FOSSOMBRONI, Vittorio
Nacque ad Arezzo il 15 sett. 1754 da Giacinto e da Lucilla dei baroni Albergotti Siri, terzo di sette fratelli.
Poco conosciamo degli anni della fanciullezza e della giovinezza del F. e dell'educazione ricevuta ad Arezzo sotto l'attento controllo del padre, colto antiquario, studioso di matematica, di fisica, di astronomia. Sappiamo soltanto di una sua precoce attitudine per le matematiche e di una giovanile infatuazione per le scienze e l'architettura militari, che lo portò a prendere in considerazione anche la possibilità di abbracciare la carriera delle armi. Una passione che non lo abbandonò mai del tutto, come dimostrano le ininterrotte letture sull'argomento e gli studi di tattica e di organizzazione militare, alcuni pubblicati, altri lasciati inediti e incompiuti.
Il F., seguendo il consiglio paterno, frequentò il corso giuridico dell'ateneo pisano, ove si addottorò in utroque iure nel 1778. Negli anni trascorsi a Pisa l'interesse del F., tuttavia, più che al diritto si rivolse alla letteratura, all'economia politica e, soprattutto, alla matematica e alla fisica, con maestri come il fisico L. Pignotti e l'astronomo T. Perelli.
Nello stesso 1778, infatti, il F. pubblicò sul Giornale di Pisa una Memoria sulle equazioni irriducibili di terzo grado, alla quale seguirono il Saggio di ricerche sull'intensità del lume (1781), il Saggio di alcune memorie sui terreni inclinati (1788), il Saggio di un dilettante di matematica sull'equazioni di condizione e sopra l'invenzione della Brachistocrona, infine la Memoria sopra il principio delle velocità virtuali (1796).
Allo stato delle conoscenze appare difficile formulare un giudizio sul valore di questa produzione. Soltanto studi specifici e approfonditi consentiranno di comprendere, ad esempio, la vera portata degli elogi che il F. ricevette da P.S. Laplace e da L. Lagrange, là dove non furono semplici attestazioni di cortesia, magari suggerite dalla fama del F. come ingegnere idraulico e, ancor più, come uomo politico. Allo stesso modo, essi potranno dimostrare in quale misura le critiche mosse da P. Ferroni al F., accusato esplicitamente di dilettantismo e di incompetenza, fossero da ricondursi semplicemente a una polemica personale, nell'ambito della quale, d'altronde, il F. ebbe l'appoggio incondizionato di P. Paoli, il più brillante dei matematici toscani della seconda metà del Settecento.
Il discorso è in realtà più ampio e investe tutti i settori del pensiero e dell'opera del F., a cominciare dai saggi di economia, nei confronti dei quali il Morena (1896) riconobbe tutto il distacco che separava dagli "spettacolosi e scientifici" sistemi della moderna economia politica "le modeste dottrine del F. esposte a modo toscano, cioè alla buona, alla semplice, e così dire alla casalinga". Una sorta di fragilità dottrinale e teorica, che il Morena riconduceva, non tanto a una "incapacità speculativa" o a una insufficiente conoscenza della materia da parte del F. (che aveva pur letto le opere dei maggiori economisti del tempo), quanto piuttosto all'adesione esplicita a una concezione "pratica", operativa della scienza economica. In effetti gli scritti economici del F. ebbero scopi concreti, immediati e mai dottrinali e astratti. Con ciò il F. si inseriva a pieno titolo in quella che è stata chiamata la "scuola toscana" di economia: S. Bandini, P. Neri, F.M. Gianni, G. Fabbroni, e i "campagnoli" filantropi dei primi decenni dell'Ottocento, con alla testa il marchese G. Capponi, con la sua critica alle "teorie speculative" e alla "scuola di economisti trascendentali".
Altri accusarono il F. di "leggerezza" e di superficialità. Dotato di "naturale acume e varia dottrina", come riconoscevano anche i suoi avversari (l'espressione è di G. Montanelli), il F. era considerato da tutti "uno spirito di prim'ordine, per la forza e l'ampiezza delle sue facoltà naturali". Tuttavia, come avrebbe osservato il Capponi, "alla rapidità, alla giustezza, alla ammirabile chiarezza delle sue percezioni, non corrispondeva sufficientemente la profondità del pensiero e del sapere". Una sorta di "pigrizia naturale", che Pietro Leopoldo molti anni prima aveva colto come un tratto caratteristico della personalità del F.: "giovine di talento e capacità e applicazione e che promette bene, ma l'esser ricco, il credersi bello e letterato, hanno fatto sì che non ha seguitato bastantemente ad applicarsi e fa l'impiego da signore, senza darsi la pena necessaria" (Relazioni sul governo della Toscana, I, Firenze 1969, p. 93).
