Voce
La voce è un fenomeno sonoro prodotto da uno strumento a fiato e da una cassa di risonanza: lo strumento è rappresentato dalla laringe, tubo cartilagineo, che regola il passaggio dell'aria dentro e fuori l'albero respiratorio; la cassa di risonanza è formata dalla faringe, dalle cavità nasali e paranasali, dalla bocca con le sue parti (velopendulo, arcate dentarie e lingua), dalla cassa toracica e dal diaframma (v. fonazione). Ciascuna di queste strutture anatomiche è collegata con centri cerebrali, per cui la voce viene emessa (e, fino a un certo punto, modificata) volontariamente. All'interno della laringe sono tese le due corde vocali (piccole strutture muscolocartilaginee), la cui vibrazione, provocata dalla corrente espiratoria, produce la voce, che varia secondo l'intensità, l'altezza e la durata delle vibrazioni stesse e si modifica poi nella cavità bucconasofaringea assumendo un particolare timbro.
La voce appare determinata, sul piano qualitativo, dalle caratteristiche di intensità, durata, altezza e timbro; ciascuna di queste varia, sul piano quantitativo, con l'essere più o meno accentuata (accentata). Dall'intensità della vibrazione delle corde vocali dipende la forza del suono, che si indica con l'accento dinamico o intensivo (emphatic o stress in inglese; prosodique o syllabique o tonique in francese). Di tutti i tipi di accento esso è quello che prevale nelle varie lingue europee, pur essendo in ciascuna più o meno sensibile. In inglese tutte le varietà di accento sono praticamente varietà di stress, mentre in francese la varietà è assai poco evidente. Quando la variazione fonetica cambia il senso della parola si dice che ha un valore fonologico; in italiano questo si verifica raramente (per es., àncora e ancòra, pésco e pescò). La durata della vibrazione delle corde vocali determina la quantità del suono, per cui una vocale può essere lunga o breve: questo carattere era molto evidente nel greco e nel latino ed è tuttora vivo nel tedesco, nell'inglese e nelle lingue slave, nonché in finnico, unica lingua che indichi graficamente la vocale lunga, raddoppiandola. Uno dei fenomeni più studiati dell'evoluzione fonetica è il venir meno del classico 'senso della quantità', tanto che attualmente non viene riconosciuto un accento quantitativo o temporale se non come una sottospecie dell'accento dinamico. Mentre nel latino e nel greco antico la diversa quantità aveva un valore fonologico (per es., mālus, "melo", mălus, "cattivo"), attualmente lo si osserva soltanto in poche lingue europee (ceco, ungherese ecc.). In italiano la quantità può costituire una semplice variante fonetica tra due vocali ugualmente accentate (per es. la a di pane è più lunga di quella di patto). All'aumento dell'altezza della voce (prodotto da una maggiore frequenza delle vibrazioni delle corde vocali) corrisponde l'accento musicale o cromatico o tonico (musical o chromatic o pitch o tonal in inglese; pathétique od oratoire in francese). Nelle moderne lingue europee l'accento tonico ha poca importanza rispetto all'accento dinamico; nel sanscrito e nel greco antico esso aveva un valore fonologico, che anche nel greco moderno si è perduto. L'accento tonico si manifesta soltanto con una pronuncia su un tono più alto della sillaba accentata ed è particolarmente evidente, per es., in francese. Esso non ha valore fonologico in alcuna lingua europea, salvo che nel lituano e nel serbo. La più importante lingua moderna nella quale il tono serva a esprimere differenze di senso è la cinese. L'accento tonico si direbbe