VITTORIO AMEDEO II duca di Savoia, re di Sicilia, re di Sardegna
Nato a Torino il 14 maggio 1666, morto a Rivoli il 31 ottobre 1732. Aveva nove anni alla morte del padre Carlo Emanuele II (1675): la madre, Giovanna Battista di Nemours, assunse la reggenza e la mantenne anche quando il figlio ebbe raggiunto la maggiore età (maggio 1680). Ma il contrasto già si palesava tra l'indirizzo politico della reggente e dei suoi consiglieri francesi, troppo proclivi alla volontà di Luigi XIV e per nulla capaci di tutelare lo stato sabaudo dalle mire politiche del Louvois, e le aspirazioni del giovane duca che rispecchiavano le tendenze più sane del paese e le tradizioni della dinastia.
Il dissidio non era solo politico, ma anche psicologico e morale: tra madre e figlio non esistevano affetto e confidenza; l'una tratteneva relazioni intime con il conte Chabot di Saint-Maurice, poi con il conte Masino, e considerava l'ambasciatore di Francia come il migliore consulente negli affari di stato; l'altro cresceva in una sorta d'isolamento morale, reso più grave da una malferma salute che solo il tempo e l'esercizio delle armi gioveranno in parte a sanare, con un carattere che appariva a volte "impétueux et sensible", più spesso "caché et secret". Ma l'indole scontrosa e riservata nascondeva una viva intelligenza, una notevole capacità d'osservazione, e una forza di volontà contenuta o abilmente dissimulata.
La personalità di V. A. cominciò a imporsi nel 1683, in una serie d'atteggiamenti più risoluti verso la madre e i suoi favoriti. Ma già alcuni anni prima (1680) era riuscito a liberarsi da un progetto di matrimonio con l'infanta di Portogallo; e infine - nel 1684 - eliminata la reggenza, comunicò ai sudditi, con un proclama emanato da Rivoli (14 marzo), la propria decisione d'assumere in toto il governo dello stato.
Il 9 aprile dello stesso anno celebrò le nozze con Anna d'Orléans, nipote di Luigi XIV. I vincoli con la Francia venivamo così ribaditi; ma era il solo mezzo che il duca avesse per esautorare l'influenza materna. Del resto V. A. capiva di non poter rompere d'un tratto le buone relazioni con Luigi XIV. Prima occorreva riorganizzare lo stato, economicamente e militarmente.
Lavoratore instancabile, V. A. seppe creare intorno a sé schiere di collaboratori fedeli e intelligenti, scegliendoli ora tra i nobili, ora tra i borghesi; ma il potere fu sempre e solo nelle sue mani. Autorità assoluta, ma di un assolutismo che già rivelava, nei concetti e nei disegni audacemente riformatori, anticipazioni illuministiche.
Quando si costituì la Lega d'Augusta (1686) V. A. vide approssimarsi il momento della riscossa contro l'egemonia francese. Durante il carnevale del 1687 si recò a Venezia sotto falso nome per incontrarsi con il cugino Massimiliano di Baviera e con un agente imperiale. Il viaggio forse non ebbe tutta l'importanza politica che gli storici vollero attribuirgli, ma certo fu il primo gesto d'indipendenza e di ribellione agli ordini di Versailles. Le vere trattative si svolsero nel 1688-1689 tra il duca e Guglielmo III d'Orange; infatti V. A. guardava Con simpatia alle potenze marittime, e massime all'Inghilterra. Nel 1690 lo stato sabaudo entrò nella Grande Alleanza. Respinto un ultimatum del Catinat che voleva porre un presidio francese anche a Torino, V.A. si pone alla testa del proprio esercito; ma le vicende della guerra gli sono contrarie. È battuto a Staffarda (18 agosto 1690), fallisce in un tentativo d'invasione del Delfinato (1692), è sconfitto a Marsiglia (4 ottobre 1693). Le operazioni militari languono, anche per gli scarsi aiuti che il duca riceve dalla Spagna e dall'imperatore. D'altra parte V. A. considera la guerra come un fatto politico; è sempre