VITTORIA Farnese, duchessa di Urbino
VITTORIA Farnese, duchessa di Urbino. – Nacque nel 1519 nello Stato di Castro, primogenita di Pier Luigi e di Girolama Orsini, seguita da Alessandro, Ottavio, Ranuccio e Orazio.
In assenza del padre, sempre impegnato in imprese militari, venne cresciuta a Gradoli dalla madre, che le diede una compiuta educazione.
Importante pedina delle strategie matrimoniali del casato, Vittoria fu presto al centro di ambiziosi progetti. Il fratello cardinale Alessandro e il nonno Paolo III, registi dei vari infruttuosi tentativi, si rivolsero a membri della famiglia reale francese, a Cosimo de’ Medici, Fabrizio Colonna, Emanuele Filiberto di Savoia, e nel 1539, dopo la morte dell’imperatrice Isabella, non esitarono a proporla a Carlo V. Intanto la giovane aveva raggiunto la non tenera età di ventotto anni e Girolama confidava a Pier Luigi che «piagne che s’amaza: perche li propongono uno, come lei è contenta de quello, par che la mala vintura si pari nanzi, se penza un altro, e sopra de questi li si piglia gran fastidio» (Rossi Parisi, 1927, p. 22). La morte di Giulia da Varano (18 febbraio 1547), che aveva portato in dote il Ducato di Camerino, lasciando vedovo Guidubaldo II Della Rovere, duca di Urbino, apriva le porte a più concreti negoziati, condotti dai cardinali Alessandro ed Ercole Gonzaga. L’unione soddisfaceva le due parti: da un canto, il matrimonio con la nipote del papa regnante rafforzava il fragile potere ducale; dall’altro, l’alleanza con il duca, vicario in temporalibus della S. Sede, al governo di un territorio strategicamente importante e in possesso del feudo di Sora nel Regno di Napoli, dagli estesi legami parentali con altre dinastie della penisola, consentiva ai Farnese di coinvolgerlo nei loro disegni politici e di sanare definitivamente la vessata questione di Camerino, sottratta ai Varano a favore di Ottavio Farnese. Vittoria portava una dote di 60.000 ducati oltre a 20.000 in gioie, oro e argento. Le nozze vennero celebrate in Vaticano nella Sala di Costantino il 29 giugno 1547, assente lo sposo, impegnato al servizio di Venezia.
L’agente urbinate a Roma, il 29 luglio 1547, esaltò la vita virtuosa di Vittoria: «lontana da’ la superbia, da’ l’ardire, et ambitione, dàl capriccio, dàl dispettoso e ritroso [...] che non si ricordarà mai d’essere stata se non umilissima donna: riservata, devotissima, elemosiniera, vive con la madre le sue donne e pochissima famiglia», dedita a pratiche devozionali e digiuni e «legge le meditazioni et l’uno et l’altro testamento volgari o libri simili» (Miretti, 2008, pp. 769 s.). Il suo carattere fu del resto apprezzato anche in famiglia se il cardinale Alessandro, alla morte di Paolo III, le raccomandò i fratelli, i quali senza la sua guida «fra loro sanmazeranno» (Fragnito, 2013, p. 21).
Nelle more del suo trasferimento a Urbino, dove sarebbe giunta il 30 gennaio 1548 accolta da fastosi festeggiamenti e da magnifici apparati allestiti da Bartolomeo Genga, diede prova delle sue capacità diplomatiche ottenendo da Paolo III la nomina in pectore di Giulio Feltrio, fratello del duca, creato cardinale il 9 gennaio 1548, e l’investitura perpetua di tutto il territorio ducale per Guidubaldo e i suoi discendenti maschi.
Dall’unione nacquero Francesco Maria (20 febbraio 1549), Isabella (1° agosto 1554), Lavinia Feltria (16 gennaio 1558) e Beatrice e Leonora, morte nella prima infanzia. Molto affettuosa, Vittoria allevò insieme ai propri figli la prole illegittima dei fratelli – Clelia, figlia del cardinale Alessandro, e Lavinia, figlia di Ottavio –, nonché quella dei Della Rovere, prendendosi cura di Ippolito e Giuliano, figli del cardinale Giulio.
