GORRESIO, Vittorio
Nacque a Modena il 18 luglio 1910 da Marco e Teresa Silvestro.
La famiglia vantava tradizioni militari sia da parte paterna sia da quella materna e, radicata tra Cuneo e Mondovì, apparteneva alla buona borghesia piemontese, benestante ma certamente non ricca. Nell'ambito delle memorie familiari, il G. amò ricordare le figure dell'erudito Gaspare Gorresio e del conte A. Gabet, generale napoleonico. Importante la presenza delle nonne nelle cui personalità sembrano, in certo modo, sintetizzarsi ed esprimersi le diverse sfumature ideologiche proprie ai due rami familiari: giolittiana, cattolica, contraria all'intervento in occasione della prima guerra mondiale, quella della madre; conservatrice e interventista quella del padre.
Il G., terzo di quattro fratelli (una femmina, Giulia, e due maschi, Umberto e Carlo), trascorse un'infanzia felice a Cuneo, quindi, al seguito del padre, ufficiale di carriera, si trasferì nel 1920 a Roma, dove frequentò il ginnasio Mamiani. Dopo un anno trascorso a Zara (1925) il G. rientrò nella capitale ottenendo la licenza liceale nel 1928. Non volendo seguire la carriera militare, come avevano invece fatto i suoi fratelli, si iscrisse a giurisprudenza; contemporaneamente, per mantenersi all'università, date le ridotte possibilità economiche dei suoi, si impiegò presso la III ripartizione del Governatorato di Roma.
Poco interessato agli studi giuridici, cominciò a occuparsi di giornalismo, come ripiego rispetto alla carriera diplomatica che avrebbe desiderato seguire ma che le scarse risorse economiche rendevano di fatto impossibile, e come mezzo alternativo per girare il mondo.
Cominciò, quindi, con l'inviare articoli alle testate più diverse, riuscendo a ottenere alcune collaborazioni; come lo stesso G. ebbe a raccontare, in questa fase della sua vita studiava e scriveva di tutto e su tutto - in particolare di storia per cui aveva uno spiccato interesse - in modo disordinato e abbastanza dispersivo, ma certamente non superficiale.
Nel 1932 fece il servizio militare come allievo ufficiale di complemento nella scuola di artiglieria di Bra e, nello stesso anno, si laureò; conclusa la ferma trovò una collaborazione stabile a L'Azione coloniale, diretto da M. Pomilio, continuando a scrivere anche su altri fogli, e prese a frequentare gli ambienti del giornalismo romano facendo conoscenze e amicizie; in questo periodo fu anche direttore dei settimanali L'Eco del mondo e Storia.
Su quest'ultimo comparvero i risultati iniziali di una ricerca su Gioacchino Murat che, con varie interruzioni e senza che mai fosse conclusa, il G. si portò dietro praticamente per tutta la vita; pubblicò anche i suoi primi volumi, di cui parlò in seguito come di peccati veniali di gioventù: Questa Francia (Milano 1934), raccolta di impressioni messe insieme durante un viaggio di una ventina di giorni, e I giovani d'Europa (ibid. 1936), una sorta di inchiesta sulla gioventù europea frutto di letture veloci ed espressione di giudizi superficiali.
Nel 1936, con l'appoggio di M. Missiroli - che sembra avesse bisogno di una raccomandazione presso il ministero della Guerra dove lavorava il padre del G., oramai generale - fu assunto come redattore a Il Messaggero; qui si trovò inserito per la prima volta nella redazione di un quotidiano di larga diffusione e fu per lui un'esperienza significativa e formativa su vari livelli.
Il direttore era Francesco Malgeri, fascista osservante ma personalmente uomo gradevole e buon giornalista; inoltre si legò d'amicizia con S. De Feo, anche lui collaboratore del giornale, e vi conobbe, o approfondì la conoscenza, di nomi noti dell'ambiente quali G. Ansaldo e L. Longanesi, che passavano spesso in redazione.
Nel novembre di quello stesso 1936, il G. partì come redattore viaggiante per l'Africa Orientale appena, e neppure completamente, conquistata dagli Italiani, dove rimase fino al febbraio 1937.
Inguaribilmente lucido, pur se non prevenuto nei giudizi, inviò una serie di articoli il cui succo consisteva fondamentalmente nella prima impressione ricevuta allo sbarco, e cioè che lungi dall'essere conquistatori di un impero gli Italiani sembravano rivestirvi piuttosto l'abituale ruolo di emigranti.
