CORRER, Vittore
Figlio di Paolo (1577-1609) di Vittore (1534-1595) e di Lucrezia di Antonio di Marin Pesaro, nacque a Venezia il 23 marzo 1605. Il 26 luglio 1632 si sposò con Istriana di Girolamo di Vincenzo Morosini, da cui ebbe un unico figlio maschio, Paolo. Nel maggio del 1633 pose la sua candidatura a camerlengo di Comun, ma non ottenne il quoziente di voti richiesto per l'elezione. Nel 1636 succedette a Domenico Zen nella carica di podestà di Belluno, ove rimase sino al luglio del 1637.
Appena giunto in città, il C., per ordine del Senato, dovette occuparsi del contrabbando che i mugnai praticavano per evitare il pagamento del dazio sul macinato, ma egli si rese ben presto conto che le biade sottoposte a tale imposizione non erano in grande quantità, in quanto era soprattutto il "sorgo turco" a costituire "il nervo et consumo principale de' grani". Il territorio destinato a coltura era, infatti, assai ridotto in estensione e i prodotti agricoli che esso forniva limitati ed insufficienti ad alimentare la popolazione. I terreni destinati all'aratura, molto difficili da coltivare, dovevano essere continuamente concimati e per tale motivo i contadini dovevano allevare "quantità di bestiami quali stanno sottoposti a mille influssi". Inoltre, per la natura impervia del suolo, essi erano costretti a trasportare la "grassa" nei campi "con le proprie spalle... et a forza de brazzi fare i zappati". Cosicché, quando nel marzo del 1636 il Senato veneziano imponeva un nuovo "campadego" su tutti i territori della Terraferma veneta, il Consiglio bellunese decise di inviare un'ambasceria a Venezia per rappresentare "la qualità de' terreni di questi monti di gran lunga inferiori a quelli del piano". Il C. riceveva però l'ordine di impedire la partenza dell'ambasceria dalla città, la quale decideva allora d'inviare a Venezia una relazione dettagliata del territorio bellunese, descrivendone la scarsa produttività. Nel corso del suo governo il C. fu impegnato nell'istruzione d'un processo relativo ai numerosi tagli di alberi compiuti nel bosco di Alpago dagli abitanti dei paesi circonvicini. Egli appurò che le "taglie erano più di mille, in parte nascoste "sotto le paglie, sotto i fieni, nelle stalle, in le teze et fino sotto i letti de' contadini". Molti degli alberi tagliati erano destinati alla costruzione di remi per imbarcazioni, di cui la Repubblica aveva un estremo bisogno. Il C. procedeva all'arresto del capitano addetto alla sorveglianza del bosco ed accertava la responsabilità di cinquanta contadini che erano intervenuti nel fatto e che, sapendo del suo arrivo, avevano provveduto a coprire "i piedi de' segni vivi tagliati con terra et herbe, sperando non fossero veduti". Impegno assai più arduo il C. incontrò però nel tentativo di placare le opposte fazioni di cittadini e popolari che, durante la sua permanenza in città, si scontrarono ripetutamente, prendendo a pretesto futili motivi, che in realtà nascondevano un'aspra lotta per il predominio nei centri di potere cittadini. Poco prima della sua partenza dalla città, il C. comunicava amareggiato al Senato che alcuni popolari, "per loro vasti pensieri", andavano fomentando lo scontento sia tra quelli del "loro ordine" sia tra altri ancora "d'inferior conditione". I contrasti erano sorti perché il C. aveva permesso che i consoli cittadini - appartenenti all'ordine nobiliare - avessero la precedenza su tutti nell'accompagnamento del rettore durante lo svolgimento delle cerimonie pubbliche. Ciò contrastava con le consuetudini fino allora seguite e alcuni membri del ceto borghese ne approfittarono per sobillare lo scontento del popolo e per chiedere con vigore la possibilità di riunirsi in "sindicato" per esporre le proprie ragioni.
Ritornato a Venezia, nel 1639 veniva eletto podestà di Rovigo. Durante la sua reggenza della podesteria non si verificarono nella città avvenimenti degni di rilievo.
