VITTORIA Della Rovere, granduchessa di Toscana
VITTORIA Della Rovere, granduchessa di Toscana. – Nacque a Pesaro il 7 febbraio 1622, unica figlia del duca di Urbino, Federico Ubaldo Della Rovere, e di Claudia de’ Medici, ultimogenita del granduca di Toscana Ferdinando I e di Cristina di Lorena.
Con lei si estinse la discendenza dei Della Rovere, duchi di Urbino. Alla morte del padre, avvenuta improvvisamente il 28 giugno 1623, quando la piccola Vittoria aveva appena un anno d’età, la madre dapprima fece ritorno a Firenze e poi si risposò (1626) con l’arciduca Leopoldo V d’Austria, reggente del Tirolo e fratello minore dell’imperatore Ferdinando II d’Asburgo, lasciando la figlia alle cure della zia Maria Maddalena d’Austria e della nonna Cristina di Lorena, vedove rispettivamente dei granduchi Cosimo II e Ferdinando I, all’epoca reggenti del trono granducale e tutrici del futuro granduca Ferdinando II, ancora minorenne.
Già nel settembre del 1623 era stato fissato il fidanzamento tra Ferdinando, allora tredicenne, e la piccola Vittoria, in previsione delle nozze tra i due, cugini di primo grado, al compimento della maggiore età. Il patto dinastico fu suggellato da un fastoso, secondo battesimo fiorentino della bambina, celebrato nel battistero di S. Giovanni il 25 ottobre 1623. Vittoria fu affidata alle cure delle monache della Crocetta, monastero dove ebbe a disposizione un appartamento adeguato al suo rango e provvisto anche di giardini. Qui risiedette stabilmente assieme alla madre fino al luglio del 1626 – quando quest’ultima lasciò Firenze a seguito del suo secondo matrimonio, senza poi rivedere più la figlia –, con soggiorni però anche presso la reggia di Pitti e uscite in occasione di feste e celebrazioni importanti.
Dopo questa data, come stabilito nel patto dinastico sottoscritto nel 1623, la sua educazione fu seguita dalle due reggenti, secondo un’impostazione di impronta fortemente religiosa. Si trattò tuttavia di un’educazione assai accurata, tutta in preparazione del suo ruolo predestinato di granduchessa, che contemplò un ventaglio ampio di letture e l’apprendimento delle lingue: oltre al latino, lo spagnolo e anche il francese (questo tuttavia in anni più tardi, e probabilmente da mettere in rapporto con i progetti matrimoniali per il primogenito Cosimo). Manifestò un’intelligenza precoce e una buona capacità di apprendimento, tanto da essere già a sei anni in grado di scrivere lettere di suo pugno.
L’archivio mediceo e quello urbinate contengono molte testimonianze in questo senso. Nel dicembre del 1630, per esempio, la madre Claudia si complimentava con Vittoria per la lettera da lei ricevuta, non solo scritta di suo pugno, ma anche di sua composizione (Archivio di Stato di Firenze, Mediceo del Principato, 6146, c. 71).
Tuttavia, più che con la madre, Vittoria mantenne sempre un rapporto di grande reciproco affetto con la nonna paterna, Livia Della Rovere, che avrebbe rivisto per breve tempo solo in occasione delle nozze, nel 1637, ma che lasciò alla morte la nipote erede di tutti i suoi consistenti beni.
Frattanto, il nonno di Vittoria, duca Francesco Maria II Della Rovere, che dopo avere abdicato a favore del figlio Federico Ubaldo nel 1621 era stato costretto, a seguito della morte di questi, a riprendere in mano il Ducato, rassegnato ormai all‘estinzione della casata, aveva sottoscritto (20 dicembre 1624) la devoluzione di tutti i feudi rovereschi al papa Urbano VIII. La devoluzione sarebbe divenuta esecutiva alla morte del duca, avvenuta nella residenza di Casteldurante il 23 aprile 1631. Naufragava così la speranza dei governanti toscani di poter entrare, tramite il matrimonio combinato tra Vittoria e Ferdinando, in possesso del Ducato di Urbino. Un evento che avrebbe coronato il sogno di uno Stato mediceo che tagliasse strategicamente l’Italia centrale, dal Tirreno all’Adriatico, ma inaccettabile per il pontefice Urbano VIII, che si affrettò a far valere con energia e intransigenza i suoi diritti su Urbino (il cui duca era vicario in temporalibus della S. Sede, con successione solo in via maschile), incamerandolo così nello Stato della Chiesa. Allo stesso tempo, si rivelava inutile la mossa del duca Francesco Maria II Della Rovere, che aveva scelto, fin dal progetto matrimoniale dell’unico figlio Federico Ubaldo con Claudia de’ Medici (1608-1609, poi concluso con le nozze celebrate nel 1621), di ‘appoggiare’ le speranze di sopravvivenza del suo Stato sul più potente Granducato di Toscana, confidando «nell’interesse del comune benefitio et conservatione et di potere con li Stati l’un dell’altro tendere da un mare all’altro» (cit. in Miretti, in Le donne Medici..., 2008, p. 314). Alla luce di queste contingenze, si può affermare che Vittoria suo malgrado si trovò, fin dalla nascita, al centro di un complicato gioco politico-dinastico al quale non poteva in alcun modo sfuggire.