quindi di scarso rilievo nel nostro ambito linguistico, se non fosse che esso non va considerato soltanto come tono della singola vocale, ma come intonazione o inflessione dell'intera frase. Sia questa lunga o corta, magari monosillabica, è facile osservare che il suo carattere espositivo o imperativo, esclamativo o interrogativo, così come quello di esprimere i sentimenti di chi parla, è in rapporto con l'intonazione. Da questa dipendono in larga misura l'espressività enunciativa (che presenta l'enunciato in modo da farlo riconoscere) e quella enfatica (che presenta la figura e il ruolo di chi parla e risveglia nell'uditore determinati sentimenti), di modo che l'accento tonico o musicale è particolarmente incisivo nella voce recitata e in quella cantata. L'intonazione è un mezzo primario di espressività, perché raccoglie in un disegno melodico individuale il nucleo semantico contenuto nel singolo atto di relazione verbale. Questa melodia conchiusa costituisce la frase, che si offre come l'unità linguistica nella quale può esplicitarsi l'intenzione di comunicare. Se si considera l'intonazione non del singolo suono vocalico, ma dell'intera frase, bisogna osservare che la sua melodia cinetica risulta dal succedersi non soltanto di suoni di diversa altezza, ma anche di gruppi di suoni emessi a velocità diversa, senza contare le pause. In alcune lingue, ma non in italiano, si aggiunge anche l'alternarsi di suoni di diversa durata. Per distinguere la successione quantitativa (velocità dei gruppi di suoni, pause, durata) da quella tonale, si riserva a quest'ultima il termine intonazione e si indica la prima con il termine ritmo (con un'estensione di quel che per ritmo si intende in musica: successione di suoni di diversa durata; v. ritmo). Il carattere individuale della melodia cinetica, più ancora che nei singoli, si manifesta nei gruppi regionali (si consideri, per es., come è intonata una frase interrogativa da un bolognese e come lo è da un lombardo) oltre che nelle lingue nazionali. Il timbro, che dal punto di vista acustico corrisponde alla forma dell'onda sonora quale risulta dal sovrapporsi delle varie armoniche, più di ogni altro elemento fonico sembra assolvere la funzione espressiva di far riconoscere chi parla. L'indagine elettroacustica condotta sulla voce umana permette di registrare dei tracciati, che presentano però innumerevoli variazioni, sotto le quali scompare la forma dei singoli suoni, cosicché l'identificazione di ciascuno di essi mediante l'individuazione grafica del suo timbro non si può considerare conclusiva, mentre nella vita quotidiana ci si affida continuamente a riconoscimenti 'a orecchio'. Le variazioni timbriche della voce si estendono in una gamma vastissima e non c'è alcuna soluzione di continuità tra l'una e l'altra, come avviene nei colori dell'iride (infatti il timbro si indica anche come colore del suono). Quando si afferma che una vocale può avere timbro aperto, chiuso o indifferente, non si fa che indicare diversità molto ampie, dovute al luogo di articolazione e al grado di apertura della vocale, giacché in realtà le variazioni timbriche sfumano sottilmente: non solo, ma le vocali stesse 'trascolorano' l'una nell'altra (Trubeckoj 1939). Sebbene il suo carattere sia soprattutto individuale, il timbro ha anche un valore istituzionale. In italiano le variazioni del timbro possono avere rilevanza fonologica quando riguardano la o e la e. Si dicono omonimi impropri parole come pésca (il pescare) e pèsca (il frutto) e come córso (strada larga) e còrso (della Corsica).