Quando, infatti, nel 1782 il F. ottenne dal granduca il primo incarico pubblico, quello di visitatore generale dei beni dell'Ordine di S. Stefano in Valdichiana, egli non se ne dette gran pena, preferendo frequentare la "libreria" di casa Nelli, ove convenivano numerosi intellettuali e uomini di scienza legati al riformismo leopoldino: L. Ximenes, G.M. Veraci, G. Salvetti, P. Ferroni, F. Paoletti, F. Fontana, F. Manfredini, G. Fabbroni. Temi delle discussioni erano fra gli altri l'economia politica, la matematica, la fisica, l'idraulica.
Proprio nei confronti di quest'ultima disciplina, d'altronde, il F. manifestò un interesse crescente, alimentato dalle "conversazioni" con i maggiori scienziati e ingegneri del tempo (lo Ximenes, il Veraci, il Salvetti, il Ferroni erano direttamente implicati nell'opera di bonifica dei terreni di piano promossa da Pietro Leopoldo) e dalla disponibilità di documenti di straordinario rilievo, tra i quali, per limitarci all'esempio principale, i manoscritti di E. Torricelli relativi alla questione della Chiana.
Nel corso di alcuni anni il F. svolse un'intensa attività di ricerca e di studio nel campo della nuova "scienza delle acque", come egli amava chiamarla, traendo vantaggio anche dall'incarico ricoperto in Val di Chiana che gli consentiva di disporre dei dati concreti necessari per sottoporre a una verifica sistematica i risultati via via ottenuti sul piano speculativo. Nel 1786 pubblicò a Verona la Memoria sopra la distribuzione delle alluvioni e nel 1789 a Firenze le Memorie idraulico-storiche sopra la Valdichiana, la sua opera di maggior rilievo.
La prima parte delle Memorie era costituita da una solida ricostruzione storica, necessaria per chiarire l'assunto di base da cui partiva tutto il ragionamento. Il F. dimostrava, infatti, come ancora in epoca romana l'intera valle seguisse una pendenza orientata da Nord verso Sud e la Chiana fosse un affluente del Tevere. Solo successivamente, in seguito a fenomeni tettonici e di interramento, l'asse della valle aveva cambiato inclinazione, e le acque della Chiana si erano rivolte verso l'Arno: "talché la Toscana somministra un raro fenomeno geografico, cioè un'intera provincia obbligata a condurre le acque di tutti i suoi fiumi e scoli per una direzione opposta a quella che avevano prima" (Introduzione alla prima edizione). Non restava pertanto che assecondare la natura, cercando di ridurre i tempi del generale processo di "inversione della giacitura di una intiera Provincia" e di tutti i suoi corsi d'acqua. A tale scopo non sarebbe stato di alcuna utilità il metodo di bonifica per essiccazione, così come lo aveva proposto l'abate Ximenes, sulla base di un vecchio progetto di E. Gaci, in parte ripreso successivamente anche dal Ferroni proprio in polemica con il Fossombroni. Questi raccomandava invece il metodo di bonifica per alluvione o per colmata, già suggerito dal Torricelli, dal Viviani, da O. Corsini, dallo stesso Perelli (l'antico maestro del F. all'università di Pisa) e adottato nel corso del Seicento dai granduchi medicei. Tanto più che tale metodo aveva dato buona prova, se è vero che negli anni Ottanta del Settecento due terzi del territorio della valle risultavano ormai prosciugati. Si era trattato tuttavia in ogni caso di interventi estemporanei e occasionali che avevano consentito il recupero di ampie aree palustri, ma non avevano risolto il problema generale dell'assetto idrico della valle, di cui lo stesso carattere disorganico del processo di bonifica aveva perpetuato la precarietà.
Per innalzare uniformemente il livello di tutta la parte centromeridionale della Val di Chiana occorreva viceversa un sistema integrato di colmate "da eseguirsi… con uno o più fiumi, i quali diretti in diversi tempi sopra diverse porzioni della campagna la vadano riducendo a quella disposizione che può essere a essa necessaria per restare in balia della natura e senza ulteriori soccorsi dell'arte" (pp. 201 s. della 3 ed. del 1835). Era cioè indispensabile, a giudizio del F., un "generale regolamento idraulico", un "sistema di gran colmata" che in sessant'anni avrebbe potuto dare risultati già definitivi.