pronto a combattere, ma anche a trattare. Nel 1693 si dichiara disposto a sostenere nuovi sacrifici, ma chiede in compenso il governo dello stato di Milano; la Spagna rifiuta, ed egli riprende e porta a termine i negoziatì con Luigi XIV che già gli aveva offerto una pace separata. Col trattato segreto dì Pinerolo (29 giugno 1696), divenuto poi ufficiale e definitivo a Torino (29 agosto), V. A. II ottiene dalla Francia la liberazione delle terre invase, la restituzione di Pinerolo, il ritorno di Casale, smantellata, al duca di Mantova, il matrimonio della figlia Maria Adelaide con il duca di Borgogna. Sconfitto militarmente, egli trionfa diplomaticamente: lo stato sabaudo riacquista l'indipendenza effettiva compromessa dopo la pace di Cherasco (1631) e accresce il proprio prestigio; la via dell'Italia è sbarrata ai Francesi e l'Austria è esclusa da Casale. Come Luigi XIV aveva previsto, il ritiro di V. A. II provocò lo sgretolarsi della coalizione; la guerra cessò in Italia (7 ottobre 1696) e l'anno seguente fu conclusa la pace generale a Ryswyk.
Se la guerra della Grande Alleanza permise al duca di riavere ciò che dai suoì predecessori era stato perduto, la lotta per la successione di Spagna, lo pose in primo piano nella politica europea, gli consentì di ampliare il proprio stato, di ottenere il titolo regio, di emergere risolutamente tra i principi italiani, deboli, incerti, neutrali, come il solo che realmente contasse nella vita della penisola. Nella prima fase del conflitto V. A. fu con la Francia, non per maturata convinzione, ma perché stretto tra due fuochi, dal momento che il Vaudemont, governatore del Milanese, aveva riconosciuto il testamento di Carlo II. In virtù dell'alleanza franco-sabauda (6 aprile 1701), il duca ottenne il comando supremo delle forze gallo-ispane in Italia e diede in sposa a Filippo V la sua secondogenita Maria Luisa Gabriella. Ma, nonostante le prove di lealtà e di ardimento da lui offerte nella battaglia di Chiari (1° settembte 1701), era visibile la diffidenza dei generali francesi, il desiderio di umiliarlo. V. A. capì che se la causa borbonica avesse trionfato il Piemonte avrebbe perduto ogni forza morale e ogni libertà politica di movimento. Per questo egli cominciò a trattare con l'imperatore (le prime proposte concrete risalgono al luglio del 1702), con l'Olanda, e soprattutto con l'Inghilterra, le cui assicurazioni scaturivano da un'affinità d'interessi politici mediterranei. V. A. II vuole entrare saldamente in questo cerchio più ampio di relazioni internazionali, assicurare al proprio stato non solo accrescimenti territoriali ma un più vasto respiro, inserendolo nel quadro delle forze vive e operanti d'Europa. Luigi XIV ricorse alle lusinghe, poi alle violenze (disarmo del corpo piemontese a S. Benedetto, 29 settembre 1703). Ma ormai era tardi: cancluso il trattato con l'imperatore (7 e 30 ottobre 1703), V. A. iniziò le ostilità. Per la superiorità delle forze francesi comandate dal Vendome, dal La Feuillade, dal Tessé, dovette limitarsi a difendere palmo a palmo il territorio, le città, le fortezze, in attesa che giungessero i rinforzi imperiali. Caduta Verrua (9 aprile 1705), Mommeliano (17 dicembre 1705), Nizza (6 gennaio 1706), anche Torino venne investita e assediata (giugno-settembre 1706). La città sì difese con accanimento, e con episodî di valore singolo (Pietro Micca) e collettivo, fino all'arrivo del principe Eugenio alla testa di 30 mila uomini. La battaglia del 7 settembre segnò una sconfitta piena e decisiva per i Francesi che lasciarono duemila morti sul campo e dovettero ripassare le Alpi. Negli anni seguenti Luigi XIV cercò di rinnovare la manovra diplomatica felicemente riuscita nel 1696, staccando