Premurosa educatrice, fu anche «intendentissima di cose di Stado», come riferivano gli oratori veneziani, e «sempre havuta per rara signora et amata molto» da Paolo III (Miretti, 2008, p. 770), non senza benefici per il Ducato. Con un marito irruento, sospettoso, non particolarmente dotato nell’arte di governo, circondatosi di inaffidabili quanto influenti consiglieri impegnati a creare tensioni con la moglie e con il figlio Francesco Maria, di spie e di delatori, svolse un’accorta, quanto spesso vana, opera di mediazione, in cui si avvalse costantemente della complicità del cognato cardinale. Grata dell’aiuto, poiché «sa dio quanto obbligo Le tengo e se l’adoro in terra per mio Dio» (p. 776), gli confidava che «questo suo fratello me cava di cervello» (p. 773). Talvolta le pressioni di Vittoria furono fruttuose: nel 1569 il cardinale cedette a Francesco Maria il Ducato di Sora, che fu poi venduto nel 1579 per 100.000 scudi a Giacomo Boncompagni, consentendo al duca di sanare parte dei debiti lasciati dal padre alla morte nell’ottobre del 1574.
Abile nel rafforzare l’alleanza filoasburgica del Ducato, Vittoria dimostrò grandi capacità sul piano interno governando Gradara affidatale da Guidubaldo nel 1550, ottenendo una serie di sgravi fiscali per i suoi sudditi e garantendone una certa autonomia. Capacità che seppe esercitare diffondendo la produzione serica nel Ducato. Se nel 1562 riuscì a placare la ribellione di Gubbio, meno abile si rivelò nel sedare la rivolta di Urbino (1572-73), sollevatasi contro il trasferimento della capitale a Pesaro, voluto da Guidubaldo, causa di profonda decadenza della città, per giunta subissata da imposizioni fiscali. Le sue speranze di risolvere pacificamente la controversia si arenarono di fronte alla brutale repressione di Guidubaldo che fece decapitare molti dei ribelli.
Francesco Maria, succedendo al padre, dovette misurarsi con una madre ingombrante se Ottavio, pur non lesinando mai il suo sostegno economico alla sorella in continue difficoltà, si lamentava con lui dell’eccessivo spazio lasciatole e consigliò a Vittoria «de lasiar el governo e far le cose che se adatano» a una donna (De Rosa, 2004, p. 17). Se nella gestione dello Stato il figlio si rivelò un principe accorto, intento al risanamento delle finanze pubbliche, alla riduzione della tassazione dei sudditi e delle spese di corte, al rigore della giustizia, alla promozione dell’industria e di istituzioni caritativo-assistenziali, in famiglia creò non pochi dissidi, inducendo Vittoria «stracca di questo mondo» a scrivere al cardinale Alessandro di desiderare di morire accanto a lui (18 luglio 1581, Archivio di Stato di Parma, Carteggio Farnesiano Estero, Roma, b. 489). Tra i principali la corresponsione della dote a Lavinia, sulla quale Vittoria intervenne, come scrisse a Ottavio il 27 gennaio 1583, tentando «come matre di farli raveder e li ho ora per nemici ambo doi» (De Rosa, 2004, p. 20). A quella data, dopo vari tentativi di accasarla con Giacomo Boncompagni, nipote di Gregorio XIII, cui si adoperò Vittoria mentre era a Roma per il giubileo del 1575, e con Pietro de’ Medici, si avvicinava il matrimonio (5 giugno 1583) con Alfonso Felice d’Avalos cui portò una dote di 80.000 scudi. A luglio del 1582 Vittoria andò a Parma, dove si trattenne quattro mesi per essere vicina a Margherita Farnese nelle traversie create dalla mancata consumazione del matrimonio con Vincenzo Gonzaga.