Le Memorie del F. furono lette nel 1787 manoscritte da Pietro Leopoldo, in un momento in cui questi tentava un rilancio della bonifica chianina e sentiva molto forte l'esigenza di una maggiore coordinazione degli interventi; affidò pertanto, nel 1788, la direzione di tutte le colmate al F., che nel 1794 fu nominato da Ferdinando III sopraintendente generale al dipartimento delle acque della Val di Chiana; un ufficio che il F. avrebbe mantenuto fino al 1827, anche se coadiuvato dopo il 1816 dagli ingegneri F. Capei e A. Manetti. La lunga opera di sovrintendenza, gli studi sull'argomento, i risultati conseguiti, legarono indissolubilmente il processo di bonifica e di rigenerazione della Val di Chiana al nome del Fossombroni.
Studi più recenti, tuttavia, hanno consigliato al proposito una maggiore cautela. Lo stesso F. nel 1835 riconobbe che l'assetto idrico generale della valle rimaneva ancora in gran parte precario e che non era stato raggiunto lo scopo generale dell'innalzamento uniforme del suolo. D'altro canto il Manetti, successore del F., avanzò riserve sui risultati raggiunti e dubbi sulla possibilità di realizzare compiutamente il progetto; ritenne anzi indispensabile integrare (e i fatti in seguito gli dettero ragione) la "gran colmata" con interventi di bonifica per essiccamento.
Ciò non influì, tuttavia, sul prestigio del F., conosciuto in tutta Europa come uno dei massimi esperti nel settore della scienza idraulica. Nel 1810, ad esempio, fu chiamato a presiedere la commissione per il bonificamento dell'Agro romano e delle paludi pontine; nel 1830 l'imperatore d'Austria gli commissionò uno studio sulla regolamentazione delle acque della laguna veneta e dei fiumi Brenta, Bacchiglione e Sile; alcuni anni più tardi, infine, il viceré di Egitto gli richiese un parere per la costruzione di un bacino nel porto di Alessandria. D'altronde il F. non interruppe mai i suoi studi di idraulica, fossero essi di carattere teorico (Della resistenza e dell'urto dei fluidi sopra alcune esperienze istituite nel 1795, 1802), oppure storico (Illustrazione d'un antico documento relativo all'originario rapporto fra le acque dell'Arno e quelle della Chiana, Bologna 1826, un tema ripreso anche in una memoria del 1839), o infine pratico, funzionale a concreti progetti di bonifica (Relazione sopra il lago di Fucecchio, del 1795, pubblicata in Nuova raccolta di autori che trattano del moto delle acque, III, Bologna 1822, pp. 296 ss.; Saggio sulla bonificazione delle paludi pontine, Verona 1815). Nel 1827 il F. presentò al granduca il Discorso sopra la Maremma, nel quale, riprendendo in larga parte gli studi dello Ximenes e del Fantoni sull'argomento, suggeriva le linee essenziali di un progetto di "gran colmata". Un vero e proprio testamento del F. in materia di idraulica che solo in parte, tuttavia, ispirò la grande campagna di bonifica maremmana promossa da Leopoldo II, nella quale il F. non fu coinvolto direttamente.
Alla fine degli anni Ottanta del Settecento, il F. si presentava come una delle figure di spicco dell'entourage di Pietro Leopoldo e successivamente di Ferdinando III. Già revisore delle stampe dal 1791, svolse negli anni 1792-95 un ruolo importante nella battaglia in favore della libertà di commercio che venne abolita col motu proprio granducale del 9 ott. 1792, su proposta dei consiglieri Manfredini e Lampredi.
L'Accademia dei Georgofili e i libero-scambisti toscani risposero all'"assalto contro le riforme civili di Leopoldo" con una serie di appassionati interventi del Gianni, del Fabbroni, di M. Biffi Tolomei. In questo duro contrasto il F. svolse un intenso ruolo all'interno del governo, particolarmente nell'estate del '92, nel tentativo di scongiurare la svolta antiliberista. Rimase famosa la "disputa lunga e tempestosa" (della quale ci resta solo una traccia, Scritti, I, pp. 24-30), sostenuta dal F. la sera del 30 ag. 1792, alla presenza del sovrano e dei ministri. A essa seguirono un Parere, alcune Osservazioni sommarie e la Risposta ai dubbi di S.A.R. (ibid., pp. 35-75). Nonostante l'impegno profuso, la legge "liberticida" passò, ma ciò non impedì al F. di continuare a svolgere il suo ruolo di paladino del libero scambio nell'entourage del granduca. Nel marzo 1793 fece parte di una deputazione che doveva valutare la proposta di ricostituzione del tribunale dell'arte avanzata dai fabbricanti di seta, e redasse personalmente la dettagliata Rappresentanza finale (ibid., pp. 77-116) nella quale si faceva il punto del dibattito e veniva presentato una sorta di manifesto della "illimitata" libertà di commercio. Con ciò il F., in perfetta sintonia con il Fabbroni, prendeva le distanze dalla "legittima" libertà teorizzata da A. Paolini, dal Gianni, dal Biffi Tolomei, per la quale restavano validi i vincoli all'esportazione della materie gregge necessarie alle manifatture.