V. A. dall'alleanza. Ma nemmeno l'offerta del Milanese poté indurre il duca a una pace separata, nonostante che egli si trovasse in contrasto con l'imperatore per le cessioni di territorio pattuite nel trattato del 1703, e per la minaccia crescente d'un predominio asburgico nella penisola. D'altra parte una vittoria finale dei Borboni voleva dire annullare il valore politico della battaglia di Torino che doveva invece significare, nel pensiero di V. A., la fine di ogni egemonia francese in Italia. Né egli poteva aderire alle varie proposte di leghe italiane (1705-1708-1712), così come erano vagheggiate da Venezia o da Firenze, da Versailles o da Londra, con mire difensive e conservatrici; non voleva ipotecare l'avvenire, immobilizzando il Piemonte, sacrificare la politica sabauda in difesa dello statu quo della penisola. La "libertà d'Italia" era "nella punta della sua spada", non nei compromessi con principi deboli e discordi. Ma neppure si lasciò lusingare dal progetto di una permuta dei suoi stati con il regno di Napoli e Sicilia, o addirittura con la Spagna: "Allons au solide et au présent - diceva - et puis je vous écouteray sur les chimères agréables et futures". Finalmente con le paci di Utrecht (1713; v.) e di Rastatt (1714; v.) ottenne la Sicilia con il titolo regio, una buona parte degli ampliamenti stabiliti nel trattato del 1703 verso la Lombardia, e una solida barriera alpina verso la Francia. Certo V. A. II avvrebbe preferito il ducato di Milano alla Sicilia, ma il Mellarede lo confortava: "Col Piemonte piglierà il Milanese, con la Sicilia piglierà Napoli". Invece la situazione europea tornò ad aggravarsi, e di fronte alle richieste imperiali le potenze furono concordi nel sacrificare le aspirazioni sabaude. Del resto V. A. II nel suo soggiorno palermitano (21 dicembre 1713-5 settembre 1714) si era convinto delle difficoltà opposte dal particolarismo siciliano e di quelle insite nella lontananza dell'isola dal potere centrale. Era quindi disposto ad una intesa con l'Austria mediante lo scambio della Sicilia con la Sardegna, ma voleva anche una parte del Milanese. Ne ebbe un rifiuto, e allora tentò la via opposta: l'accordo con l'Alberoni (v.). Fallite anche queste trattative, dopo gli sbarchi spagnoli a Cagliari e a Palermo, a V. A. II non restò che aderire alla Quadruplice Alleanza (8 novembre 1718); rifiutando correva il rischio d'essere assalito contemporaneamente dalla Francia e dall'Austria. Propose invano all'imperatore la permuta della Sicilia con gli stati di Parma con la Toscana; poi, non avendo forze per difendere l'isola lontana s'impegnò di sgombrarla, aiutando Carlo VI a riprendere la Sardegna per assicurarsi lo scambio (convenzione del 29 dicembre 1718). V. A. II assunse il nuovo titolo di re di Sardegna, ma dovette attendere fino al 1720 l'effettiva consegna dell'isola.
La fine delle guerre non segnò il termine delle lotte politiche. Particolarmente vivo e acuto rimaneva il conflitto con la Santa Sede, iniziatosi nel 1694 per la questione dei valdesi e poi ampliatosi con il sopraggiungere di nuovi e più gravi motivi di contrasto. Strenuo difensore del diritto dello Stato di fronte alla Chiesa, V. A. lottò a sostegno delle proprie leggi sui valdesi (v.), senza curarsi del decreto papale di condanna, combatté aspramente i pretesi diritti del pontefice sulla Sicilia, volle sottoporre il clero ai tributi, svuotò d'ogni efficacia il tribunale dell'Inquisizione, e giunse ad espellere da Torino l'internunzio. Solo nel 1726, quando Benedetto XIII lo riconobbe come re di Sardegna, la lotta diminuì di intensità, ma non si placò mai del tutto e fu, per il vecchio sovrano, una fonte di preoccupazioni anche negli ultimi anni di vita.