L’ultima Della Rovere portò in dote alla dinastia toscana i beni allodiali di famiglia, comprendenti palazzi, terre e le inestimabili raccolte d’arte, che annoveravano capolavori di Tiziano, Raffaello e Piero della Francesca (visibili oggi in gran parte agli Uffizi), e di gioielli, e anche l’archivio di governo urbinate, che, giunto a Firenze come le collezioni d’arte alla morte di Francesco Maria II Della Rovere, nel 1631 (ma buona parte dei beni artistici rovereschi era già stata trasferita a Firenze addirittura prima del decesso dell’ultimo duca di Urbino, nel timore che potessero essere poi tolti a Vittoria e incamerati dal papa), fu inserito tra gli archivi della dinastia medicea ed è oggi conservato presso l’Archivio di Stato di Firenze. Vittoria, se non poté portare in dote ai Medici il Ducato, portò il ricchissimo patrimonio dei Della Rovere (stimato all’epoca in circa due milioni di scudi), insieme alla loro eredità culturale. Di questa, restò sempre orgogliosa depositaria, come mostra simbolicamente il circondarsi nei propri appartamenti fiorentini di ritratti di antenati appartenenti alla dinastia.
Il matrimonio tra Ferdinando II de’ Medici (divenuto granduca al compimento del diciottesimo anno d’età, nel 1628) e Vittoria, avvenuto in modo privato il 2 agosto 1634, soprattutto per compiacere il desiderio dell’ormai anziana nonna Cristina, fu celebrato in modo ufficiale tre anni più tardi, il 6 aprile 1637, nella chiesa di S. Maria del Fiore.
Queste nozze sancirono in modo visibile un ridimensionamento della grande diplomazia medicea, che aveva fino ad allora portato a unioni matrimoniali con le casate reali di Francia e con gli Asburgo, in un riuscito sforzo di legittimazione internazionale dell’ancor giovane dinastia. La scelta dell’ultima discendente di una piccola dinastia italiana fu però probabilmente anche il risultato, oltre che di un indubbio ridimensionamento di orizzonti del Granducato negli anni della Reggenza, di una scelta prudente, mentre in Europa divampava la guerra dei Trent’anni, oltre che del contrasto fra le due reggenti, l’una – Maria Maddalena d’Austria – sostenitrice di una rinnovata unione con gli Asburgo, l’altra – Cristina di Lorena – favorevole invece a rinsaldare i legami con la corte e la nobiltà di Francia.
Se questa unione costituì un insuccesso sul piano politico-diplomatico, si rivelò tutt’altro che felice anche su quello dei rapporti personali e familiari. I due sposi erano infatti assai diversi per indole, carattere, idee ed educazione, e dopo la nascita del primogenito Cosimo (il futuro Cosimo III) il 14 agosto 1642, essi vissero di fatto a lungo separati e solo diciotto anni più tardi, nel 1660, venne alla luce il secondogenito Francesco Maria, del quale Vittoria ebbe la tutela dalla morte del marito fino al raggiungimento della maggiore età.