Evidentemente i pezzi non riuscirono particolarmente graditi alla censura fascista dal che prese corpo, fra il G. e il regime, un rapporto configurabile non tanto come uno scontro frontale, ma piuttosto come una profonda e costitutiva incompatibilità che si riproponeva con evidenza ogni volta che il G. era chiamato a incarichi di un qualche peso politico. Così avvenne nel settembre 1939, quando fu inviato a Parigi, nella Francia appena entrata in guerra; o nel giugno 1940, dopo l'ingresso dell'Italia nel conflitto, a Taranto e imbarcato sulla "Duilio"; o, infine, più gravemente, nell'estate 1941, quando fu improvvisamente richiamato da Berlino, dove era al seguito di D. Alfieri. Questa volta il G. - si seppe poi per la delazione di un collega - era accusato di essere al soldo dei Francesi con lo scopo di screditare presso P.J. Goebbels, il governo italiano. L'inchiesta di polizia che ne seguì scagionò completamente il G. dall'accusa e questi, che era stato nel frattempo allontanato dal Messaggero, fu assunto a Il Popolo di Roma, giornale legato a G. Ciano, dove si raccoglievano molti nomi in odore di antifascismo come C. Alvaro ed E. Patti. Il G. vi restò pochi mesi, quindi si fece richiamare; promosso capitano, per tutto il 1942 fu presso la scuola d'artiglieria di Treviso per essere addestrato al comando di una batteria contraerea, quindi destinato a Genova dove, nella città pesantemente colpita dai bombardamenti alleati, ebbe il battesimo del fuoco. Dopo il 25 luglio 1943, fu improvvisamente richiamato nella capitale, dove Alvaro, che era diventato direttore del Popolo di Roma, lo voleva come redattore capo. Con l'8 settembre il G. lasciò il giornale ed entrò in una sorta di clandestinità: nascosto nella casa del cugino, lo storico P. Brezzi, cercava di guadagnare qualche soldo con lavori di ricerca erudita (curò per esempio gli Opuscoli politici di M. Taparelli d'Azeglio, Torino 1943) che lo portarono a frequentare la Biblioteca nazionale, dove incontrò altri intellettuali in semiclandestinità. Introdottovi da F. Chilanti, si iscrisse a un gruppo, l'Armata garibaldina, da lui stesso definito "fantomatico", per il quale curava e distribuiva un giornaletto, Azione.
Tutto il periodo relativo alla seconda metà degli anni Trenta è descritto dal G. in uno dei capitoli più belli e significativi del suo libro di memorie, La vita ingenua (Milano 1980), con cui vinse il premio Strega nell'anno in cui fu pubblicato. In esso il G. - per il tramite di uno stile che si ripropone in tutta la sua opera, conciso e senza retorica, strutturato sulla precisione e la ricchezza di dati significativi cui corrisponde un altrettanto preciso ed elegante uso di termini perspicui - attraverso la narrazione veloce e sintetica, spesso arricchita da un'ironia raffinata e sottile, di pochi episodi e situazioni riesce a schizzare un quadro esaustivo della situazione in cui si trovarono negli anni del fascismo tanti giovani, incerti e abbandonati a se stessi: "e la nostra vita continuò a scorrere sempre più ambigua, sopportandoci e un poco disprezzandoci a vicenda per la mancanza di coraggio che in qualche modo ci accomunava e ci rendeva complici gli uni degli altri" (p. 152). Bastino ancora la visita fatta dal G. e da De Feo a B. Croce nel 1938, quando avrebbe voluto chiedere al grande filosofo "Da dove venivano i Fascisti? Erano tanti re pastori come gli Hyksos piovuti sull'Egitto?" e gli pare, in conclusione, che l'atteggiamento di Croce ricordi quello del Don Ferrante manzoniano che muore di peste dopo aver dimostrato l'inesistenza della malattia (ibid.). Ovvero i corrosivi ritratti dei grandi giornalisti maestri del mestiere ma anche di un cinismo intelligente e distruttivo: Ansaldo, Missiroli, Longanesi ("ci allevava al disprezzo del nostro tempo e il suo scherno implacabile poteva sì farci ridere ed illuderci in una possibilità di evasione, ma erano risate che non davano sollievo di coscienza lasciandoci piuttosto l'amaro in bocca", p. 157).
