VITTORIO AMEDEO II di Savoia
VITTORIO AMEDEO II di Savoia. – Vittorio Amedeo Francesco di Savoia nacque al Palazzo Reale di Torino, il 14 maggio 1666, «alle sette circa di mattina», unico figlio del duca Carlo Emanuele II e della sua seconda moglie Maria Giovanna Battista di Savoia Nemours. Subito dopo il parto si tenne la cerimonia di battesimo, officiata da monsignor Michele Beggiamo, arcivescovo di Torino. Padrini furono «duo pauperes»: «Franciscus Collus» di Chieri e Anna Maria Emmanuelli da Sommariva (1615-1673), una mistica, giunta a Torino nel 1657 sotto la protezione dei gesuiti, legata alla potente Compagnia di San Paolo (Archivio di Stato di Torino, Corte, Cerimoniale, Nascite e battesimi, mz. 1, f. 20).
Sino al compimento del settimo anno, Vittorio Amedeo II fu affidato a una corte femminile, guidata come governante da Louise-Christine Du Mas de Castellane d’Allemagne (1607 ca.-1686), dame d’atour di Cristina di Francia dal 1642 al 1663. Il 12 maggio 1673 Carlo Emanuele II emanò le Istruzioni e regole che [...] si debbino osservare per l’educazione del [...] principe di Piemonte (ibid., f. 6.), affidando la carica di «governatore del principe» al conte Giovanni Filippo Solaro di Monasterolo, esponente di primo piano della fazione filofrancese, già maggiordomo maggiore di Cristina di Francia fra 1660 e 1663.
La piccola corte allora costituita intorno al principe prevedeva anche un vicegovernatore e primo scudiere, un secondo scudiere e un maggiordomo: rispettivamente i conti Filiberto di Piossasco, Joseph de Monthoux e Felice Piscina. Vi era poi il gruppo d’intellettuali cui era affidata l’educazione del principe. A guidarli era l’abate Emanuele Tesauro, precettore, coadiuvato dal nizzardo Pietro Gioffredo, viceprecettore, e dal «mastro da scrivere» Tomaso Borgonio. Completavano lo staff, due dame e quattro aiutanti di camera, due capocuochi, un capocredenziere, un usciere di cucina, un aiutante di frutteria, e altre figure minori (Archivio di Stato di Torino, Sezioni riunite, art. 217, Conti Real Casa, reg. 1675).
Le Istruzioni regolavano la vita del principe con precisione: la mattina, dopo preghiere e colazione, era dedicata alle lezioni di Tesauro, Gioffredo e Borgonio, cui potevano assistere solo Monasterolo e Piossasco. L’insegnamento era in italiano, lingua che da allora egli usò di preferenza. I precettori dovevano «levar» al futuro sovrano «ogni timore puerile», infondendogli quella «intrepidezza d’animo che deve essere propria d’un prencipe», incitandolo «ad imprese difficili». Per «imparare l’esercitio et i comandi militari» il giovane poteva usare il reggimento guardie. In quanto alle «hore di ricreazione», a esse non erano «admessi [...] né donne né figliuoli, sotto qualsiasi precetto», ma solo i suoi cortigiani (una netta differenza rispetto al modello di paideia del sovrano praticato in Francia). «Li suoi divertimenti», inoltre, dovevano esser «disegnar forti, metter soldati in ordine di battaglia o di marcia, et altre cose simili» che gli fossero state utili una volta divenuto adulto.
A fronte di ciò, destavano preoccupazione le condizioni di salute del principe, soggetto a febbri e violenti problemi di stomaco. Fu, quindi, costituito un collegio medico presieduto dal padovano Pietro Fanzago, protomedico di corte dal 1669 (1640 ca.-1720). Esso predispose una dieta particolare, che prevedeva, fra le altre cose, l’uso dei grissini (non corrisponde, però, al vero la tesi – più volte sostenuta – per cui essi sarebbero stati creati ad hoc per Vittorio Amedeo II, poiché la loro esistenza è attestata già in precedenza).
La morte improvvisa di Carlo Emanuele II il 12 giugno 1675 segnò una svolta nella vita del giovane Vittorio Amedeo. Fortemente legato al padre, il giovane aveva patito la scarsa affettività della madre, tenuta lontano dal potere e umiliata dalle continue relazioni del marito. La reggente prese il potere progettando di mantenerlo il più a lungo possibile, il che determinò un rapido deterioramento dei rapporti fra i due. Pochi anni dopo, il marchese Carlo Giovan Battista Simiani di Pianezza riporta un episodio indicativo: Madama Reale aveva dato un buffetto sulla guancia del figlio per salutarlo e questi, dopo aver risposto come richiesto dall’educazione, appena uscito dalla stanza, si era pulito la guancia, disgustato, «comme s’il avoit approché d’un pestiféré» (C. Rousset, Histoire de Louvois et de son administration politique et militaire, III, 1, Paris 1863, p. 120). Appena tredicenne, il giovane duca aveva ormai appreso a pieno l’arte della simulazione. In quello stesso anno l’ambasciatore francese Jean-François d’Estrades lo presentava come un «prince [...] naturellement caché et secret; quelque soin qu’on prenne de pénétrer ses véritables sentiments, on les connoit difficilement» (ibid., p. 118).
