SUBILIA, Vittorio
– Nacque a Torino il 5 agosto 1911. Il padre, Aldo, era di tradizione protestante valdese e di professione commerciante di pietre preziose, mentre la madre, Adele Pecoraro, napoletana, era di origine cattolica e aveva aderito alla Chiesa valdese nei primi anni del Novecento.
Subilia ricevette la formazione catechistica nella Chiesa valdese di Torino. Secondo una testimonianza autobiografica, l’adesione a una fede cristiana consapevole risale alla fine degli studi liceali e coincise con la decisione di diventare pastore protestante. Nel 1930 entrò alla facoltà valdese di teologia di Roma.
In quegli anni, la facoltà era orientata a una teologia di tipo liberale, coniugata però con la tradizione del Risveglio ottocentesco, che sottolineava la pietà personale, la dimensione del sentimento religioso, la passione missionaria. I fermenti più significativi del pensiero teologico europeo di quel tempo, in buona parte legati al nome di Karl Barth, giunsero in Italia non grazie all’istituto di formazione, bensì al pastore Giovanni Miegge e alla rivista Gioventù cristiana, nonché alla casa editrice Doxa, legata all’intellettuale calabrese Giuseppe Gangale.
Subilia aderì al gruppo dei ‘barthiani’ riunito intorno a Miegge, nel quale la spinta verso il superamento di un pensiero teologico piuttosto convenzionale si univa a una sensibilità politica marcatamente antifascista. Dopo il servizio militare come ufficiale degli alpini, Subilia fu consacrato pastore nel 1937. Qualcuno, nella Chiesa, avanzò sospetti sull’ortodossia del giovane, ma i suoi insegnanti di Roma, dai quali, pure, era ormai teologicamente lontano, garantirono per lui. Nel 1936 sposò Berta Baldoni, che sarebbe stata per lui anche una collaboratrice appassionata e molto efficiente.
La prima sede pastorale fu Palermo, dove Subilia, che fu sempre di salute piuttosto cagionevole, si ammalò di una forma piuttosto seria di meteoropatia. Trasferito ad Aosta nel 1940, visse un periodo estremamente intenso, nel quale si qualificò come una delle figure più significative della piccola Chiesa valdese.
Il pensiero di Barth, con la sua accentuazione del primo comandamento e della confessione cristiana sulla signoria di Cristo, costituì uno stimolo e uno strumento per la critica dell’assolutismo politico. La comunità valdese di Aosta coagulava intorno a sé numerosi esponenti dell’antifascismo locale e più tardi diversi suoi membri entrarono nella Resistenza; la testimonianza di Subilia andò molto al di là della parrocchia valdese, ottenendo rilievo cittadino.
Nel settembre del 1943 il giovane pastore presentò al sinodo valdese un ordine del giorno nel quale la Chiesa confessava come un peccato il fatto di non aver elevato una voce profetica negli anni del fascismo; il testo venne poi ritirato per evitare una spaccatura nel sinodo. Subilia rifiutò di arruolarsi nell’esercito di Salò e visse diversi periodi di clandestinità, senza però interrompere i rapporti con la comunità di Aosta.
Nel 1946 Miegge fondò la rivista Protestantesimo, che raccoglieva l’eredità degli organi di stampa barthiani degli anni precedenti; dopo due anni Subilia ne assunse la direzione, che mantenne fino alla morte. Il 1948 vide anche la costituzione, ad Amsterdam, del Consiglio ecumenico delle Chiese e Subilia rappresentò in quell’occasione la Chiesa valdese. Il suo primo volumetto è appunto dedicato a Il movimento ecumenico. Il sinodo del 1949 chiamò il trentottenne pastore alla cattedra di teologia sistematica alla facoltà valdese. Per prepararsi a tale compito, e considerato il fatto che egli non aveva trascorso l’anno di studi all’estero normalmente offerto a tutti gli studenti della facoltà valdese, Subilia ottenne un soggiorno di studio a Basilea, dove, oltre a Barth, incontrò l’esegeta Oscar Cullmann, che divenne amico fedele non solo del teologo, ma della facoltà come tale, dove sarebbe stato regolarmente professore ospite per circa quarant’anni. A Roma già insegnava, dal 1940, Valdo Vinay e nel 1952 arrivò Miegge. I tre professori conferirono alla facoltà un orientamento marcatamente ispirato al pensiero di Barth, che divenne il grande mentore teologico del protestantesimo italiano.
Se la vita pastorale di Subilia era sempre stata nutrita da un consistente impegno teologico, la sua attività accademica visse un denso riferimento alla Chiesa: per lui, come per Barth, la teologia era ‘ecclesiale’, al servizio cioè della predicazione della comunità cristiana, e si declinava come autoriflessione critica della fede. ‘Ecclesiale’ non significa, però, clericale: Subilia sostenne che Dio è ‘laico’ e che la Chiesa e la predicazione debbano distanziarsi da ogni aura di sacralità, per immergersi nella profanità del mondo e con essa dialogare. Egli cercò di conferire tale carattere interdisciplinare anche alla rivista Protestantesimo.