Durante i difficili anni di governo di Ferdinando II (1621-70), contraddistinti da un accentuarsi della crisi ormai irreversibile dell’economia cittadina e da un incremento delle difficoltà finanziarie dello Stato granducale, di fronte a cui si cercò di reagire attraverso una politica economica di sostegno della manifattura e di riduzione della spesa (nel 1646 il granduca dismise la maggior parte della dispendiosa flotta da guerra toscana), nonché, sul piano internazionale, attraverso una linea di equidistanza tra Spagna e Francia, Vittoria fu tenuta completamente al di fuori dei maneggi politici e diplomatici. Ebbe però un ruolo importante nell’educazione dei figli, e in particolare del primogenito Cosimo. Anche se, sotto la guida di personaggi come Carlo Dati e Lorenzo Magalotti, non furono trascurate, nell’istruzione di Cosimo, le correnti più valide della cultura scientifica toscana seicentesca, come pure la conoscenza delle lingue e della geografia, la grande religiosità della madre, in particolare negli anni dell’infanzia, portò a un’accentuazione delle pratiche devote e dello studio di testi religiosi, che lasciarono una forte impronta nella sua personalità. Sul primogenito Vittoria conservò una forte influenza anche dopo la sua ascesa al trono granducale, nel 1670, influenza che si tradusse nel recupero di un ruolo politico importante. A lei fu affidata infatti la presidenza della Regia Consulta, supremo consiglio del granduca in materia di grazia e giustizia, che mantenne fino alla morte (1694).
A partire dall’iniziale, reciproca, incomprensione ebbe costantemente un pessimo rapporto con la nuora francese, Margherita Luisa d’Orléans, sposata da Cosimo nel 1661, in linea d’altronde con l’incomprensione creatasi subito tra i due coniugi, fino al clamoroso ritorno in Francia della granduchessa, nel 1675. Uno degli elementi essenziali dell’avversione di Margherita Luisa per Firenze fu rappresentato proprio dall’atmosfera, per lei insopportabilmente angusta, formale e bigotta, impressa alla corte medicea dalla granduchessa madre. È stato tuttavia più volte rilevato come in Vittoria, alla cura per la religione e alla rigidità in fatto di costumi, si accompagnasse un carattere incline allo sfarzo, agli spettacoli, agli arredi preziosi e raffinati secondo le ultime mode. Non trascurava gli interessi letterari; fu anche patrona di un’accademia letteraria di donne istituita a Siena nel 1654 (Le Assicurate, con emblema la rovere), e protesse eruditi e letterati, come Benedetto Menzini, il medico di corte Andrea Moniglia e la poetessa Selvaggia Borghini, spesso ospitata a Pitti per intrattenere con la sua conversazione le dame di corte. Indicativa dei molteplici interessi di lettura di Vittoria, tutt’altro che limitati a testi religiosi e devozionali, ma «eclettici e aggiornati», è la sua biblioteca, della quale disponiamo di un catalogo, redatto dopo la morte della granduchessa dal bibliotecario granducale Anton Francesco Marmi (Paoli, 2008, pp. 112-116, 143).
Malgrado abbia pesato su Vittoria per lungo tempo il sommario giudizio negativo degli storici che, a partire dal Settecento lorenese (Riguccio Galluzzi), le hanno attribuito (come alle due altre granduchesse che avevano avuto un ruolo politico e di governo nel corso del Seicento, Cristina di Lorena e Maria Maddalena d’Austria) una primaria responsabilità nell’accentuarsi della crisi e della decadenza dello Stato e della società toscana, nuove e più approfondite ricerche sulla cospicua documentazione d’archivio conservatasi hanno condotto a una più articolata e fondata valutazione sulla persona e sul suo operato come granduchessa sposa e madre. Così, lo studio approfondito della sua monumentale corrispondenza ha permesso di mettere in luce il rilevante ruolo da lei avuto, a livello internazionale, di mediazione in conflitti matrimoniali, familiari e patrimoniali che coinvolgevano donne di famiglie nobili delle corti europee (Benadusi, in Le donne Medici, 2008; Ead., 2015). In pari tempo, le ricerche in ambito storico-artistico ne hanno evidenziato la grande passione e originale competenza nel campo del collezionismo, e l’intelligente mecenatismo esercitato durante tutta la sua vita (Spinelli, 1997, p. 195).