Nel mentre i dissapori con il figlio raggiunsero tali livelli che il 12 giugno 1584 Vittoria lasciò il Ducato per tornarvi solo il 30 marzo 1588, soggiornando tra Caprarola, Gradoli, Viterbo e Capodimonte, da dove pregava il fratello cardinale di non abbandonarla «che non posso negarle di ritrovarme in molto travaglio per che li guai miei son molto maggiore di quel che pare» (4 ottobre 1584, Archivio di Stato di Parma, Carteggio Farnesiano Estero, Roma, b. 498). È probabile alludesse ai cattivi rapporti con la figlia Lavinia, alla fallita unione del figlio con Lucrezia d’Este, quindici anni più anziana di lui e sterile, e alle traversie coniugali dell’amatissima figlia Isabella, andata sposa nel 1565 a Bernardino Sanseverino principe di Bisignano. Uomo squilibrato, oberato di debiti, costrinse la maltrattata moglie a rifugiarsi spesso presso i suoi. Neppure la nascita di un figlio nel 1581, alla presenza di un commissario inviato dal viceré per accertarsi che non fosse un parto supposito, pose termine alle sue pazzie. A sostenere Vittoria nelle sue tribolazioni l’affetto del fratello Alessandro, di cui auspicò nel 1585 l’ascesa al papato, e la frequente presenza delle nipoti Lavinia e Clelia, al cui matrimonio con Marco Pio a Caprarola presenziò il 2 agosto 1587.
Trascorse gli ultimi anni della sua vita a Pesaro, afflitta da problemi di salute. Dal fitto carteggio intrattenuto con il figlio fino alla vigilia della morte i loro rapporti appaiono finalmente sereni e i suoi interventi nel governo del Ducato sempre più rari.
Morì a ottantatré anni, il 13 dicembre 1602, a Pesaro e fu sepolta nella chiesa delle suore del Corpus Domini.
Dedicataria di molte opere in versi e in prosa, la duchessa nutrì una religiosità tutt’altro che convenzionale, alimentata da un forte interesse per la Bibbia, che induceva Laura Battiferri a indirizzarle I sette salmi penitentiali e Antonio Brucioli delle rime sacre, e dovette avere posizioni dottrinalmente ambigue se le fu destinata un’anonima traduzione italiana dell’erasmiana Institutio christiani matrimonii che sosteneva la superiorità del matrimonio sul celibato.
Indubbiamente dotata di una forte personalità e di abilità mediatrici, Vittoria è una figura contraddittoria. Se seppe guadagnarsi l’affetto dei sudditi, la sua eccessiva ingerenza in ambito familiare, nonché pubblico, non mancò di crearle aspre inimicizie, che la costrinsero ad assentarsi per lunghi periodi dal Ducato, venendo meno ai suoi doveri di sovrana. Di lei rimangono un ritratto attribuito a Tiziano al Museo di belle arti di Budapest e uno di Camilla Guerrieri ai Musei civici di Pesaro.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Parma, Carteggio Farnesiano Estero, Roma, bb. 480, 487-489, 493-494, 496, 498-502; Città del Vaticano, Biblioteca apostolica Vaticana, Urb. lat. 1044, 1047-1055, Avvisi di Roma; Archivio di Stato di Firenze, Ducato di Urbino, cl. I, filza 109.
A. Vernarecci, Lavinia Feltria Della Rovere, marchesa del Vasto da documenti inediti, Fossombrone 1924, passim; M. Rossi Parisi, V. F. duchessa di Urbino, Modena 1927; Francesco Maria II Della Rovere, Diario, a cura di F. Sangiorgi, Urbino 1989, passim; M. Frettoni, Della Rovere, Lavinia Feltria, in Dizionario biografico degli Italiani, XXXVII, Roma 1989, pp. 358-360; R. De Rosa, Il carteggio di V. F. della Rovere con i duchi di Parma, in Pesaro, città e contà, 2004, n. 19, pp. 7-26; M. Miretti, V. F.: vita pubblica e privata, in Donne di palazzo nelle corti europee. Tracce e forme di potere dall’età moderna, a cura di A. Giallongo, Milano 2005, pp. 149-157; Ead., “Victoria Pulchrior”. Trionfi, feste e apparati per l’ingresso di V. F. a Urbino il 30 gennaio 1548, in Dai cantieri della storia. Liber amicorum per Paolo Prodi, a cura di G.P. Brizzi - G. Olmi, Bologna 2007, pp. 417-424; Ead., Mediazioni, carteggi, clientele di V. F., duchessa di Urbino, in Donne di potere nel Rinascimento, a cura di L. Arcangeli - S. Peyronel, Roma 2008, pp. 765-784; G. Fragnito, Storia di Clelia Farnese. Amori, potere, violenza nella Roma della Controriforma, Bologna 2013, passim.