La difesa della libertà di commercio costituì il punto fermo intorno al quale ruotarono anche in seguito tutti gli interventi di economia politica del Fossombroni. Nel 1802 ad esempio questi scrisse e fece pervenire al sovrano il Quadro dell'economia toscana (ibid., II, pp. 7 ss.), che convinse Lodovico di Borbone della necessità di ristabilire la libertà di circolazione e vendita delle derrate all'interno del Regno d'Etruria, abolita nel 1799 dal Senato fiorentino. Nel 1804 il F., che faceva parte della deputazione di Finanza nominata dalla reggente Maria Luisa di Borbone-Spagna, scrisse quello che può essere considerato il suo saggio più importante in materia di economia: le Idee sui vincoli commerciali. Lettera di un professore dell'Università di Pavia al compilatore dei provvedimenti annonarj, pubblicate anonime a Firenze in un'opera (contenente anche i Provvedimenti annonarj del Fabbroni e la ristampa della Memoria sopra la materia frumentaria di P. Neri) che è rimasta in seguito un classico dell'economia politica toscana. Contemporaneamente, il 30 apr. 1804, la reggente ristabilì la libera esportazione delle derrate alimentari e dei prodotti dell'agricoltura con una legge resa ancora più ampia nel giugno del 1805, in seguito a un Rapporto della deputazione, compilato dallo stesso F. (Scritti, II, pp. 64-102).
Gli interventi del F. risultavano sempre funzionali alla vicenda concreta della legislazione economica toscana, di cui egli cercò di conservare la struttura creata a suo tempo da Pietro Leopoldo; di perfezionarla, semmai, sulla base di un nucleo concettuale di provenienza fisiocratica. A cominciare dalla convinzione del ruolo primario svolto dall'agricoltura nei confronti della "industria modificatrice" con i suoi "manifattori secondari", che uniti e "rumorosi" troppo spesso avevano fatto valere i loro interessi a svantaggio dei lavoratori della terra, i veri produttori, "i primi e più utili manifattori della nazione" (ibid., II, pp. 21-24; I, pp. 85-89). Così come gli stessi proprietari fondiari, l'altra componente primaria della società, dovevano essere messi nelle condizioni di svolgere il loro compito (investimenti e consumi) nel migliore dei modi.
Il diritto di proprietà, ecco il punto da cui muoveva e si sviluppava con efficace consequenzialità tutto il ragionamento del F.: "la base costituzionale della società umana è la proprietà; e gli uomini non videro migliore àncora per salvarsi in quel primo caos procelloso degli istinti individuali". La giustizia dunque coincide col rispetto del diritto di proprietà, e pertanto "reclama il libero esercizio dell'industria particolare, come l'esercizio delle altre umane facoltà". Porre vincoli di luogo o di tempo al legittimo possessore, "vuol dire alterare il diritto di proprietà e per conseguenza ledere manifestamente la giustizia" (ibid., II, pp. 17 ss.), che infine si configura come "la più perfetta libertà", come "l'armonia della libera concorrenza" (ibid., I, pp. 22, 24).
L'adesione ai principî della fisiocrazia, dunque, appare esplicita. A essi, in una prospettiva che si fa sempre più ristretta, rurale e granducale, ancora nel secolo XIX, il F. si limitava a giustapporre senza alcuna distinzione critica il naturalismo economico e il libero-scambismo della "nuova" scuola economica di A. Smith e dei suoi continuatori. Né, d'altronde, il F. sembra in alcun caso ripercorrere la parabola "romantica" e filantropica dei più giovani "campagnoli" toscani, da R. Lambruschini, a L. de Ricci, a G. Capponi, sempre più vicini alle posizioni di J.-C. Sismondi. Il F., al contrario, non cambiò mai il giudizio negativo formulato nei confronti dell'economista ginevrino di cui non condivise la critica alla società capitalistica. Ai dubbi sismondiani sul problema della redistribuzione della ricchezza e delle crisi di sovrapproduzione il F. continuò a contrapporre il suo ottimismo naturalistico di stampo settecentesco, la sua fede nel "progresso indefinito della società".