Dopo un piccolo libro dedicato a Il problema del male, la convocazione del Concilio Vaticano secondo spinse Subilia a studiare a fondo il cattolicesimo romano. A suo parere, protestantesimo e cattolicesimo costituivano forme alternative di cristianesimo. Il Concilio non gli apparve come un’attenuazione, bensì come un rafforzamento di tale antitesi, in quanto interpretato come un tentativo di riassorbire nella complexio oppositorum romana, articolata intorno al papato, anche la modernità e le sue conquiste. A ciò che egli definiva il principio cattolico inclusivo dell’et et veniva contrapposto quello, ritenuto caratteristicamente protestante, dell’aut aut. Si tratta di un punto di vista espresso in Il problema del cattolicesimo (1962) e poi in La nuova cattolicità del cattolicesimo (1967).
La lettura subiliana del Vaticano II risulta diametralmente opposta a quella di Vinay, che invece considerava la stagione conciliare come inizio di una nuova era del cattolicesimo, il quale avrebbe recepito, a modo proprio, alcune delle istanze fondamentali della Riforma.
Tale profondo cambiamento avrebbe dovuto modificare, secondo Vinay, anche l’autocomprensione del protestantesimo italiano: non più un modello di Chiesa contrapposto a quello cattolico, bensì un partner dialogico, in grado di introdurre fermenti evangelici nella Chiesa di Roma, alla quale competerebbe, per evidenti ragioni storiche e statistiche, il compito di testimoniare il messaggio cristiano in Italia.
Il dissenso nell’interpretazione del Concilio si inseriva in una più generale freddezza tra i due (Miegge morì nel 1961) principali teologi valdesi: pur muovendosi all’interno di un comune, fortissimo radicamento di un paradigma teologico barthiano nella realtà valdese, e pur condividendo un certo scetticismo nei confronti di molta teologia degli anni Sessanta, Subilia e Vinay non riuscirono a stabilire un vero e proprio dialogo. Non sarebbe esatto affermare che Subilia rifiutasse il confronto con il cattolicesimo: lo concepiva, però, in termini prevalentemente comparativi e piuttosto statici. Il dialogo interecclesiale della prima metà del Novecento, compresi gli inizi del CEC (Consiglio Ecumenico delle Chiese), riguardò quasi esclusivamente le diverse Chiese protestanti: quelle ortodosse entrarono nel CEC solo in seguito, mentre la Chiesa romana dapprima condannò l’ecumenismo in quanto tale (poiché afferma di ricercare un’unità che, secondo Roma, già esiste e andrebbe semplicemente riconosciuta, quella intorno al pontefice), mentre dopo il Vaticano II partecipò al confronto, ma senza entrare nel Consiglio. Subilia maturò il proprio pensiero ecumenico in tale contesto. Quando il clima mutò, e il dialogo si configurò come vero e proprio incontro tra prospettive diverse, ma disposte a forme di contaminazione, egli lesse tali elementi nuovi come smarrimento della chiarezza e della linearità dei profili teologici. Non è un caso che il principale interlocutore cattolico, nonché amico personale, di Subilia fosse Brunero Gherardini, un tomista di stretta osservanza, tiepido nei confronti del Concilio e decisamente avverso al rinnovamento cattolico. Subilia e Gherardini risultavano speculari nelle rispettive comprensioni della propria Chiesa e di quella dell’interlocutore, e si confermavano reciprocamente nella convinzione che il confronto consistesse, in ultima analisi, nel tematizzare un’irriducibile diversità.
L’attenzione di Subilia per il momento identitario si espresse anche nel dibattito interno al protestantesimo. Egli prese le distanze dal modello ecumenico elaborato da Cullmann, che riteneva possibile la piena comunione tra Chiese strutturalmente diverse (tale era, secondo il grande esegeta, la situazione del cristianesimo primitivo); e si distanziò dallo stesso Barth che, in occasione del suo viaggio a Roma nel 1967, non nascose il vivo interesse per quella che considerava la primavera conciliare del cattolicesimo. Nel 1973 venne sottoscritta la Concordia di Leuenberg tra le Chiese luterane, riformate (‘calviniste’, come spesso impropriamente si dice) e unite d’Europa, cioè una sorta di manifesto unitario del protestantesimo classico: anche in questo caso, Subilia espresse il timore che la nitidezza delle prospettive teologiche risultasse almeno in parte sacrificata al compromesso diplomatico. Il protestantesimo ‘ecumenico’, a parere del teologo, rischiava di porre al centro la riflessione sulla Chiesa, sulla sua struttura e sui suoi ministeri, anziché quella sull’annuncio del messaggio cristiano in un tempo secolarizzato. Tale ‘ecclesiocentrismo’ non corrisponderebbe allo spirito autentico della Riforma protestante, mantenendo invece una tendenza cattolicheggiante, più o meno evidente a seconda delle circostanze. Questa chiave di lettura influenzò la formazione dei pastori e la pratica ecumenica della Chiesa valdese ben più dell’irenismo di Vinay: essa fu egemone fino agli anni Ottanta, quando proprio un allievo di Subilia, Paolo Ricca, offrì al protestantesimo italiano una teologia più adatta all’incontro con il cattolicesimo.