V. A. II ebbe un carattere vigoroso, ma difficile, talvolta violento; dava "risposte mordaci e piene d'aculei", oppure si rinchiudeva in un minaccioso silenzio". "Le Prince est un fagot d'épines - dice il Tessé - ceux qui l'approchent de plus près ne savent pas où le prendre". La sua astuzia politica era proverbiale: non enunciava tesi e soluzioni a priori; intorno a un piano; a un progetto di massima, lavorava lungo tempo, per cavarne l'esito più vantaggioso possibile. A lui spetta il merito di aver rinvigorito e ampliato la diplomazia sabauda, riuscendo a plasmare una classe politica in gran parte nuova, a circondarsi di ambasciatori, ministri e agenti abili e devoti (Mellarede, Vernone, Maffei, del Borgo), cresciuti a una scuola severa, in anni di durissime prove.
L'ultimo decennio di regno V. A. II lo consacrò al miglioramento interno dello stato, con una visione organica e coerente dei maggiori problemi. La riforma amministrativa, che culminò nel 1717 con l'organizzazione del Consiglio di stato, fu ispirata a rigidi criterî di unità e di economia nei servizî, di regolarità e di ordine nelle funzioni. Al risanamento finanziario, dopo le spese e i danni provocati dalle guerre, si provvide con mezzi radicali, cioè con un nuovo catasto (iniziato nel 1698 e condotto a termine nel 1730), con l'avocazione al demanio e con la successiva vendita di molti feudi abbandonati, con una coraggiosa limitazione delle immunità ecclesiastiche. Opera di giustizia tributaria che mirava a ristabilire l'equilibrio del bilancio senza ricorrere a un aumento di pressione fiscale. Lo stesso re, che negli anni critici aveva impegnato anche i gioielli della corona, diede il buon esempio, adottando per sé e imponendo alla corte, un tenore di vita semplice e sobrio. Fino dal 1713 V. A. II pensò a un riordinamento legislativo e affidò allo Zoppi e ad altri giuristi l'incarico di compilare una raccolta di tutti gli editti sabaudi. Ma nel 1722 mutò parere e volle che si procedesse alla creazione d'un codice nuovo in cui fosse rifusa in modo organico la legislazione vigente. L'opera, in cinque libri, venne solennemente promulgata nel 1723; ma V. A. II pochi anni dopo la riprese in esame, la corresse e modificò, sicché l'edizione definitiva poté uscire solo nel 1729. Il codice vittoriano non ha carattere innovatore, ma segna un temperamento dei diritti feudali e una limitazione dell'istituto del fedecommesso. Nel campo della cultura, pur adottando misure restrittive della libertà di stampa e di pensiero, V. A. II non esitò a combattere il monopolio ecclesiastico dell'insegnamento, promovendo l'apertura di scuole laiche e restringendo i privilegi di quelle religiose, massime se tenute dai gesuiti. Fu riorganizzata su nuove basi, con l'aiuto di due giuristi siciliani (N. Pensabene e F. D'Aguirre), l'università di Torino, invitandovi maestri insigni dall'Italia e dall'estero, riservando alle 4 facoltà l'esclusivo diritto di conferire lauree, e fondando un collegio delle provincie per gli studenti poveri. Anche le arti furono curate e promosse, in particolar modo l'architettura che in Torino e nei dintomi ebbe un forte impulso per merito del Bertola e del Juvara. A ricordo della vittoria del 1706, V. A. fece erigere la basilica di Superga (v.).