Sul finire del 1814, quando il F. fu chiamato da Ferdinando III alla guida della politica granducale, allo "statista toccò la bella ventura di scrivere nelle leggi la perfetta libertà commerciale…, da economista… ferventemente promossa o valentemente difesa" (Morena, p. LXXXV). Lo scopo fu raggiunto con una serie dei provvedimenti che in breve tempo consentirono, non solo l'immediato ripristino della libertà frumentaria, ma anche la libera esportazione del pellame, della paglia per cappelli, dell'alabastro (giugno-settembre 1816), della lana greggia (maggio 1817), della seta greggia e dei bozzoli (luglio 1819). Un insieme di leggi, in seguito alle quali il Granducato di Toscana e il F. si configurarono definitivamente come un punto di riferimento obbligato per i fautori del liberismo europeo; ciò che è confermato, fra l'altro, dall'interesse manifestato in alcune occasioni dal governo inglese e dal riconoscimento esplicito di J. Montgomery Stuart, di J. Bowring, di F. Bastiat, di R. Cobden.
Negli anni 1796-98 l'impegno politico del F. si concentrò sul problema della neutralità della Toscana, nel tentativo di scongiurare l'invasione da parte delle truppe francesi. Fu deputato da Ferdinando III a trattare personalmente prima con A.F. Miot de Milito, poi con Ch.-F. Reinhard, ministri plenipotenziari francesi a Firenze; scrisse a nome del granduca una Protesta e una Rappresentanza al generale Napoleone Bonaparte. Questi volle incontrarlo personalmente (30 giugno 1796) e subito dopo (4 luglio 1796) impose al granduca la nomina del F. a ministro degli Esteri. Il nome del F. d'altronde era già noto al Direttorio, incluso nell'elenco degli "uomini grandi" segnalati dai commissari dell'Armata d'Italia.
Nel gennaio 1797 il F. inviò al Bonaparte l'Oracle sur la Toscane, un breve ma incisivo scritto volto a impedire l'occupazione militare del Granducato di Toscana.
Il F. sosteneva che in mezzo ai "rapidissimi gangiamenti" della "sociale costituzione in tante parti" d'Europa, suscitati dalla Grande Nation, "la piccola Toscana" rivendicava il diritto di rimanere "imperturbabile spettatrice della generale effervescenza". Essa aveva infatti già compiuto la sua pacifica rivoluzione, mediante il processo di riforma leopoldino in seguito al quale "la situazione morale come quella fisica non ispira desiderio di mutare stato" (p. 10 dell'ed. fiorentina del 1851). Nessun profondo "rivolgimento" infatti poteva auspicarsi là dove, come in Toscana, "il legislativo civile lascia il libero esercizio di tutti i diritti attendibili", a cominciare dalla proprietà privata e dalla libera vendita e contrattazione; là dove la giustizia opera con efficacia e mitezza, la censura consente la libertà di opinione, l'amministrazione dello Stato non è corrotta e la legge comunale garantisce il decentramento; là dove, infine, da tempo sono stati aboliti tutti i privilegi di stampo feudale a favore del ceto nobile e degli ecclesiastici.
Si trattò di un intervento efficace nel quale la Toscana del riformismo leopoldino veniva orgogliosamente presentata come una società modello. L'Oracle costituì subito una sorta di manifesto della neutralità e dell'autonomia della Toscana, riutilizzato in seguito (nel 1821, nel 1831, nel 1851), ogni volta che gli eserciti stranieri, non più francesi ormai, ma austriaci, si avvicinarono ai confini del Granducato di Toscana. La difesa orgogliosa e ferma dell'indipendenza della "piccola" Toscana nei confronti delle grandi nazioni fu considerata sempre dal F. un valore primario, come un obbiettivo essenziale che egli perseguì nel corso degli anni con coerenza e con buoni risultati.
Nel marzo 1798 il F. fu nominato dal granduca, insieme con N. Corsini, segretario di Stato e di Finanze. Conservò anche l'incarico agli Esteri e gestì i rapporti con i Francesi fino al 25 marzo 1799, quando le truppe transalpine occuparono il Granducato, nonostante la grande prudenza (in molti casi ai limiti della remissività) usata dal governo toscano e dallo stesso F. che giunse, su imposizione del Reinhard, a invitare formalmente il pontefice a lasciare la Toscana ove si era rifugiato dopo la costituzione della Repubblica Romana. In seguito all'occupazione di Firenze, il F. con gli altri ministri partì per Palermo, ove rimase fino all'autunno del 1799.