La sua educazione, nel frattempo, era proceduta nell’isolamento, elemento che pesò non poco nel definire il carattere energico e soggetto all’ira del sovrano maturo. La guida dei suoi precettori, morto Tesauro il 26 febbraio 1675, fu assunta da Gioffredo. Nel 1676 questi lesse alla reggente un Discorso accademico in cui spiegava come intendesse adattare l’educazione del duca alla sua fragile salute (Archivio di Stato di Torino, Corte, Cerimoniale, Cariche di corte, mz. 5, f. 6). Il testo di Gioffredo adombra, fra l’altro, la possibilità che il duca soffrisse di una qualche forma di dislessia, là dove sottolinea che questi aveva «una certa naturale impatienza, e velocità d’ingegno che non le lasciava discernere i caratteri, e combinare le sillabe attentamente». Nel frattempo, la reggente s’accordò con sua sorella Maria Francesca Elisabetta (1646-1683) per un matrimonio che allontanasse Vittorio Amedeo II dai suoi Stati.
Maria Francesca Elisabetta nel 1666 aveva sposato il re di Portogallo Alfonso VI (1643-1683). Questi, però, era gravemente malato e nel 1667 la reggenza del trono passò al fratello don Pietro (1648-1706). Nel 1668, ottenuto l’annullamento delle nozze, l’ex regina sposò quest’ultimo, da cui ebbe Isabella Luisa (1669-1690). Poiché non nacquero altri figli, l’infanta fu ritenuta erede al trono. Le due principesse decisero quindi di far sposare i rispettivi figli e, fra 1676 e 1680, si tennero trattative diplomatiche che si conclusero favorevolmente.
Il 14 maggio 1680 Vittorio Amedeo II compì quattordici anni, entrando così nella maggiore età. Nell’atto di cedergli il potere, la madre divulgò il progetto del matrimonio portoghese. Il duca mostrò di accettarlo con favore e pregò la madre di mantenere ancora il potere. Si trattava di un atto di mero realismo politico. Vittorio Amedeo II era ben consapevole, infatti, di non avere la forza politica di ribellarsi alla madre. Rimandava, quindi, lo scontro a tempi migliori. Nel frattempo, la reggente aveva trovato un nuovo favorito nel giovane e intelligente conte Carlo Francesco Valperga di Masino. Ella non solo gli affidò un ruolo chiave nel governo del regno, ma lo nominò primo scudiere di Vittorio Amedeo II. Questi si trovò, dunque, controllato a vista notte e giorno. La partenza del duca per il Portogallo fu fissata per il 1682. A fine giugno giunse a Torino una delegazione portoghese incaricata di scortare il duca a Lisbona. Vittorio Amedeo II, però, cadde ammalato (non è chiaro se la malattia fosse falsa o vera), e si trasferì al castello di Moncalieri per rimettersi. I portoghesi si trattennero sino a ottobre, facendo poi ritorno in patria, dove annunciarono l’annullamento del progetto matrimoniale.
Nel frattempo, in agosto il marchese Carlo Emilio San Martino di Parella aveva tentato una congiura contro la reggente. Scoperto, era riuscito a fuggire. In dicembre fu lo stesso Vittorio Amedeo II a denunciare con lucido cinismo un nuovo complotto progettato dal marchese Carlo Giovan Battista Simiana di Pianezza. In tale modo egli fece capire che intendeva prendere il potere da solo, senza essere favorito da una congiura di palazzo. Iniziò allora a trattare direttamente con Luigi XIV per una sposa francese. Le figlie del Re Sole erano morte infanti, per cui fu scelta una delle nipoti del re, Anna d’Orléans (1669-1728), figlia di Filippo d’Orléans, fratello del re, e di Enrichetta Stuart, figlia di Carlo I d’Inghilterra. La firma del contratto nuziale si svolse a Versailles il 9 aprile 1684. La sposa giunse il 7 maggio a Beauvoisin, dove l’accolse Vittorio Amedeo II. Il loro arrivo a Torino segnò la fine del ruolo pubblico di Maria Giovanna Battista, che fu allontanata per sempre da ogni effettivo potere e, per un certo periodo, anche dalla corte. A diciotto anni, Vittorio Amedeo II iniziava il proprio regno.
Fra le prime azioni, il duca ridisegnò cariche e cerimoniale di corte. Inoltre decise di non assegnare alla duchessa una corte autonoma, come nei secoli precedenti, ma solo una sezione della propria. Il matrimonio, comunque, si rivelò nel complesso felice e, nell’arco di pochi anni, nacquero tre figlie: il 6 dicembre 1685 Adelaide (futura delfina di Francia); il 15 agosto 1687 Anna (m. 1690) e il 17 settembre 1688 Luisa Gabriella (futura regina di Spagna). Il duca, però, ebbe storie con diverse dame di corte. Nel 1689 egli iniziò la celebre relazione con la contessa Giovanna-Battista Scaglia di Verrua, destinata a essere per un decennio la sua favorita e a dargli due figli.
