo verso il Tirreno, fa un'ampia curva a sud-est, girando, attraverso l'ampia pianura di Alife, tra le alture di Monte Maggiore e il Matese, e, sboccando, dopo la stretta di Caiazzo e la gola di Triflisco, nel bassopiano campano. A monte della pianura alifana ha già raccolto le acque del Matese occidentale che gli portano i fiumi carsici Sava e Lete, e poco sotto Alife è pure alimentato dal Torano, il più importante dei corsi d'acqua del Matese meridionale. Ma il suo maggiore affluente il Volturno lo riceve proprio in prossimità della stretta di Caiazzo dove è obbligato a svoltare verso occidente; esso è il Calore, che proviene dall'Accellica e attraversa l'ampia conca di Benevento, dove raccoglie le acque dell'Ufita, del Tammaro e, proprio sotto Benevento, quelle del Sabato. L'ultimo degli affluenti notevoli del Volturno è l'Isclero, che passa per S. Agata dei Goti. Nella pianura campana il Volturno scorre, con scarsissima pendenza, formando varî meandri, girando con uno di essi intorno a Capua, e dando origine a numerosi acquitrini che opere di bonifica vengono eliminando. Il fiume è sorpassato presso Arnone e Cancello dalla direttissima Roma-Napoli, e ha termine poco dopo Castelvolturno (antica Volturnum) con una foce a delta. Il Volturno ha un corso di 185 km. (167 da Capo Volturno); il suo bacino è vasto 5677 kmq. (di cui 3050 spettano al bacino del Calore); la sua portata massima è calcolata a circa 1300 mc., mentre la media è di 82 mc. al secondo.
Bibl.: Min. di agr., ind. e comm., Volturno, Sarno-Tusciano, vol. XXIII della Carta idrografica d'Italia, Roma 1896; Min. dei lav. pubbl., Dati caratteristici dei corsi d'acqua italiani, Roma 1934, p. 256.
Battaglia del Volturno. - È l'episodio culminante dell'impresa di Garibaldi, che - dopo avere conquistato la Sicilia e vittoriosamente percorso i possedimenti di terraferma del regno borbonico, dall'estrema costa calabra a Napoli - si misurava in campo aperto con l'esercito napoletano, comandato dal giovane re Francesco II e lo costringeva a riparare nella fortezza di Gaeta, dopo fiera lotta (1-2 ottobre 1860).
Garibaldi, che con la cooperazione di E. Cosenz, organizzatore e comandante, futuro capo di Stato maggiore dell'esercito italiano, aveva dato un nuovo assetto all'esercito meridionale, si trovava a fine settembre con le forze (circa 25 mila uomini) dislocate sulle alture del Volturno, fronte al fiume, la linea di maggiore resistenza parallela al corso d'acqua e distante da questo una ventina di chilometri in media, e una grossa ala sinistra protesa in avanti di fronte alla fortezza di Capua. Quest'ala era costituita dal gruppo agli ordini del gen. G. Medici ed era dislocata fra S. Angelo, Santa Maria, Casino Reale. Le altre unità formavano il gruppo centrale (agli ordini di S. Türr sulle alture a nord di Caserta) e il gruppo di destra (a nord di Maddaloni, al comando di Nino Bixio). Garibaldi aveva stabilito il posto di comando a Caserta.
Le schiere borboniche - di forza notevolmente superiore a quelle garibaldine, specie in cavalleria (40.000 uomini con 21 squadroni) e con numero quasi doppio di cannoni - erano raccolte sulla riva destra (settentrionale) del Volturno attorno alla fortezza di Capua, il cui possesso consentiva ai borbonici il libero spostamento dall'una all'altra sponda del fiume. Lo Stato maggiore di Francesco lI aveva progettati di prendere l'iniziativa delle operazioni, sboccando da Capua di sorpresa nelle direzioni di Santa Maria Capua Vetere e di Sant'Angelo col grosso delle forze, e manovrando nel tempo stesso per la sinistra con un forte distaccamento (3 battaglioni esteri e 2 battaglioni di linea napoletani) che doveva, per il ponte di Caiazzo, raggiungere Valle e attaccare le alture a nord di Maddaloni. Il disegno in linea generale non mancava di saggezza, ma fece difetto l'abilità nell'esecuzione, la quale peccò per due ragioni: la dosatura delle forze portò a un eccesso di disponibilità dalla parte di Capua e a scarsa potenzialità dalla parte di Maddaloni; e, in secondo luogo, non furono impiegate nella battaglia tutte le forze disponibili, avendo il comando borbonico tenuto una divisione (delle tre che costituivano il corpo di battaglia) inoperosa sulla destra del Volturno a monte di Capua. Per contro, dalla parte dei garibaldini, la difesa ebbe il vantaggio di una posizione centrale fra le due azioni (principale e secondaria) dell'avversario, vantaggio che poté essere assai bene utilizzato, data la superiorità del morale delle schiere garibaldine, derivante dal maggior ascendente dei capi e dal maggior fervore guerriero dei gregarî.