Descrivendo partitamente le caratteristiche della voce (intensità, durata, altezza e timbro) si è voluto offrire una sistematica fonetica e, in particolare, una sistematica degli accenti. L'evoluzione degli accenti è decorsa in modo non parallelo nelle varie lingue, come si può constatare anche limitandosi all'italiano, all'inglese e al francese, di cui sono state riportate le corrispondenze terminologiche relative alle diverse varietà di accento: i termini ricorrenti sono il segno residuale di differenti situazioni storico-culturali. Anche l'uso grafico degli accenti non risponde sempre e soltanto all'opportunità pratica di indicare la pronuncia più corretta, ma rispecchia usi tradizionali di cui non sempre è rintracciabile l'origine. Il latino accentus traduce il greco προσῳδία, mentre questi due vocaboli sono passati nelle lingue moderne con un significato ben distinto. La stessa parola prosodia era usata dai grammatici greci per indicare, in un'epoca più antica, la particolare inflessione di carattere musicale della loro lingua e, in un'età più recente, la quantità del metro poetico. In italiano, nell'accezione comune, il termine designa lo studio della quantità e quindi non ha in pratica utilizzazione nelle lingue romanze. In francese prosodie equivale a 'pronuncia delle parole' seguendo sia l'accento dinamico sia la quantità, per cui essa è la base della metrica. La prosodia però non esaurisce la metrica, perché essa studia la quantità (greco e latino), la qualità, cioè la distribuzione nel verso degli accenti dinamici (lingue romanze), o entrambe (inglese, tedesco ecc.), ma non si occupa della rima. Considerata sotto questo aspetto, essa si svincola dal suo legame originario con la versificazione e vale come studio dell'accento dinamico anche al di fuori dei versi. Attualmente si tende a un uso ancora più ampio del termine prosodia, indicandosi con esso tutte le caratteristiche fonetiche della frase e cioè tutte le modulazioni della voce nel veicolo dell'espressività verbale (Miller 1951). La prosodia presiede alle modalità con cui la voce diventa messaggio. Ogni atto di parola esprime una duplice tensione: verso la lingua del gruppo per darle un senso attuale e verso l'uditore, inteso come colui che possa condividere la stessa tensione verso la lingua, al fine di costituire insieme un nucleo relazionale di linguaggio vivo. I vari elementi fonici, che si conviene formino la prosodia, sono utilizzati dal parlante per captare l'attenzione dell'uditore. Si è già visto qual è il ruolo di ciascuno di essi. Uniti insieme, gli elementi prosodici conferiscono una forma specifica alla porzione discreta di tempo occupata dalla frase. Nel succedersi indifferenziato del tempo, contrassegnano la durata di determinati momenti. In questi intervalli temporali la lingua del gruppo diventa linguaggio (la parole di F. De Saussure) e la voce è supporto di comunicazione intelligibile tanto più efficace quanto più gli intervalli temporali sono successivi, a segno che 'parlare distintamente' e 'parlare uno alla volta' sono le condizioni prime dell'espressività enunciativa, permettendo che si dispieghi il ritmo sia della singola frase sia del dialogo. Nei medesimi intervalli, l'emissione della voce può diminuire il suo lato temporalmente discreto e accentuare il suo lato intensivo, facendo emergere con più evidenza la sua qualità di corpo fonico e diventando supporto di espressività più enfatica che enunciativa (salvo che l'educazione a recitare non metta in equilibrio le due). Del corpo fonico vengono esperiti i diversissimi gradi di consistenza nelle differenti transazioni interpersonali: prova ne sia che molte risorse linguistiche sono spese per esprimere i vissuti emergenti dall'incontro del proprio corpo con il corpo fonico. C'è la parola carezzevole e quella corrosiva; la parola avvolgente e quella urtante; la parola morbida e quella dura; la parola dolce e quella aspra; la parola che cola come il miele (melliflua) e quella che cade come un macigno; la parola calorosa e quella fredda e così via. Questi vissuti corporali mettono in evidenza che la trasmissione del messaggio verbale richiede un processo che trascende la sfera acustica e si diffonde a quella tattile e a quella cinestesica. Quando si parla, non si ha la sensazione di emettere delle onde sonore controllate dall'udito, ma ci si sente trasfondere tutto nella voce, sia pure con una modulazione, che l'uditore afferra collocando il messaggio tra il massimo contatto corporeo e il massimo distacco, e qualificandolo tra un estremo e l'altro di una coppia antinomica