Fra 1685 e 1690 Vittorio Amedeo, pur desideroso di far uscire i propri Stati dal controllo francese nel quale erano caduti sin dal 1630, non poté evitare di mantenere l’alleanza con il Re Sole. Uno dei prezzi da pagare fu l’adesione alla persecuzione antiprotestante. Il duca dovette emanare il 31 gennaio 1686 un editto che proibiva la religione riformata nei suoi Stati. In pochi mesi le comunità valdesi del Pinerolese furono sconfitte e costrette alla scelta fra conversione ed esilio. La vicenda mostrò come Luigi XIV considerasse Vittorio Amedeo II poco più che un vassallo. Allo scoppio della Guerra dei nove anni (1688-97), il duca si schierò, però, con le potenze avversarie del Re Sole, accordandosi con Inghilterra e Olanda per il ritorno dei valdesi nei suoi domini. Vittorio Amedeo II, nominato comandante dell’armata in Italia, guidò personalmente l’esercito in battaglia. La guerra fu segnata da diverse sconfitte (Marsaglia, 18 agosto 1690; Staffarda, 4 ottobre 1693), ma alla fine Luigi XIV, circondato da troppi nemici, convinse Vittorio Amedeo II a stringere con lui una pace separata. Con il trattato di Torino (26 agosto 1696), Pinerolo fu restituita al duca. La pace, inoltre, fruttò il matrimonio della primogenita del duca Adelaide con il duca Luigi di Borgogna, erede al trono francese. Nonostante le sconfitte militari, Vittorio Amedeo II ottenne una grande vittoria politica, sia per gli ingrandimenti territoriali, sia per avere mostrato all’Europa di essere un principe astuto e di cui non si poteva non tenere conto.
Gli anni successivi al conflitto furono segnati dalla nascita del primo figlio maschio (9 novembre 1697), che però morì dopo poche ore. Per avere un erede al trono fu necessario attendere il 6 maggio 1699, quando nacque Vittorio Amedeo Filippo (m. 1715), accompagnato lo stesso giorno al fonte battesimale dal principe di Carignano e dalla nonna paterna, Madama Reale. Il 27 aprile 1701 nacque poi il futuro Carlo Emanuele III, cui fu dato il titolo di duca d’Aosta. Un altro maschio giunse il 1° dicembre 1705: battezzato Emanuele Filiberto e titolato duca del Chiablese, morì due settimane più tardi. Un ultimo nacque prematuro nel 1709 e morì poco dopo.
Nel frattempo, la diplomazia sabauda s’impegnò in tutta Europa per fare valere i diritti di Vittorio Amedeo II ai troni di Inghilterra e di Spagna. A Londra le sue pretese (che avrebbero in seguito fatto dei Savoia gli eredi degli Stuart) furono rese vane dall’Act of settlement, emanato nel 1701. Le rivendicazioni al trono spagnolo si scontrarono con gli interessi contrapposti di Borbone e di Asburgo, dinastie entrambe interessate a non far crescere troppo, per così dire, i Savoia. Alla morte di Carlo VI e allo scoppio della guerra di successione spagnola (1700-13), Vittorio Amedeo II decise quindi di allearsi con Luigi XIV, che rivendicava il trono per suo nipote Filippo V, già duca d’Angiò. In cambio, oltre a promesse territoriali, ottenne che Filippo sposasse la sua secondogenita Luisa Gabriella, cosa che avvenne a Torino l’11 settembre 1701. Vittorio Amedeo II, al comando delle truppe franco-piemontesi in Italia, riprese quindi le armi.
L’alleanza con la Francia, tuttavia, risultò presto poco vantaggiosa per Vittorio Amedeo II. Dopo trattative con l’imperatore e con suo cugino Eugenio di Savoia - Carignano - Soissons, nell’ottobre del 1703 passò nel campo anglo-asburgico. Inghilterra e Olanda persuasero l‘imperatore a offrirgli il Monferrato, la Valsesia, Valenza, Alessandria, la Lomellina e il Vigevanasco. I francesi attaccarono, dunque, da est il Piemonte, lasciando parte delle truppe in Lombardia per bloccare i soccorsi delle forze imperiali alle unità sabaude. Un’altra armata francese passò il Moncenisio, si mosse per assicurarsi il controllo di Pinerolo, sottomise il Piemonte settentrionale, occupò la Valle d’Aosta, avvicinandosi pericolosamente a Torino, che fu infine assediata e solo nel settembre del 1706 liberata da un’operazione congiunta di Vittorio Amedeo II e del principe Eugenio. Tale vittoria fu la premessa all’evacuazione delle forze borboniche nell’Italia settentrionale (marzo 1707). Per sei anni la guerra si trasferì così su altri scenari, sia diplomatici sia militari. In questi anni, la principale mira di Vittorio Amedeo II fu la conquista della Lombardia, accettando anche la cessione alla Francia del Ducato di Savoia.