Dopo le prime prove di committenza artistica nel corso dei lavori di rinnovamento della reggia di Pitti in occasione delle nozze con Ferdinando II, per le cui decorazioni di interni furono fatti venire a Firenze Pietro da Cortona e i bolognesi Agostino Mitelli e Angelo Michele Colonna, fu soprattutto nei successivi interventi nella prediletta villa del Poggio Imperiale – anche precedentemente all’acquisizione diretta da parte di Vittoria dell’immobile dal marito granduca nel 1659 – che il suo personale gusto artistico si andò affinando e applicando a tutto tondo. Oltre ad arredare la residenza con mobili e oggetti preziosi, in parte provenienti dalle sue eredità urbinati, la granduchessa vi realizzò fin dagli anni Cinquanta importanti committenze affidate a pittori da lei prediletti: Baldassarre Franceschini, detto il Volterrano – cui nel 1658 commissionò anche i cinque grandi affreschi della sala delle Allegorie nel suo appartamento invernale di Pitti, che vide in anni successivi i massicci interventi decorativi del pittore ‘prospettico’ Iacopo Chiavistelli e della sua bottega – e il fiammingo Justus Suttermans, autore lungo tutto l’arco della vita di Vittoria di una straordinaria successione di suoi ritratti. Fu però successivamente alla morte del marito granduca nel 1670 – e soprattutto dal 1680, quando la villa divenne residenza abituale di Vittoria – che ella vi intraprese gli interventi più importanti, a partire dall’ampliamento dell’immobile con la costruzione di una nuova ala su due piani, affrescata dal romano Francesco Corallo, la realizzazione di nuovi giardini e il completo rinnovamento delle decorazioni interne e degli arredi, trasformando il relativamente semplice e contenuto assetto conferitogli da Maria Maddalena d’Austria «in una fastosa reggia tardo-barocca» (Spinelli, in Fasto di corte, 2007, p. 28).
Vittoria ebbe anche un suo appartamento personale nella villa medicea di Castello, una delle residenze suburbane preferite dal figlio granduca, sul quale intervenne, fino agli anni immediatamente precedenti la morte, commissionando, come per l’oratorio interno della villa, decori e arredi, in particolare al pittore Alessandro Gherardini.
La committenza di Vittoria ebbe un’altra significativa espressione a villa La Quiete, già prescelta come sede di ‘villeggiatura religiosa’ dalla granduchessa Cristina di Lorena, che la destinò alle donne di casa Medici, e nel 1657 acquisita da Eleonora Ramirez de Montalvo come sede della congregazione di educandato laico da lei creata e riservata alle fanciulle nobili fiorentine. Vittoria, che si volle identificare nei principi di purezza spirituale e castità propri delle montalve, sintetizzati anche nel suo motto personale, «Dos in Candore», dopo la morte della fondatrice (1659) ne assunse il ruolo di madrina e sostenitrice, accordando poi ufficialmente a questa famiglia religiosa la sua protezione nel 1680. Un sostegno anche economico, che consentì la ristrutturazione e ampliamento dell’edificio, con la costruzione di una nuova chiesa, e uno spettacolare arricchimento della decorazione interna e degli arredi. L’attenzione di Vittoria fu decisiva per il successo dell’istituto presso le famiglie della nobiltà fiorentina, che vi inviavano sempre più le loro figlie per esservi educate, incrementandone, in aggiunta alla committenza medicea, il corredo con donazioni di arredi, paramenti, oggetti liturgici preziosi, dipinti.
A ricordo della munificenza della granduchessa nei loro confronti, le montalve commissionarono dopo la sua morte a Giovan Battista Foggini una magnifica ‘memoria funebre’ con al centro il busto di Vittoria in vesti di priora dell’Ordine realizzato in marmo bianco, significativamente collocata nella stessa navata della nuova chiesa, in posizione simmetrica rispetto alla tomba della fondatrice.
Un suo ultimo ritratto, da lei commissionato attorno al 1680 a un artista al quale era sempre stata particolarmente vicina, Carlo Dolci, ce la mostra, ormai anziana, finalmente senza ricorrere ad alcuna delle numerose allegorie o trasfigurazioni (eroina mitologica, santa, perfino Vergine madre) che avevano caratterizzato la ritrattistica precedente, in severe vesti vedovili entro il cui nero «si ritaglia il volto, di un pallore lattiginoso, marmoreo e funereo al tempo stesso, anticipatore delle cere dello Zumbo» (Serafini, in L’altra metà del cielo, 2014, p. 180).
Morì a Pisa nella notte tra il 5 e il 6 marzo 1694, e il figlio Cosimo III, che aveva sempre mostrato per lei grande deferenza e affetto, le fece tributare in S. Lorenzo solenni e fastose onoranze funebri, cui presero parte la corte, il clero e la popolazione di Firenze.