come quelle appena riportate. Quando si dice che la voce è piena o è soffocata, si fa un richiamo implicito al volume del corpo fonico e si allude, nello stesso tempo, sia alla disponibilità di fiato sia alla libertà di farlo risuonare. Così il respiro non è più confinato nella sfera biologica, ma emerge alla sfera esistenziale come un mezzo necessario non soltanto per la sopravvivenza dell'individuo ma anche per l'affermazione della sua presenza. Modulato dalla prosodia, il fiato acquista una valenza espressiva, che si manifesta abitualmente con la produzione di suoni destinati alla comunicazione, ma che può tradursi anche nella produzione d'un linguaggio afono e solipsistico: è il caso dello studente che ripete tra sé e sé la lezione; di chi canticchia interiormente per passare il tempo o per distrarsi da un pensiero penoso; di chi respira ogni tanto a tempo di musica come se volesse personalizzare la sfera respiratoria e praticarla come dominio riservato e inviolabile. Questi usi marginali del respiro, a metà strada tra la voce spiegata e il silenzio, si apparentano con l'abitudine di leggere ad alta voce o a mezza voce per imprimersi meglio il testo nella mente. Presso gli antichi era questo il modo abituale di leggere, perché sia il greco sia il latino erano scritti con una parola dopo l'altra, senza spazi né punteggiatura, e il lettore doveva individuare la separazione (rima) tra le parole e sottolinearla con la voce (Tasinato 1997). Per accedere a una scuola di recitazione bisogna superare ancora oggi una prova di lettura ad alta voce, per dimostrare di sapersi calare coscientemente nella propria cassa di risonanza e di saperla differenziare (voce di testa, voce di diaframma). La voce nasce in uno spazio (la cassa di risonanza) e si sviluppa con un orientamento (dal dentro verso il fuori). Una volta emessa, l'orientamento opera con il far volgere il capo (metaforicamente o no) in vari e diversi spazi. C'è lo spazio cosmico (voce di Dio, della natura); quello naturale (voce del mare, della terra, della foresta); quello pubblico (voci della città, di corridoio, del 'si dice'); quello supposto pubblico (voci allucinatorie); quello interiorizzato (voce del cuore, della coscienza, del sangue) e quello relazionale dell'incontro. La funzione orientativa della voce, inscritta nella dimensione spaziale, è altrettanto fondamentale di quella enunciativa, relativa alla dimensione temporale, e di quella enfatica, riguardante la dimensione corporale.
Moltissime sono le malattie che provocano disturbi della voce: quelle che colpiscono direttamente un segmento dell'apparato fonatorio o del mantice; quelle che lo colpiscono indirettamente, come le alterazioni endocrine (soprattutto l'ipogenitalismo: si pensi alla castrazione finalizzata al mantenimento nell'adulto della 'voce bianca'); quelle che colpiscono i centri nervosi interessati alla produzione della voce. Le malattie nervose permettono d'individuare più nitidamente delle altre il tipo di alterazione fonetica ('disprosodia': Monrad-Krohn 1947; Calvi 1963). Nel morbo di Parkinson (v. parkinson, morbo di), in quello di Alzheimer e, in un recente passato, nella paralisi progressiva, ora scomparsa, l'accento tonico è livellato (voce monotona); nei disturbi cerebellari, per es. nella sclerosi multipla, è alterata la distribuzione degli accenti tonici nella frase (voce esplosiva oppure scandita); nella balbuzie (v.) si rilevano un disturbo del ritmo con intoppi (balbuzie tonica) e/o pause insolite (balbuzie clonica). Raramente vengono segnalati spostamenti dell'accento dinamico (profèssore invece di professóre ecc.) e alterazioni del timbro (il malato sembra parlare una lingua straniera), perché sfuggono nel quadro complesso delle afasie provocate da ictus cerebrale. Nelle malattie mentali le alterazioni della voce sono frequenti, ma non sono descrivibili in modo sistematico. Lo stesso vale per gli svariati cambiamenti che recano alla voce i turbamenti degli affetti.
bibl.: g. bilancioni, La voce parlata e cantata, normale e patologica, Roma, Pozzi, 1923; l. calvi, La disprosodia nelle malattie nervose, "Archivio di Psicologia, Neurologia e Psichiatria", 1963, pp. 72-95; g.a. miller, Language and communication, New York, McGraw-Hill, 1951 (trad. it. Firenze, La Nuova Italia, 1972); g.h. monrad-krohn, Disprosody or altered 'melody of language', "Brain", 1947, 70, p. 405 e segg.; m. tasinato, L'occhio del silenzio, Padova, Esedra, 1997; n.s. trubeckoj, Grundzüge der Phonologie [1939], Göttingen, Vandenhoeck und Ruprecht, 19623 (trad. it. Torino, Einaudi, 1971).