Nello stesso tempo, però, non rinunciò a perseguire anche progetti più ambiziosi. Nel 1710, per esempio, il marchese Ignazio Solaro del Borgo propose uno scambio di territori che prevedeva la cessione a Filippo V di tutti gli Stati sabaudi, in cambio del conferimento a Vittorio Amedeo II dei Regni di Napoli e Sicilia. Successivamente, Vittorio Amedeo II e Luigi XIV si accordarono per un nuovo piano secondo cui Filippo V avrebbe avuto sia gli Stati sabaudi sia i Regni di Napoli e Sicilia, mentre a Vittorio Amedeo II sarebbe andato il Regno di Spagna. Tale piano, gradito anche a Londra, si arenò per l’opposizione di Filippo V, ormai assestatosi sul trono madrileno. Questi progetti, sebbene studiati, sono stati nel complesso poco considerati dalla storiografia sabaudista, perché non rientravano compiutamente nel quadro della ‘missione italiana’ di Casa Savoia. Essi, tuttavia, mostrano bene la capacità di Vittorio Amedeo II di muoversi da protagonista sulla scena europea.
Le trattative di pace, tenutesi a Utrecht, non premiarono Vittorio Amedeo II tanto quanto questi aveva sperato. Grazie, però, all’abilità dei suoi negoziatori (il marchese Ignazio Solaro del Borgo, il conte Annibale Maffei e Pierre Mellarède) e all’appoggio inglese, il sovrano ottenne comunque il Regno di Sicilia (che assegnava finalmente ai Savoia il tanto agognato titolo regio), il Monferrato e i territori della Lombardia occidentale che gli erano stati promessi. Vittorio Amedeo II assunse il titolo di re di Sicilia il 22 settembre 1713 (giorno di s. Maurizio, patrono dei Savoia). Ricevuto il baciamano di fedeltà dalla corte, dai corpi dello Stato e dai nobili in genere, il re, con Anna d’Orléans e gran parte della corte, si trasferì a Palermo, dove giunse l’11 ottobre. L’ingresso ufficiale in città avvenne però il 21 dicembre 1713, premessa all’incoronazione dei sovrani nella cattedrale di Palermo, avvenuta il 24 dicembre.
Rientrato a Torino nel settembre del 1714, Vittorio Amedeo diede il via allora a un’intensa stagione di riforme, destinata a lasciare duratura traccia sulla struttura dello Stato settecentesco. Nello stesso tempo, proseguì ad attrarre a corte artisti da tutta Italia: l’arrivo dell’architetto siciliano Filippo Juvarra (1678-1736), nominato «primo architetto del re» e artefice della trasformazione di Torino nella moderna capitale d’un regno, seguiva quello di uomini quali il pittore austriaco Daniel Seiter (1642-1705), il compositore milanese Andrea Stefano Fiorè (1686-1732), l’organista francese Marc Roger Normand Couperin (1663-1734), che aggiornarono il gusto della corte sabauda.
Per quanto riguarda le riforme, queste non poterono non partire dalla riorganizzazione dell’esercito, vero perno del potere e della politica sabauda, facendo tesoro delle esperienze vissute nel corso di circa due decenni di guerre con i maggiori eserciti del continente. Ancora nel 1709, quando la guerra di successione non era ancora conclusa, l’Ufficio generale del Soldo, responsabile del controllo sulle riviste e del pagamento delle truppe, fu rafforzato grazie a una distribuzione dei compiti più funzionale alla politica di centralizzazione, ponendo alle dipendenze del contadore generale commissari e ufficiali locali. Uno degli esiti più significativi delle riforme militari amedeane fu, però, la creazione di una nuova rete di reggimenti provinciali. L’impiego delle vecchie milizie, infatti, non bastava ormai a più ad affiancare l’esercito di linea: esse rappresentavano una struttura difensiva più apparente che reale e priva di uniformità dal punto di vista delle carriere. Nel 1713-14 furono dislocati dieci reggimenti provinciali, divisi in due gruppi, rappresentati rispettivamente dai colonnelli di Vercelli e di Torino, entrambi subordinati a un maresciallo d’armata. Nei reggimenti fu previsto che fosse reclutato il 3% degli idonei (ceti privilegiati esclusi), scelti o sorteggiati tra gli uomini fra diciotto e quarant’anni. Le comunità furono sollevate dall’onere di contribuire agli stipendi e ai rifornimenti, ora interamente a carico dello Stato. Gli ufficiali, di nomina regia, furono affiancati da sottufficiali scelti tra i veterani in congedo dei reggimenti d’ordinanza. La durata del servizio fu diversificata a seconda che si trattasse di reggimenti piemontesi, nizzardi o savoiardi. Sebbene il nucleo degli stranieri reclutati fra le forze professionali restasse uno strumento irrinunciabile, anzi, la vera risorsa per alimentare il mestiere della guerra negli Stati sabaudi, facendo coesistere all’antica aristocrazia militare un’élite (prevalentemente tedesca) formatasi sui campi europei, i reggimenti provinciali, garantirono un’importante forma di disciplinamento e servizio sul territorio, destinato a sopravvivere fino alle soglie della Restaurazione.