Tornato in Toscana, pur conservando il titolo di consigliere di Stato, si astenne da ogni attività politica sino alla pace di Lunéville (9 febbr. 1801). Nel 1803 fu confermato dalla reggente del Regno d'Etruria nell'incarico di sovrintendente della Val di Chiana e chiamato a partecipare, come già si è visto, alla deputazione finanziaria di cui in seguito divenne presidente. Nel 1805 accettò il grado di tenente generale delle truppe toscane e, nel maggio, fece parte della delegazione toscana inviata a Milano in occasione dell'incoronazione di Napoleone a re d'Italia.
Quando avvenne l'annessione del Regno d'Etruria all'Impero, il F. era probabilmente il più noto e il più apprezzato dei funzionari toscani. Non sorprende quindi che nel 1809 fosse nominato membro del Consiglio privato e successivamente senatore e conte dell'Impero; un titolo, quest'ultimo, che avrebbe conservato anche dopo la Restaurazione, a dimostrazione del fatto che la sua collaborazione con le diverse autorità governative e le stesse onorificenze ricevute, non suscitarono mai dubbi sulla legittimità e sulla correttezza del suo comportamento. Anzi, per la sua autorevolezza e per i riconoscimenti ottenuti, finì col costituire, forse più di chiunque altro, una sorta di simbolo della continuità e dell'identità della Toscana.
Appunto a esplicita garanzia di continuità col passato lorenese, ma anche di tolleranza e apertura nei confronti della stagione "francese", il F. fu chiamato da Ferdinando III, tornato sul trono, a presiedere la commissione legislativa (25 giugno 1814) e successivamente a rivestire la carica di segretario di Stato, ministro degli Affari esteri e direttore delle reali segreterie (15 settembre). Il F. mantenne sempre una superiore autorità all'interno del Consiglio, e più di ogni altro dette l'impronta alla politica governativa toscana, almeno fino all'inizio degli anni Trenta dell'Ottocento.
Il quadro di riferimento per lui rimaneva sempre quello della monarchia assoluta, anche se nella versione "illuminata", incarnata da Pietro Leopoldo. Nel caso della Toscana, ad esempio, i consiglieri di Stato, che formavano il governo, venivano scelti dal granduca, alla cui autorità sovrana erano tenuti esclusivamente a render conto, senza alcun vincolo di rappresentatività. Si trattava di confini politici e istituzionali precisi che è necessario tenere sempre presenti ove si voglia cogliere il senso del richiamo al valore delle libertà individuali riproposto costantemente dal F. che pure non riuscì mai a superare la distanza che lo separava da una moderna e compiuta concezione del liberalismo.
Da una fede di stampo naturalistico nel "progressivo incivilimento" della società il F. aveva derivato la convinzione della necessità di ridurre al massimo i campi di intervento dello Stato. "Il governo non deve esser altro che la provvidenza umana destinata a facilitare il cammino dell'umanità", cioè a garantire le condizioni migliori per il libero svolgimento delle facoltà individuali e dell'iniziativa privata. Mentre nel campo dell'economia una concezione del genere condusse all'affermazione definitiva del libero scambio, sul piano politico e sociale essa ispirò un atteggiamento di tolleranza e di moderazione del tutto contrastante con la dura politica reazionaria in atto negli altri Stati italiani. Come gli stessi avversari riconobbero, una certa cautela nell'impiego dell'apparato poliziesco, la rinuncia a ogni persecuzione violenta, la relativa libertà di circolazione delle cose, degli uomini, dei libri e delle idee, l'ospitalità offerta agli esuli provenienti dalle altre parti d'Italia contribuirono a creare un clima politico abbastanza aperto, adatto alla fioritura di studi e di iniziative promossa dai moderati raccolti intorno all'Accademia dei Georgofili e al Gabinetto Vieusseux; iniziative per le quali, come è noto, Firenze costituì per molti anni il centro politico e culturale della penisola.
Il governo del F., tuttavia, per quanto illuminato e paterno, rimaneva pur sempre il governo di una monarchia assoluta, della quale ovviamente conservava i caratteri fondamentali. Sotto questo aspetto già alcuni osservatori ottocenteschi (così come più recentemente alcuni storici) invitavano a non sottovalutare il ruolo svolto negli anni della Restaurazione dal Buongoverno, il dipartimento di polizia del Granducato. Con la sua rete di informatori e di "sbirri" esso infatti appariva ad A. Zobi una "potenza formidabile e misteriosa" dalle estese e indefinite attribuzioni, di fatto in grado di intervenire in tutti i campi dell'attività governativa. In questo stesso senso deve essere riconsiderata anche l'opera della censura, riservata, in materia di politica, alla segreteria di Stato e amministrata con "massime assai ristrette" da N. Corsini.