Alla fine della guerra - nella quale perse ambedue i fratelli, dispersi in Russia -, dopo un brevissimo periodo al Popolo di Roma, che venne però chiuso quasi subito perché compromesso con il fascismo, il G. iniziò un cursus honorum che lo qualifica con ogni evidenza, anche sul piano dell'appartenenza politica, quale giornalista "liberal più che liberale", come qualcuno lo definì.
Mai comunista e mai democristiano ma, volta a volta, senza prendere alcuna tessera, vicino alla sinistra liberale, alla socialdemocrazia, ai radicali, piuttosto inserito in quella "terza forza" che si andò definendo nell'immediato dopoguerra e che ebbe, negli anni Cinquanta e Sessanta, un ruolo "etico" di un certo peso nell'orientare un'opinione pubblica di élite. Nell'ambito giornalistico vi ebbero parte tra gli altri, M. Pannunzio, A. Benedetti, E. Flaiano, E. Scalfari, amici e colleghi del G. che, in vario modo, si raccolsero intorno a Risorgimento liberale, L'Europeo, Il Mondo, La Stampa, tutte testate cui anche il G. collaborò stabilmente.
Nel 1945, prima come capocronista poi come redattore parlamentare, entrò al Risorgimento liberale fondato in quell'anno da Pannunzio, e vi rimase fino al 1947, quando il direttore lasciò il giornale; sempre dal 1945 e fino al 1954, fu collaboratore dell'Europeo di Benedetti; e, dal 1949, firmò, soprattutto articoli di argomento storico, su Il Mondo di Pannunzio; dagli anni Cinquanta fu notista parlamentare, poi capo della redazione romana, della Stampa, dove rimase fino al 1976, quando, colpito da un tumore alla mascella (su questa terribile esperienza pubblicò una serie di articoli raccolti in un volume che ebbe il premio Bagutta: Costellazione cancro, Milano 1976), andò in pensione, pur continuando a lavorarvi fin quasi alla morte. Nel 1958 aveva sposato Sandra Bolis.
All'onestà e alla serietà con cui svolse il suo mestiere e alla funzione etica che vi attribuiva vanno riferite alcune sue prese di posizione nei confronti della professione: fra l'altro, nel 1946, al Congresso della Federazione nazionale della stampa italiana, presentò la relazione di minoranza contraria all'istituzione dell'Albo o Ordine professionale dei giornalisti, considerandolo strumento corporativo e di controllo politico sulla categoria; riprese il tema e fu relatore al VII convegno organizzato nel 1958 dagli Amici del Mondo sul diritto di stampa e le sue libertà (Stampa e democrazia, poi negli atti Stampa in allarme, Bari 1958, pp. 3-17); e prese posizione sul suo giornale a seguito del caso Montesi, per deplorare gli eccessi giornalistici mirati al raggiungimento di uno scoop, in quanto potevano divenire pretesto per indebiti interventi sulla libertà di stampa (in La Stampa, 30 nov. 1954).
Principalmente dalle collaborazioni ai giornali ricordati e nell'ambito della linea politica cui si è fatto cenno, si possono individuare due grandi direttive lungo le quali si svolse il lavoro del G. e cui sono pure legate le sue pubblicazioni in volume (più di trenta, spesso raccolte di articoli già apparsi sui vari giornali): l'attività di cronista e notista parlamentare - non volle mai essere, né si ritenne, politologo, o tanto meno si impegnò nella politica attiva -, e quella legata alla ricerca storica - mediamente più approfondita, più mirata e ricca di erudizione, e meno approssimativa e generica di quella svolta da altri suoi colleghi, senza, nello stesso tempo, che il G. soggiacesse mai alle frustrazioni di chi praticava il doppio mestiere di storico accademico e di giornalista - ambedue realizzate, appunto, da giornalista "puro".
Diversi nella forma e in parte nella destinazione questi due indirizzi sono però accomunati da un'impostazione di fondo che presiede ai differenti interessi del G., il quale, da vero liberale, concentra la propria attenzione principalmente, anche se non esclusivamente, sulle due forze che più erano rimaste estranee al Risorgimento e alla nuova nazione che da questo era nata, e cioè la sinistra estrema, in epoca contemporanea quindi socialismo e soprattutto comunismo e Partito comunista italiano (PCI), e il mondo cattolico sia in quanto Chiesa, o anche storia della Chiesa, sia in quanto partito politico e quindi Democrazia cristiana (DC). In questa chiave e su questi obiettivi, egli orientò la sua attività di giornalista parlamentare, di fatto creando in Italia, quasi dal nulla, un nuovo genere, quello del ritratto politico che fece conoscere gli homines novi agli Italiani, abituandoli, o cercando di abituarli, a un contatto diretto e a un esame critico, precedentemente negati dalla dittatura.