Il 3 settembre 1730 V. A. II rinunciò al trono a favore del figlio Carlo Emanuele III (il primogenito Vittorio Amedeo era morto nel 1715). L'idea dell'abdicazione era maturata l'anno precedente, forse per stanchezza, forse per il desiderio di una più intima vita famigliare. Infatti, perduta la consorte (1728), V. A. II aveva sposato (12 agosto 1730) la vedova contessa Anna Teresa di S. Sebastiano (poi marchesa di Spino). Ritiratosi a Chambéry, volle essere informato settimanalmente degli affari di stato. Quando gli parve che il figlio non fosse all'altezza del compito, ritornò a Torino (1731) per risalire sul trono. Si stabilì invece a Moncalieri, pur continuando a chiedere la revoca dell'abdicazione. Di fronte al suo contegno e al pericolo di sollevazioni interne, Carlo Emanuele III lo fece arrestare e confinare nel castello di Rivoli (28 settembre 1731). La prigionia, prima severa, venne poi mitigata; ma ormai la salute di V. A. II era irrimediabilmente scossa.
Bibl.: D. Carutti, Storia del regno di V. A. II, 1ª ed., Torino 1856, 2ª ed., Firenze 1863, 3ª ed. (rifatta), ivi 1897; Lamberty, Histoire de l'abdication de V.-A., Parigi 1734; Correspondance de la duchesse de Bourgogne avec la reine d'Espagne, ivi 1865; A. Manno, Un mémoire autographe de V.-A. II, in Revue Internationale, Firenze 1884, pp. 93-102; G. De Leris, La comtesse de Verrue et la Cour de V.-A. II de Savoie, Parigi 1881; sulla personalità di V. A. II si veda l'ottimo saggio di F. Cognasso, Nel secondo centenario della morte di V. A. II, in Torino, dicembre 1932.
Per la politica estera: D. Carutti, Storia della diplomazia della Corte di Savoia, Roma 1875-1880, III; C. Rousset, Hist. de Louvois, Parigi 1891 (7ª ed.), IV. Per la storia diplomatica militare, finanziaria durante la guerra di successione spagnola, si vedano gli studî e i documenti pubblicati nella collana (incompleta): Le campagne di guerra in Piemonte (1703-1708), Torino 1906-33. Inoltre: Lettere di V. A. II di Savoia re di Sicilia a Gaspare Maria conte di Morozzo della Rocca, suo ambasciatore a Madrid (1713-17), in Miscell. di storia italiana, XXVI, Torino 1887; E. Robiony, Un'ambizione mal nota della Casa di Savoia, in Arch. stor. ital., 1903; E. Parri, V. A. II ed Eugenio di Savoia nelle guerre della successione spagnola, Milano 1888. Studî e documenti relativi alle vicende militari e diplomatiche nel periodo 1691-1720 sono contenuti nel volume Studi su V. A. II, Torino 1933, a cura di: C. Contessa, A. Bozzola, Ar. Tallone, C. P. De Magistris, F. Guasco; Perrero, La condotta di V. A. II verso la Francia prima e dopo il trattato di alleanza del 6 aprile 1701, in Curiosità e ricerche di storia subalpina, II, Torino 1876; A. Baraudon, La Maison de Savoie et la Triple Alliance, Parigi 1896; E. Rota, Il problema politico d'Italia durante la guerra di sucessione spagnuola, in Nuova riv. storica, I, II, III (1934); F. Ercole, Le aspirazioni mediterranee dello Stato Sabaudo e la politica estera del primo re di Casa Savoia V. A. II, in Riv. stor. ital., III e IV (1936); C. Morandi, La politica di V. A. II e le proposte francesi di pace, in Problemi politici italiani ed europei del sec. XVIII e XIX, Milano 1937. - Per la Sicilia: V. E. Stellardi, Il regno di V. E. II nell'Isola di Sicilia dall'anno 1713 al 1719, Torino 1861; J. La Lumia, La Sicilia sotto V. A. II, Livorno 1877. Per la Sardegna: R. Palmarocchi, Sardegna sabauda, I: Il regno di V. A. II, Cagliari 1936. Per la diplomazia: C. Morandi, Relazioni di ambasciatori sabaudi, genovesi e veneti, Bologna 1935. Per i rapporti con i valdesi: M. Viora, Storia delle leggi sui Valdesi, ivi 1930.