D'altra parte molti dei provvedimenti legislativi presi dal governo toscano presentarono un carattere palesemente illiberale e contrastante col conclamato modello leopoldino. Al proposito basta ricordare la modifica della legge comunitativa (1815-1816) che, attribuendo al sovrano la nomina dei gonfalonieri e di parte dei Consigli comunali, snaturò completamente una delle leggi portanti dell'intero edificio leopoldino. Un'intima natura autoritaria, dunque, che suggerisce un giudizio assai più cauto di quello tramandato da una tradizione storiografica attenta esclusivamente a cogliere nell'opera del F. i caratteri di tolleranza, di moderazione, di paterno buonsenso e di liberalità.
La frattura tra il F. e il gruppo dirigente toscano, nonostante i numerosi punti di contatto esistenti, derivava dal "cinismo" politico del F., dalla sua indifferenza per i grandi principî, dalla sua incapacità di "lavorare per l'avvenire", di concepire progetti "durevoli". Da ciò, secondo il Capponi, la scelta di una rotta di piccolo cabotaggio in difesa dello status quo, a cui in fin dei conti tendeva anche il conclamato atteggiamento di disponibilità e tolleranza, concepito dal F. come lo strumento migliore per rendere inoffensive le nuove idee. L'accusa maggiore, tuttavia, analoga a quella di G. Montanelli, era di aver generato un rilassamento delle "forze vitali del suo paese e di quelle del governo"; di avere anzi "separato le prime dalle seconde mediante una reciproca indifferenza".
Ed era per l'appunto questo, a giudizio del Capponi, l'errore politico irrimediabile commesso dal F.: l'aver avallato - da buon consigliere di Stato di una monarchia assoluta di stampo settecentesco - il rifiuto del granduca alla collaborazione con i rappresentanti naturali della società civile, costituiti nell'ottica del Capponi dal ceto dei proprietari terrieri illuminati facenti capo all'Accademia dei Georgofili e al Gabinetto Vieusseux. La frattura tra questi e Leopoldo II avvenne nel 1830, in seguito alla proibizione (formalmente approvata dal F. come risulta da un suo biglietto al granduca) dei festeggiamenti organizzati per il ritorno del sovrano da un viaggio a Vienna, che portò alle dimissioni dalle cariche pubbliche e di corte di P.F. Rinuccini, di C. Ridolfi e dello stesso G. Capponi. La crisi andò avanti nei mesi seguenti fino a raggiungere la sua acme all'inizio del 1833 con la soppressione dell'Antologia che costituì una ferita destinata a non rimarginarsi mai completamente. Non sappiamo abbastanza del ruolo svolto in questi avvenimenti dal F.; è certo quantomeno che egli lasciò che gli eventi si compissero senza intervenire. Occorrono al proposito studi specifici che spieghino la vera natura dei rapporti intrattenuti dal F. con l'attivissimo presidente del Buongoverno T. Ciantelli e che facciano luce su una discussa lettera di dimissioni, a nostro avviso presentata a Leopoldo II dal F. (dicembre 1830) più in risposta a una svolta filoaustriaca che a una accentuazione autoritaria della politica del granduca.
Mentre il comportamento incerto e ambiguo di questi anni gli alienò definitivamente la stima del gruppo moderato, anche l'autorità del F. all'interno del governo e agli occhi del granduca stava diminuendo. Nel corso degli anni Trenta la sua attività politica si ridusse progressivamente, mentre sempre più lunghi furono i periodi trascorsi ad Arezzo, insieme con la moglie Vittoria Bonci, vedova Falciai, sposata nel 1832, al cui figlio di primo letto, Enrico Vittorio, il F. lasciò il nome e il patrimonio. Nel 1838, chiesto e ottenuto il "riposo" dal servizio, si ritirò a vita privata, continuando ad attendere ai suoi studi di matematica e di idraulica per i quali, non meno che per la sua apprezzata attività di diplomatico e di uomo di Stato, era ben noto in tutta Europa. Nel 1843 su proposta di A. von Humboldt ricevette l'onorificenza dell'Ordine prussiano al merito scientifico e artistico, l'ultimo di una serie lunghissima di importanti riconoscimenti internazionali.
