volonta
La facoltà del volere; potere insito nell’uomo di scegliere e realizzare un comportamento idoneo al raggiungimento di fini determinati, o, più genericamente, disposizione a fare qualche cosa. La natura della v. costituisce un tema di riflessione per la filosofia sia in quanto questa si propone di comprenderne la struttura interna, sia in quanto si prospetta la questione del rapporto della v. con le altre forme e attività dello spirito.
Nel pensiero greco, principalmente volto a indagare la funzione del conoscere e l’oggettiva realtà a essa corrispondente, il concetto di v. viene ad assumere nella maggior parte dei casi una posizione subordinata. Secondo il Socrate platonico l’azione malvagia si spiega con l’ignoranza; la v. infatti tende per sé al bene e dipende dalla conoscenza di questo: nessuno fa il male volontariamente. Aristotele affronta il problema della natura del volere in una prospettiva naturalistica e psicologica, ponendo nell’uomo il principio tanto del bene che del male. Tale principio non è l’intelletto, ma l’appetito il quale, ove operi in accordo con la ragione, si comporta come volontà. Un analogo rapporto di subordinazione della v. alle facoltà conoscitive superiori dell’uomo si ritrova anche in altre dottrine etiche antiche, orientate per lo più verso gli ideali dell’adiaforia, dell’atarassia, dell’apatia, della contemplazione, e cioè, al di là di ogni altra differenza, verso l’unico ideale dell’affrancamento, comunque raggiunto, dagli sconvolgimenti della volontà. Particolare rilievo assume in questo contesto la dottrina stoica della βουλήσις quale impulso nettamente distinto dal desiderio, dalla passione sfrenata, sul quale la ragione esercita il proprio controllo; essa verrà ripresa da Cicerone, nella sua definizione della voluntas come desiderio razionale (nelle Tuscolanae disputationes), che si distacca dall’uso epicureo del termine latino, già peraltro attestato in Lucrezio, che lo utilizza per illustrare la dottrina epicurea del clinamen.
È il pensiero cristiano che per primo riserva alla v., in quanto libera, un ruolo centrale e lascia a essa la decisione del suo conformarsi o meno al volere dell’unico Dio creatore. Qui la problematica della v. si coniuga con il tema della scelta tra il bene e il peccato, del rapporto tra v. umana e v. divina, come pure tra v. e intelletto. Così, in Agostino, la v. umana è immagine di quella divina, quindi fondamentalmente libera, sebbene condizionata dal desiderio, ma ha bisogno della grazia per attuarsi compiutamente. E nella scolastica, la tendenza predominante è quella a riconoscere l’ambito della ragione come limitato e insufficiente, mentre si amplia il raggio di azione della v., che conduce all’adesione alle verità di fede, indipendentemente dalle conoscenze dell’intelletto (➔ volontarismo), sebbene Tommaso d’Aquino tenti di mediare la tendenza volontaristica con l’istanza razionale, radicando la libertà umana nella ragione, che indica alla v. gli oggetti verso i quali deve tendere e i motivi del suo agire.
Nel pensiero moderno il problema del rapporto ragione-v. si ripropone con Descartes, il quale, mentre ritiene che in Dio v. e intelletto si identifichino, concepisce la v., nell’uomo, come facoltà distinta e più estesa rispetto all’intelletto; pur essendo volta verso il bene, potendo concedere il suo assenso senza avere prima conseguito una conoscenza chiara e distinta delle cose, essa è quindi la causa dell’errore sia teoretico che pratico. Notevolmente diversa si presenta la posizione di Spinoza, che tende a ristabilire il primato teoretico dell’intelletto sulla v., anche con riferimento a Dio, e rifiuta pertanto, assieme all’idea di creazione, la nozione di una «causa libera» dell’agire umano, chiamando v. quel principio intrinseco all’essenza di ogni cosa (sforzo o conatus) che si riferisce alla sola mente, e che assume il nome di appetito quando viene riferito all’insieme del corpo e della mente. Pur non giungendo a negare il libero arbitrio, Hobbes ne riduce la portata nella sua indagine meccanicistica degli atti di volizione, che lo porta da un lato a escludere l’esistenza di un’apposita facoltà e, dall’altro, a ricondurre la v. a un atto deliberativo, più in partic. l’ultimo che si ha in caso di successione alternata di appetiti contrari (desideri e motivazioni di carattere finalistico). In questa stessa linea interpretativa si collocano Locke e soprattutto Hume, che riduce la v. a un’impressione interna, legata ai movimenti del corpo, e sottolinea come la ragione, da sola, non possa guidarla, risultando impotente quando deve contrapporsi alle passioni. Parallelamente, nella Francia illuministica, segnatamente con Diderot e soprattutto con Rousseau, il concetto di v. assume una forte rilevanza politica; in partic. con il concetto di v. generale (volonté générale), Rousseau indica la v. del corpo politico inteso come persona pubblica, in cui ciascun membro è parte indivisibile del tutto; nettamente distinta dalla v. di tutti (volonté de tous), ossia dalla mera somma delle v. individuali (subordinate a interessi privati), la v. generale ha come unico fine l’utilità pubblica, è infallibile e, attraverso le leggi, ristabilisce nel diritto l’uguaglianza tra gli uomini, garantendo la libertà di ciascuno. E legislatrice è la v. anche nella filosofia kantiana, sebbene solo in campo morale, e opportunamente guidata dagli imperativi categorici della ragione, che depurano l’azione di motivazioni e contenuti concreti (piacere, felicità, ecc.). Nella filosofia tedesca del periodo postkantiano si delineano quindi, specialmente con Hegel e Schopenhauer, due tendenze contrapposte, che però si riallacciano entrambe alla Critica della ragion pratica: per il primo, infatti, il «volere», in quanto (a differenza dell’intelletto) non prende il mondo così com’è, ma mira a trasformarlo in base all’idea del bene, a farne ciò che deve essere, è momento fondamentale dello sviluppo dell’idea e della verità (trovando posto nella Logica), mentre la v. libera, in quanto prima forma dello spirito oggettivo, si attua nel diritto, cioè in un sistema di relazioni dotato di un contenuto oggettivo e razionale; per il secondo, invece, la v. rappresenta, kantianamente, l’accesso al noumeno, alla cosa in sé, ma come cieca e irrazionale v. di vivere, radicata nella corporeità, cui ci si può sottrarre soltanto con l’ascesi. La concezione di Schopenhauer sarà poi rielaborata da Nietzsche, sulla base della sua peculiare concezione della tragicità dell’esistenza, poggiante sulla nozione di dionisiaco, e culminerà nell’idea della v. di potenza quale esaltazione massima dell’energia vitale, con cui l’oltreuomo impone fini e valori che superano la morale corrente, fuoriuscendo dalla tradizione metafisica. Nel pensiero posthegeliano e nella filosofia novecentesca la nozione di v. è stata variamente reinterpretata alla luce di categorie meno legate alla tradizione, come quella di prassi (nel marxismo e nel pragmatismo), o di atto intenzionale (nella fenomenologia), se non direttamente derubricata a questione psicologica (in partic. nel neopositivismo), sulla scorta della puntuale indicazione di Wittgenstein: «Del volere quale portatore dell’etico non può parlarsi. E la v. quale fenomeno interessa solo la psicologia» (Tractatus logico-philosophicus, 6.423).