L’annus mirabilis delle riforme fu il 1717, quando il sovrano creò un nuovo sistema di Segreterie di Stato, diviso per competenze, a differenza della preesistente e unica Segreteria secentesca. Accanto alla nuova Segreteria di Stato per gli Affari interni e a quella per gli Affari esteri fu posta una Segreteria di Guerra, da cui dipendevano il citato Ufficio del Soldo, l’Uditoriato (il tribunale militare) e l’Azienda di fabbriche e fortificazioni. Lo stesso anno l’amministrazione finanziaria fu riformata con il rinnovamento del Consiglio delle Finanze, ora però costituito da un preciso organigramma e fulcro di un sistema di cui facevano parte i responsabili della fiscalità ordinaria, dell’esercito, delle fortificazioni e della Real Casa (cioè dell’amministrazione della corte): il generale delle Finanze, il primo presidente della Camera dei conti, il controllore generale, il contadore generale (a capo dell’Ufficio del Soldo) e il primo segretario di Guerra. Sottoposte a questo Consiglio erano state create quattro Aziende economiche: il Soldo, controllato dal contadore generale; la Real Casa, per le spese della corte, coordinata dal gran ciambellano; l’Azienda d’artiglieria e fortificazioni, gestita dall’intendente generale; l’Azienda delle finanze, preposta alla raccolta dei tributi, con a capo il generale delle Finanze. Per impedire la dispersione delle entrate in tesorerie diverse, tutti i tributi furono destinati all’ufficio del tesoriere generale, incaricato di fornire conti giornalieri al generale delle Finanze. La contabilità frequente e meticolosa diventò una caratteristica delle archiviazioni nel corso del Settecento e una preziosa testimonianza della crescita della struttura amministrativa sabauda nel secolo che precedette le razionalizzazioni napoleoniche. L’abolizione della sede della Camera dei conti di Savoia nel 1720 concentrò, dal 1724, le carte dell’antico archivio camerale di Chambéry presso la Camera dei conti di Piemonte, a Torino, dove il materiale documentario fu riorganizzato e diviso fra Savoia, Aosta, terre di nuovo acquisto e territori piemontesi.
Negli stessi anni, poi, Vittorio Amedeo II diede il via a una riforma della nobiltà che mirava a unificare le diverse aristocrazie presenti negli Stati sabaudi all’interno di un unico sistema degli onori, che aveva come perno la feudalità sabauda. I titoli feudali furono sottoposti a severi controlli, il che colpì particolarmente la nobiltà più antica; le nobiltà civiche furono riconosciute solo nelle città che provenivano dalla Lombardia, mentre le famiglie dei patriziati piemontesi furono invitate a entrare nei ranghi della feudalità, favorendo nel contempo il superamento di fratture che duravano dal tempo della guerra civile (1638-42).
Il 1720 segnò, poi, l’inizio d’una serie di interventi politici volti a ricreare la rete dei centri di formazione per le élites, imperniandola sull’Ateneo torinese. In quell’anno l’Ateneo fu non solo trasferito dal vecchio edificio vicino al municipio a un nuovo palazzo attiguo alla zona di comando di Torino, presso le Segreterie di Stato e la sede della corte, ma profondamente trasformato nel suo rapporto ormai esclusivo con il sovrano. I percorsi di studio e il sistema degli esami diventarono più rigorosi, grazie anche alla creazione di un corpo di docenti provenienti dalle migliori tradizioni giuridiche e giurisdizionali maturate in Italia (Padova, Roma, Napoli, Palermo). La rete dei collegi provinciali, sottratti al controllo dei religiosi, anche se ancora popolati da docenti in larga parte provenienti dal clero, diramati sul territorio, fu legata al controllo dello stesso magistrato della Riforma posto a capo dell’Ateneo.
Nel frattempo, però, il quadro politico era cambiato rispetto al 1713. Dopo Utrecht i rapporti con l’Impero erano restati assai tesi. Quando il 3 luglio 1718 Filippo V, spinto dalla sua seconda moglie Elisabetta Farnese e dal cardinale Giulio Alberoni, inviò l’esercito a invadere la Sicilia, ad approfittarsi della situazione fu l’imperatore Carlo VI. Questi riconquistò sì l’isola, ma non certo per restituirla a Vittorio Amedeo II, bensì per unirla ai propri domini. Il sovrano sabaudo mosse la propria diplomazia meglio che poté, ma alla fine dovette aderire, il 18 marzo 1720, al trattato della Quadruplice Alleanza e accettare lo scambio della Sicilia con il Regno di Sardegna (passaggio peraltro già deciso sin dal 1718).