Gli articoli prima, poi i volumi si susseguirono con regolarità presentando all'opinione pubblica i momenti e i personaggi nodali della vita politica della Repubblica, con occhio lucido e prospettiva originale, da Un anno di libertà (Roma 1945), agli eventi e agli uomini della Costituente (cui si riferisce I moribondi di Montecitorio, Milano 1947, e dove spiccano le figure di P. Nenni, A. De Gasperi e altri), a uno dei suoi libri più noti I carissimi nemici (ibid. 1949; nuova ed., ibid. 1977), dove è descritto il complesso rapporto fra De Gasperi e P. Togliatti, nel momento in cui si stava concludendo l'esperimento di compresenza nel governo di comunisti e cattolici. La figura che campeggia in primo piano è qui, comunque, quella di Togliatti (presentato, in contrapposizione all'immagine dello scamiciato capopolo "rosso", come un signore piccolo borghese, ferreo comunista ma anche amante dell'eleganza e dell'erudizione letteraria), a sostegno dell'opinione del G. che per combattere i propri nemici bisogna conoscerli, ma anche come significativa descrizione e interpretazione del punto d'inizio di un percorso - che divenne pure linea politica della Stampa di De Benedetti (e della FIAT di V. Valletta), soprattutto attraverso la redazione romana, guidata dal G. - il quale doveva portare lentamente dalla più chiusa egemonia democristiana degli anni Cinquanta al primo centrosinistra di A. Fanfani (L'Italia a sinistra, ibid. 1963), attraverso i terremoti interni alla DC (Il sesto presidente, ibid. 1972), fino alla chiusura del cerchio con la "via italiana al comunismo", intuita e raccontata dal G. in tempi non sospetti (Berlinguer, ibid. 1976), e che si sarebbe poi concretata nel 1978 con il sostegno al governo Andreotti da parte del PCI di E. Berlinguer.
L'altro filone dell'attività giornalistica e pubblicistica del G. è quella di risorgimentista che egli svolse soprattutto sul Mondo. Anche in questo caso lo sguardo dell'erudito non si discosta mai troppo dal modus operandi del giornalista e nell'attenta e garbata, ma mai superficiale, ricostruzione del Risorgimento scomunicato (Firenze 1958), è evidente "lo scopo di mettere in guardia contro gli eccessi e i fanatismi ai quali può accadere che si inducano i cosiddetti cattolici militanti": in questa chiave - e anche in un evidente confronto tra i "legislatori coraggiosi" del nostro Risorgimento e gli attuali, ben più attenti agli interessi della Chiesa - si può leggere gran parte di questa specifica produzione (fra gli altri: I bracci secolari, Bologna 1951; Roma ieri e oggi, Milano 1970; Il papa e il diavolo, ibid. 1973) intesa a raccontare i rapporti fra "uno Stato scomunicato e maledetto [e] una Chiesa che per la durata di almeno mezzo secolo si rifiutò sempre di comprendere le esigenze vitali di una civile nazione moderna" (in Risorgimento…, p. 9).
Il G. morì a Roma il 17 dic. 1982.
Fonti e Bibl.: Le carte del G. sono conservate a Roma presso l'Archivio centrale dello Stato (varie cassette); necr. in Corriere della sera e La Stampa, 18 dic. 1982; P. Murialdi, La stampa italiana nel dopoguerra, 1943-1972, Roma-Bari 1973; Storia della stampa italiana, a cura di V. Castronovo - N. Tranfaglia, La stampa italiana del neocapitalismo, Roma-Bari 1976; La stampa italiana nell'età fascista, ibid. 1980; La stampa italiana dalla Resistenza agli anni Cinquanta, ibid. 1980, ad indices; S. Pizzetti, I rotocalchi e la storia, Roma 1982, ad indicem; G. Spadolini, La stagione del "Mondo", Milano 1983, pp. 235-241; I. Calvino, Un gerundio e tre saette, in La Repubblica, 13 febbr. 1983.