A quest’ultimo riguardo lo storico settecentesco Riguccio Galluzzi (1781), il cui duro giudizio sul carattere di Vittoria si condensa in quattro parole: «orgoglio, vanità, bigottismo e intolleranza», non manca di osservare che «il pubblico [...] non mostrò sentimento alcuno di questa perdita» (VII, p. 152).
Con il suo testamento del 9 novembre 1676, lasciò erede di tutti i suoi beni urbinati, marchigiani e romagnoli il suo secondogenito, cardinale Francesco Maria, che anche nel nome di battesimo riecheggiava l’illustre discendenza materna.
Fonti e Bibl.: La fonte documentaria principale per Vittoria Della Rovere è costituita dai fondi medicei dell’Archivio di Stato di Firenze, e particolarmente dall’archivio Mediceo del principato, all’interno del quale la serie a lei intestata è di gran lunga la più cospicua (oltre 150 grandi volumi e filze, dal n. 6129 al 6263), tra quelle dedicate alle principesse e granduchesse Medici (oltre al Mediceo, anche la Miscellanea medicea e il fondo Ducato di Urbino). Un censimento di lettere e altri documenti attinenti a Vittoria Della Rovere nei fondi dell’Archivio di Stato di Firenze è stato effettuato da G. Arrivo, in Carte di donne. Per un censimento regionale della scrittura delle donne dal XVI al XX secolo, a cura di A. Contini - A. Scattigno, Roma 2007, pp. 361-376.
R. Galluzzi, Istoria del granducato di Toscana sotto il governo della casa Medici, I-VIII, Livorno 1781, VI, pp. 292-294, VII, pp. 152 s.; G. Pieraccini, La stirpe de’ Medici di Cafaggiolo, II, Firenze 1947, pp. 505-520; L. Rossi Nissim, V. della R., in Donne di casa Medici, Firenze 1968, pp. 115-137; I. Cotta Stumpo, Ferdinando II de’ Medici, granduca di Toscana, in Dizionario biografico degli Italiani, XLVI, Roma 1996, pp. 278-283; R. Spinelli, V. della R. (1622-1695), in Il giardino del granduca. Natura morta nelle collezioni medicee, a cura di M. Chiarini, Torino 1997, pp. 155-203; Villa La Quiete. Il patrimonio artistico del Conservatorio delle montalve, a cura di C. De Benedictis, Firenze 1997, pp. 114-119 (schede di R. Roani Villani); I. Pagliai, Luci ed ombre di un personaggio: le lettere di Cristina di Lorena sul ‘negozio’ di Urbino, in Per lettera, a cura di G. Zarri, Roma 1999, pp. 441-466; Fasto di corte, a cura di M. Gregori, II, Firenze 2006 (in partic. N. Bastogi, Ferdinando II: equilibrio politico e grande mecenatismo culturale, pp. 37-40; R. Spinelli, Vittoria, principessa di Urbino, granduchessa di Toscana, pp. 145-150; M.C. Fabbri, La sala delle Allegorie a Palazzo Pitti, pp. 151-166), III, 2007 (in partic. R. Spinelli, Vittoria della Rovere (1670-1694), pp. 9-49); M.P. Paoli, Di madre in figlio: per una storia dell’educazione alla corte dei Medici, in Annali di storia di Firenze, III (2008), pp. 65-145; Le donne Medici nel sistema europeo delle corti. XVI-XVIII secolo, a cura di G. Calvi - R. Spinelli, I, Firenze 2008 (in partic. M. Miretti, Dal ducato di Urbino al granducato di Toscana. V. della R. e la devoluzione del patrimonio, pp. 313-326; G. Benadusi, Carteggi e negozi della granduchessa V. della R., pp. 415-431); L’altra metà del cielo. Sante e devozione privata nelle grandi famiglie fiorentine nei secoli XVII-XIX, a cura di F. Fiorelli Malesci, Livorno 2014 (in partic. A. Grassi, Quattro donne per una villa. Testimonianze artistiche e spirituali di Cristina di Lorena, Eleonora Ramirez di Montalvo, V. della R. ed Anna Maria Luisa de’ Medici alla Quiete, pp. 161-172; G. Serafini, “Dos in candore”: dal motto della granduchessa V. della R. innocenza e purezza nella spiritualità e nell’arte di villa La Quiete, pp. 173-188); G. Benadusi, The gender politics of V. della R., in Medici women. The making of the dynasty in Grand Ducal Tuscany, a cura di G. Benadusi - J.C. Brown, Toronto 2015, pp. 265-301.