Certo, egli non si perse d’animo e sognava l’occasione di una riscossa. Il 22 dicembre 1722, in una lettera a Londra, l’ambasciatore inglese a Torino, John Molesworth, descrisse così Vittorio Amedeo II: «Ce genie superieur et penetrant, informé de tout, jugeant de tout par ses lumières extraordinaires, rit de bien de sottes speculations et attend tranquillement les evenements pour en profiter» (F. Venturi, Il Piemonte nei primi decenni del Settecento nelle relazioni dei diplomatici inglesi, Bollettino storico bibliografico-subalpino, LIV (1956), p. 271). Pochi anni dopo, Vittorio Amedeo II pensò di proporre uno scambio della Sardegna con altri territori della penisola, ma non fu possibile. I tempi erano cambiati. Il quadro internazionale non sembrava offrire spiragli per nuove azioni. Inoltre, l’ultimo decennio fu segnato per il re da una lunga serie di lutti, che ne accrebbero la devozione e l’isolamento.
La primogenita Adelaide era morta già il 12 febbraio 1712, mentre stava per divenire regina di Francia; Luisa Gabriella l’aveva seguita due anni dopo, il 14 febbraio 1714. Vittorio Amedeo II rimase così privo non solo delle figlie, ma anche di due fondamentali sostegni alla sua azione politica (senza la morte della secondogenita, Elisabetta Farnese non sarebbe divenuta regina di Spagna, con tutto quello che ne conseguì). Il 22 marzo 1715 fu la volta dell’amato primogenito Vittorio Amedeo Filippo: una morte inaspettata, che lo fece cadere in una crisi, non priva di accessi di follia. Il 12 settembre di quello stesso anno morì anche il diciannovenne Tommaso Filippo di Carignano, che egli aveva amato come un altro figlio. Poco dopo, infine, il principe Vittorio Amedeo di Carignano fuggì in Francia, carico di debiti. Della famiglia restarono solo, oltre al principe Eugenio e a pochi altri lontani parenti, la moglie Anna d’Orléans e il figlio Carlo Emanuele.
Quando anche Anna d’Orlèans morì, nemmeno sessantenne, il 26 agosto 1728, Vittorio Amedeo II accusò il colpo. Secondo diversi autori fu allora, anzi, che decise di lasciare il trono al figlio. Il 12 agosto 1730 sposò segretamente Anna Teresa Carlotta Canalis di Cumiana (1680-1769), con cui forse aveva già avuto una breve relazione alla fine del Seicento. Il 3 settembre 1730, riunite le principali autorità dello Stato e della corte nel castello di Rivoli, abdicò il trono a favore del figlio. Il 4 partì da Rivoli e si trasferì a Chambéry, dove prese residenza nell’antico castello della dinastia, vivendo «dans une grande retraite, n’ayant auprès de luy qu’un très-petit nombre d’officiers et de domestiques» (Gazette de France, 1730, n. 43, p. 513). Egli e la moglie assunsero allora il nome di conte e contessa di Tenda. Sino alla fine dell’anno, ricevette ogni settimana – come aveva richiesto – un rapporto su quanto capitava a Torino. Dalla capitale, inoltre, si recavano a trovarlo alcuni fra i cortigiani che gli erano stati più vicini, fra cui il marchese Carlo Amedeo San Martino di Rivarolo. Svolse, comunque, diverse funzioni, accettando, per esempio, di essere padrino, insieme alla moglie, del figlio del conte Antonio Petitti, intendente della provincia.
Con il tempo, cominciò a inviare al figlio dispacci con i quali cercava di condizionare la sua azione. «Lo spettacolo si svolge a Torino, ma il meccanismo che muove le marionette è in Savoia», pare avesse detto allora il marchese Ferrero d’Ormea (L.A. Blondel, Memorie aneddotiche sulla corte di Sardegna, a cura di V. Promis, in Miscellanea di storia italiana, XIII (1871), p. 527). Già alla fine del 1730, peraltro, si diffuse la voce che intendesse tornare a Torino, stabilendosi nel castello della città, già residenza della madre (Gazette de France, 1730, n. 52, p. 621). La notte fra il 3 e il 4 febbraio 1731 fu colpito, però, da un attacco apoplettico. Secondo l’interpretazione ufficiale poi data dal governo del figlio, da allora la salute dell’anziano sovrano sarebbe peggiorata, preparando gli avvenimenti dei mesi successivi. Carlo Emanuele III si recò a Chambéry alla fine di marzo, trattenendosi in città per un paio di settimane sino al 14 aprile. In tale occasione Vittorio Amedeo II espresse nuovamente il suo desiderio di tornare a Torino per via del clima. In maggio le gazzette davano per imminente il ritorno del sovrano, precisando che si sarebbe stabilito a Rivoli (ibid., 1731, n. 23, p. 273).