A partire dagli anni Sessanta, il movimento ecumenico fu anche coinvolto nei processi di decolonizzazione, mentre cercava di costituire un canale di comunicazione nell’imperversare della guerra fredda; in Europa e nel Nordamerica, poi, giunse l’onda della contestazione. L’atteggiamento di Subilia nei confronti di queste sfide fu articolato: da un lato, egli riconobbe l’esigenza di inserire la testimonianza evangelica nel vivo dei dibattiti del tempo; dall’altro criticò ciò che chiamava «orizzontalismo», cioè la tendenza a porre in secondo piano il messaggio della morte e Resurrezione di Cristo, per concentrare passione ed energie sulla dimensione sociopolitica. Sia in teologia sia in politica, egli intendeva porsi al di là dell’alternativa ‘conservatori-progressisti’, per porre gli uni e gli altri di fronte all’istanza critica rivolta dalla predicazione evangelica. Ciò gli procurò, specie da sinistra, il rimprovero di evitare o relativizzare le alternative del momento storico, a partire da un punto di vista che si riteneva ‘più elevato’, ma che rischiava, semplicemente, di risultare astratto.
Gli anni della maturità furono assai fecondi dal punto di vista bibliografico. Tra le opere principali, Tempo di confessione, tempo di rivoluzione (1968) e L’Evangelo della contestazione (1971) si confrontarono con le agitazioni di quegli anni; I tempi di Dio (1971) costituì un’esposizione vivace della dottrina cristiana sulle Persone trinitarie, condotta in dialogo con il pensiero della modernità. Il confronto con il cattolicesimo fu ripreso ancora una volta in ‘Sola Scriptura’. Autorità della Bibbia e libero esame (1975) e in La giustificazione per fede (1976). Il primo esaminava le tensioni tra gli stessi scritti del Nuovo Testamento, individuando, al seguito dell’esegeta tedesco Ernst Käsemann e distanziandosi sia da Barth sia da Cullmann, l’esigenza di un criterio teologico a partire dal quale interpretare i singoli testi («canone nel canone»); il secondo contestava la tesi ecumenica di Hans Küng, a parere del quale le differenze dottrinali tra cattolicesimo e protestantesimo sul tema della salvezza dovrebbero considerarsi, almeno per l’essenziale, superate. ‘Solus Christus’. Il messaggio cristiano nella prospettiva protestante (1985) può essere considerato una sorta di sintesi del suo pensiero. Negli ultimi anni lavorò al libro Il Regno di Dio. Interpretazioni nel corso dei secoli, che uscì postumo, nel 1993, curato dall’affezionato custode del pensiero subiliano, il pastore valdese Gino Conte.
Morì a Roma il 12 aprile 1988.
Opere. Il movimento ecumenico, Roma 1948; Il problema del male, Torino 1954, 1987; Il problema del cattolicesimo, Torino 1962; La nuova cattolicità del cattolicesimo, Torino 1967; Tempo di confessione e di rivoluzione, Torino 1969; L’Evangelo della contestazione, Brescia 1971; I tempi di Dio, Torino 1971; ‘Sola scriptura’. Autorità della Bibbia e libero esame, Torino 1975; Presenza e assenza di Dio nella coscienza moderna, Torino 1975; La giustificazione per fede, Brescia 1976; Il protestantesimo moderno tra Schleiermacher e Barth, Torino 1981; ‘Solus Christus’. Il messaggio cristiano nella prospettiva protestante, Torino 1985; Il Regno di Dio. Interpretazioni nel corso dei secoli, a cura di G. Conte, Torino 1993 (postumo).
Fonti e Bibl.: Per la bibliografia degli scritti si veda M. Berutti, Bibliografia, in Il pluralismo nelle origini cristiane. Scritti in onore di V. S., a cura di G. Conte, Torino 1994, pp. 117-207. Inoltre: F. Spano, La teologia è la mentalità dell’uomo nuovo, in Gioventù Evangelica, 32, 1982, n. 73. pp. 21-24 (intervista a V. Subilia); V. Messori, Inchiesta sul cristainesimo, Torino 1987, pp. 273-280 (intervista a V. Subilia); A. Sampietro, Il problema del cattolicesimo nell’opera di V. S. (1911-1988), tesi di laurea, Università degli studi di Milano, a.a. 1990-91; Il pluralismo nelle origini cristiane. Scritti in onore di V. S., cit., con contributi, tra gli altri, di G. Conte e B. Gherardini sulla teologia di Subilia; F. Betteto, La teologia di V. S., tesi di licenza in teologia sistematica presso la facoltà teologica dell’Italia Settentrionale, Milano, a.a. 1991-92.