Morì a Firenze il 13 apr. 1844 e fu sepolto in S. Croce, in un mausoleo fatto erigere a pubbliche spese.
Fonti e Bibl.: Il nucleo di base delle carte Fossombroni è conservato presso l'Archivio di Stato di Arezzo (v. l'inventario curato da S. Camerani nel volume miscellaneo V. F. nel primo centenario della morte, Arezzo 1947). Le carte relative all'attività ministeriale del F. sono conservate in fondi diversi dell'Archivio di Stato di Firenze. L'albero genealogico e numerose notizie relative alla famiglia si trovano in C. Sebregondi, Repertorio delle famiglie patrizie e nobili fiorentine, Firenze 1950-54, XI, ad nomen. Un'ampia raccolta di scritti editi e inediti del F. fu pubblicata nel 1896 ad Arezzo col titolo Scritti di pubblica economia, a cura di A. Morena, che vi premise V. F. economista. Discorso storico ed economico. Con la giunta dei motti, sentenze ed aneddoti, che costituisce a tutt'oggi il miglior saggio biografico disponibile su di lui.
Tra le testimonianze dei contemporanei, la più importante è quella di G. Pagni, Elogio biografico del conte V. F.…, in Nuovi Annali delle scienze naturali di Bologna, aprile 1847. Il giudizio del Capponi, redatto subito dopo la morte del F., si trova in G. Capponi, Scritti editi ed inediti, a cura di M. Tabarrini, II, Firenze 1877, pp. 422-425; il ritratto del F. a opera di G. Montanelli è contenuto nel cap. II delle Memorie sull'Italia e specialmente sulla Toscana dal 1814 a 1850, Torino 1853. Notizie e considerazioni sull'opera del F. anche in G. Baldasseroni, Memorie. 1833-1859, a cura di R. Mori, Firenze 1959, pp. 13-25, e A. Zobi, Manuale storico di economia toscana, Italia [Firenze] 1858, pp. 461-476.
In sede storiografica esistono solo alcuni brevi tentativi di sintesi e alcune ricerche su aspetti particolari della sua attività culturale e politica. Tra i primi si possono citare G. Sforza, Il granduca di Toscana Leopoldo II e i suoi vecchi ministri, in Rass. stor. del Risorgimento, VII (1920), pp. 576-595; V. Fossombroni, V. F. precursore del liberismo manchesteriano, diplomatico della Toscana, protettore dei carbonari, Firenze 1962 (conferenza tenuta dall'omonimo pronipote); Z. Ciuffoletti, V. F. e la continuità della tradizione leopoldina in Toscana (1754-1844), in Rass. stor. toscana, XXI (1975), pp. 191-211. Per quanto attiene all'attività politica del F. sono da vedere: A. Carraresi, La politica interna di V. F. nella Restaurazione, in Arch. stor. ital., CXXI (1971), pp. 267-355, e I. Biagianti, Il ministro V. F. tra Lorena e governo francese, in La Toscana e la Rivoluzione francese, Atti del Convegno (Arezzo 1989), a cura di I. Tognarini, Napoli 1994. Sugli studi di matematica e di idraulica del F. sono da segnalare S. Giuntini, Su una controversia fra Pietro Ferroni e V. F., in La storia delle matematiche in Italia, Atti del Convegno(Cagliari 1982), Bologna s.d.; I. Biagianti, V. F., fra idraulica e politica, in Riv. di storia dell'agricoltura, XXVIII (1988), pp. 179-214; Id., La chiusa dei monaci, V. F. e la bonifica della Val di Chiana, in Agricoltura e bonifiche in Valdichiana (secoli XVI-XIX), Firenze 1990, cap. V; Id., Il sistema idraulico dei paesi veneti negli studi di V. F., in Francesco A. Brocchi (1821-1888) e il suo tempo, Atti del Convegno (Adria 1990), a cura di A. Lodo, Rovigo 1993, pp. 243-255.
Importanti notizie sulla figura e sull'attività politica del F. sono contenute infine in alcune opere generali: A. Zobi, Storia civile della Toscana dal 1737 al 1848, IV, Firenze, 1850-52, ad Indicem; P. Pieri, La Restaurazione in Toscana, Pisa 1922, ad Indicem; A. Aquarone, Aspetti legislativi della Restaurazione toscana, in Rass. stor. del Risorgimento, XLIII (1956), pp. 3-34; R.P. Coppini, Il Granducato di Toscana. Dagli anni "francesi" all'Unità, Torino 1993, ad Indicem.