In luglio Carlo Emanuele III e sua moglie Polissena d’Assia si recarono a Evian per prendere le acque. Il sovrano ne approfittò per vedere il padre. L’incontro fra i due, però, fu pessimo: l’anziano sovrano insultò il figlio e lo minacciò di rientrare nella capitale e tornare sul trono. A questo punto lo scontro era aperto. I due sovrani corsero entrambi a Torino. Il 22 agosto fu la volta di Carlo Emanuele III, seguito il 26 da Polissena. Vittorio Amedeo II e la moglie giunsero solo il 28, stabilendosi al castello di Rivoli. Pochi giorni dopo, in un primo incontro con il figlio, l’ex re dichiarò la sua intenzione di riprendere il potere. Il 16 settembre convocò il marchese d’Ormea e il conte Carlo Luigi Caissotti, ordinando loro di informare il figlio che l’atto di abdicazione era da considerarsi nullo e che il figlio doveva lasciare la città e recarsi a Fenestrelle, per ispezionare il forte. La reazione di Carlo Emanuele III fu rapida. Il 20 settembre emanò una serie di promozioni con cui mutò alcune delle principali cariche militari del Regno. In particolare, sostituì i governatori della capitale e della cittadella – Carlo Foschieri e Filippo Guglielmo Pallavicino di Saint Remy – con uomini a lui fedeli, inoltre nominò nuovi comandanti per numerosi reggimenti. Vittorio Amedeo II perse così alcuni dei sostegni fondamentali al suo progetto. Il 26 l’ex sovrano annunciò che si sarebbe recato a Milano, per chiedere l’arbitrato dell’imperatore. Una simile azione, se attuata, sarebbe stata esiziale per lo Stato. Due giorni dopo, quindi, il 28 settembre, Carlo Emanuele III, dopo aver convocato a Palazzo Reale un consiglio di Stato, ordinò l’arresto del padre. Durante la notte, oltre mille uomini – comandanti dal conte Giuseppe Piccon della Perosa – circondarono il castello di Moncalieri e arrestarono l’anziano sovrano, portandolo prigioniero a Rivoli. Di lì a poco furono ordinati numerosi arresti, che colpirono collaboratori fidati di Vittorio Amedeo II – fra cui il marchese di Rivarolo e i medici Paolo e Carlo Ricca –, tenuti poi prigionieri per diverso tempo.
Vittorio Amedeo II restò a Rivoli sino al 10 aprile 1732, Giovedì santo, quando – accolta una sua richiesta – fu trasferito al castello di Moncalieri. Qui visse i suoi ultimi mesi, dato che fu colpito da un nuovo colpo apoplettico in settembre.
Morì, dopo breve agonia, alle nove di sera del 31 ottobre 1732, senza ottenere di rivedere il figlio. Il corpo fu portato alla basilica di Superga (inaugurata nel novembre del 1731 e scelta dal re come sede delle proprie spoglie e di quelle dei suoi successori) e deposto in un mausoleo provvisorio. Qui restò sino all’agosto del 1778, quando Vittorio Amedeo III fece trasferire i resti nella tomba allora realizzata su disegno di Francesco Martinez, primo architetto regio, e scolpita dai fratelli Ignazio e Filippo Collino. Il corpo di Anna d’Orléans lo raggiunse il 19 luglio 1786.
Ben prima che la storiografia sabaudista presentasse Vittorio Amedeo II come iniziatore, con la vittoria del 1706, del processo d’unificazione italiana, la cultura europea lo identificò subito – e in parte più correttamente – come uno dei più grandi sovrani del Settecento: «Victor Amadeus was the most extraordinary character, and may be said to have been the most politic prince of his age», recitava The modern part of an universal history, apparsa a Londra nel 1762 (XXXVII, p. 516). «Prince politique» e «guerrier plein de courage» lo definì Voltaire nel Siecle de Louis XIV (cap. XVII), che ne sottolineava anche il carattere «actif, vigilant, aimant l’ordre», ma anche «des fautes, et comme prince et comme general». Esemplare di tale interpretazione quanto scritto pochi anni prima della Rivoluzione francese sulla versione francese d’una storia inglese: «Dans ce siècle, l’Europe admire trois illustres législateurs également recommandables par la gloire de leurs armes et par la supériorité de leur génie; et ces trois grands souveraines sont le roi de Prusse, l’impératrice Catherine II et le roi de Sardaigne [...] La législation de Victor-Amé II est de la plus grande sagesse et digne à tous egards de ce siècle philosophique, illustre par des rois vraiment instruits et habiles dans l’art de commander aux hommes ou plutôt de les rendre hereux» (Histoire universelle depuis le commencement du monde jusqu’à present [...] Histoire moderne, XLIII, Paris 1786, pp. 588-590).
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie politiche in rapporto agli Interni, Storia Real Casa, cat. III: C. Denina, Histoire de Victor Amedée II Duc de Savoye et Roi de Sardaigne,Vittorio Amedeo II, ff. 3-4; Torino, Biblioteca Reale, St. patria 76: G.A. Palazzi di Selve, Della abdicazione del re Vittorio Amedeo e della sua detenzione nei castelli di Rivoli e Moncalieri (1755); A. Radicati di Passerano, History of the abdication of Victor Amedeus II, s.n.t. (ma London 1732).