In riassunto, gli avvenimenti si svolsero così:
Il 1° ottobre, nel settore di sinistra (gruppo Medici) la forte pressione borbonica ha ragione da principio degli avamposti garibaldini. Ma per il possesso di S. Angelo si accende vivissima battaglia, con alterna vicenda, durante la quale il Medici si pone alla testa dei garibaldini concentrati in quella località, e di gran lunga inferiori alle forze dell'attacco. Da una parte e dall'altra si è compresa l'importanza del possesso di S. Angelo, che ai borbonici avrebbe consentito di attuare - e ai garibaldini avrebbe consentito di impedire - l'aggiramento delle posizioni di S. Maria. Fra le opposte schiere si viene più volte alla baionetta. Già sembra che i volontarî del Medici debbano avere la peggio (un distaccamento borbonico stava per aggirare S. Angelo) quando Garibaldi accorre da S. Maria, con alcuni rinforzi. Imbattutosi, strada facendo, col nemico, il duce dei Mille corre il rischio di cadere prigioniero, ma i suoi uomini riescono a liberarlo con le baionette. Così Garibaldi poté raggiungere Medici, che si trovava allora su un'altura immediatamente a N. di S. Angelo. Dopo di che, mandò ordine al Türr di rinforzare con truppe del gruppo di Caserta il settore di S. Maria al quale lo stesso Garibaldi faceva ritorno. Con queste forze il duce dei volontarî attuava brillantemente un'audace controffensiva, mentre inviava al Medici nuovi rinforzi (due brigate col gen. G. Avezzana). Alle 6 pomeridiane l'attacco del grosso borbonico era fallito, la linea iniziale garibaldina ripristinata.
Anche a nord, in corrispondenza al gruppo centrale, gli avamposti garibaldini, attaccati da forze maggiori, avevano dapprima ripiegato qua e là, ma non da Castel Morrone, dove l'eroico P. Bronzetti con soli 250 bersaglieri volontarî si sostenne a lungo col fuoco, con le baionette, con i sassi, prima di cadere eroicamente. Garibaldi chiamò Castel Morrone "le Termopili italiane". In tale settore il distaccamento borbonico avanzerà ancora nella direzione di Caserta, ma finirà con l'essere accerchiato dai garibaldini. A est, contro il settore occupato dal Bixio procedeva l'accennata colonna aggirante borbonica, forte di 7000 fanti e 3 batterie mentre il Bixio disponeva soltanto di 5000 uomini o poco più. Al primo impeto dell'attacco gli avamposti garibaldini di Monte Caro cedono terreno. Ma il Bixio ha giurato a Garibaldi che i suoi moriranno sul posto, e impediranno che il nemico cali sulle comunicazioni fra Caserta e Napoli; ordina un contrattacco (G. Dezza e Menotti Garibaldi) che riprende il Monte Caro.
Nella giornata del 2 ottobre la colonna borbonica che aveva passato il Volturno di fronte a Gradillo e Castel Morrone, puntava su Caserta. Garibaldi, avutane notizia, inviava incontro ad essa le poche truppe di cui il Türr disponeva ancora, rinforzandole con truppe del Bixio. La colonna borbonica veniva attaccata, accerchiata e fatta prigioniera sulle alture di Caserta Vecchia.
Gli eventi avevano portato Italiani a combattere contro Italiani. D'ambo le parti si diede prova di grande valore. Garibaldi riconobbe l'eroismo dei borbonici, scrivendo: "ho potuto persuadermi che quegli stessi soldati che noi combattemmo nell'Italia meridionale, non indietreggeranno sotto il vessillo emancipatore".