La bibliografia sul primo re sabaudo è amplissima, ma esistono solo due biografie specifiche: D. Carutti, Storia del regno di V.A. II, Torino 1856 (Firenze 1863, Torino 1897) e G. Symcox, Victor Amadeus II. Absolutism in the Savoyard State, 1675-1730, Londra 1983 (trad. it. Torino 1989). Fondamentali sulla sua politica restano M. Viora, Storia delle leggi sui Valdesi di V.A. II, Bologna 1930; F. Venturi, Saggi sull’Europa illuminista, I, Adalberto Radicati di Passerano, Torino 1954; G. Quazza, Le riforme in Piemonte nella prima metà del Settecento, Modena 1957. Fra i volumi miscellanei di saggi: Studi su V.A. II, Torino 1933 e Couronne Royale. 300e anniversaire de l’accessione de la Maison de Savoie au trône royal de Sicile, a cura di L. Perrillat, Annecy 2013. A queste opere si rimanda per la bibliografia precedente il 2000, mentre qui si dà conto solo degli studi più rilevanti apparsi successivamente. Sulla formazione negli anni giovanili: A. Merlotti, L’educazione di V.A. II di Savoia, in L’institution du prince au XVIIIe siècle, a cura di G. Luciani - C. Volpilhac-Auger, Ferney-Voltaire 2003, pp. 115-122; A. Cont, Sotto tutela: il sovrano bambino in Italia (1659-1714), in Rivista storica italiana, CCXIV (2012), pp. 537-581. Sui rapporti con la madre e i suoi principali ministri (Simiana di Pianezza, Chabod de Saint Maurice e Valperga di Masino) e con Giovanna da Verrua e con le figlie (Maria Gabriella e Maria Adelaide) si veda la bibliografia nelle rispettive voci nel Dizionario biografico degli Italiani. Sulle nozze, M.T. Reineri, Anna Maria d’Orléans. Regina di Sardegna, duchessa di Savoia, Torino 2017. Sulla corte e le residenze: A. Merlotti, Una corte itinerante. Tempi e luoghi della corte sabauda da V.A. II a Carlo Alberto (1713-1831), in Architettura e città negli Stati sabaudi, a cura di F. De Pieri - E. Piccoli, Macerata 2012, pp. 59-83; i saggi raccolti in Le strategie dell’apparenza. Cerimoniali, politica e società alla corte dei Savoia in età moderna, a cura di P. Bianchi - A. Merlotti, Torino 2010; A. Merlotti, La corte di V.A. II dal ducato al regno, in Couronne royale, cit., 2013, pp. 151-167. Sulla politica militare e diplomatica: C. Storrs, War, diplomacy and the rise of Savoy, 1690-1720, Cambridge 1999; P. Bianchi, Onore e mestiere. Le riforme militari nel Piemonte del Settecento, Torino 2002; i saggi raccolti in Torino 1706. Dalla storia al mito, dal mito alla storia, a cura di D. Balani - S.A. Benedetto, Torino 2006; 1706. L’ascesa del Piemonte verso il Regno, a cura di W. Barberis, Torino 2007; Torino 1706: memorie e attualità dell’assedio di Torino del 1706 tra spirito europeo e identità regionale, a cura di G. Mola di Nomaglio - R. Sandri Giachino - G. Melano, Torino 2007; Utrecht 1713. I trattati che aprirono le porte d’Italia ai Savoia, a cura di G. Mola di Nomaglio - G. Melano, Torino 2014; P. Bianchi, Savoyard representatives in Utrecht. Political-aristocratic networks and the diplomatic modernisation of the State, in New worlds? Transformations in the culture of international relations around the Peace of Utrecht, a cura di A. Crespo Solana - I. Schmidt-Voges, Londra 2017, pp. 96-112. Sull’incoronazione del 1713: E. Wunsche-Werdehausen, «La felicità in trono»: l’entrata di Vittorio Amedeo II a Palermo, in ARTES, XIII (2005-2007), pp. 361-388; T. Ricardi di Netro, Il duca diventa re. Cerimonie di corte per l’assunzione del titolo regio (1713-1714), in Le strategie dell’apparenza, 2010, pp. 133-146. Sul ruolo del sovrano nelle vicende del 1720: A. Girgenti, V.A. II e la cessione della Sardegna. Trattative diplomatiche e scelte politiche, in Studi storici, XXXV (1994), pp. 677-704. Sulle riforme amedeane hanno rinnovato la tradizionale lettura storiografica: M.T. Silvestrini, La politica della religione. Il governo ecclesiastico nello Stato sabaudo del XVIII secolo, Firenze 1997; A. Merlotti, L’enigma delle nobiltà. Stato e ceti dirigenti nel Piemonte del Settecento, Firenze 2000. Per un quadro complessivo sul riformismo amedeano e sulle trasformazioni che portarono all’assetto urbano di Torino, G. Symcox, La trasformazione dello Stato e il riflesso nella capitale, in Storia di Torino, IV, La città fra crisi e ripresa (1630-1730), a cura di G. Ricuperati, Torino 2002, pp. 719-867.