Ebbe, come i suoi predecessori, contrasti di giurisdizione con le podesterie minori limitrofe, soprattutto con Adria e Lendinara. Tra l'altro egli dovette occuparsi della riscossione del dazio della seta, che generalmente veniva affidata in appalto ad alcune persone che si impegnavano, in cambio, di corrispondere un ammontare pattuito di denaro alla Signoria. La somma di 3.000 ducati, da questa pretesa, non aveva però trovato conduttori disposti ad accettare l'appalto del dazio. Il C. suggeriva perciò che la somma richiesta fosse diminuita, poiché, se la riscossione fosse avvenuta direttamente, attraverso la Signoria, il danno che si sarebbe sofferto sarebbe stato "senza paragone molto maggiore". Il C. s'impegnò, inoltre, a riscuotere 117.000 ducati di cui la Camera fiscale della città era creditrice nei confronti didiversi inadempienti, tra i quali era in prima fila la Comunità di Lendinara, il cui debito ascendeva a più di 3.000 ducati.
Ritornato a Venezia, nel 1640 pose la sua candidatura a senatore sia nel Pregadi che nella zonta, ma in entrambi i casi non raggiunse il quoziente di voti richiesto. Nel 1641, dopo la morte della prima moglie, si sposava con Laura di Vincenzo di Giovanni Morosini.
Le vicende del C., a partire da questo momento, possono forse considerarsi emblematiche per definire, da un lato, il comportamento degenerativo di una parte del patriziato veneziano - nell'ambito del quale egli si collocava, per ricchezza e per importanza politica, ad un grado intermedio - e, dall'altro le incertezze e le contraddizioni che caratterizzarono la giustizia veneziana nel sec. XVII, soprattutto nel periodo 1640-1670, che vide la Repubblica impegnata nella dispendiosa guerra di Candia.Nel gennaio del 1642 il C., accompagnato da un suo bravo, uccideva Francesco Fondi, mercante d'olio residente a S. Cassiano. L'omicidio, con aggravanti della premeditazione e dell'appostamento, venne commesso dal C. per motivi di gelosia nei confronti di una donna, che egli aveva amato e che successivamente aveva fatto sposare a un suo servitore.
Il delitto era assai grave anche per quei tempi e denotava l'atteggiamento, assai comune tra i patrizi veneziani, di voler porsi al di sopra delle leggi, in virtù della propria condizione sociale. La pena comminatagli dal Consiglio dei dieci fu assai severa: cinque anni di carcere e la sentenza fu pubblicata in Maggior Consiglio con la motivazione della colpa. Inoltre, una sua richiesta, fatta pervenire al Consiglio dei dieci nel dicembre del 1642, tendente ad ottenere la commutazione della pena del carcere in relegazione, veniva respinta.
Nell'aprile dell'anno seguente il C. ritornava però in libertà ottenendo la "pace" dal padre dell'offeso e riprendeva la attività politica, poiché i precedenti penali non costituivano allora un impedimento giuridico al sostenimento di pubblici incarichi. Nel 1649 e nel 1653 venne eletto senatore. È del 1653 il fatto criminoso che vide il C. e il figlio Paolo tra i protagonisti principali del ferimento di Stefano Marzano, "calegher" a S. Polo.
Il Consiglio dei dieci comminava contro di loro la pena del bando perpetuo, che veniva però subito commutata in quella della relegazione nella fortezza di Marano per due anni. Erano, inoltre, obbligati a versare all'offeso la somma di 200 ducati. Nel settembre del 1654 il C. e il figlio ritornavano in libertà acquistando due "voci liberar bandito" dal capitano delle barche Pietro De Bon, che le aveva ottenute per meriti di servizio.
La consuetudine della compravendita delle "voci", così come quella della concessione della "pace" da parte dell'offeso, non favoriva, di certo, il contenimento delle violenze nobiliari. Tanto è vero che già l'anno seguente ritroviamo il C. sottoposto a giudizio dal Consiglio dei dieci per una serie continua di violenze ed estorsioni compiute nella "villa" di Marcon sotto Mestre.
Tra l'altro egli era accusato d'aver costretto i fratelli Giacomo e Domenico Redondi a stipulare, a suo favore, un contratto di vendita di alcuni loro terreni, per un prezzo assai inferiore al loro valore. Inoltre, imputazione ancor più grave, poco dopo l'inizio del processo, che si andava formando con il rito del Consiglio dei dieci, egli aveva minacciato di morte alcune persone che erano state chiamate a deporre contro di lui. La pena comminata dal Consiglio dei dieci contro il C. fu proporzionata alla gravità della colpa: egli venne bandito perpetuamente da tutti i territori della Repubblica e i suoi beni furono confiscati. Anche questa volta però una "voce liberar bandito", acquistata dal segretario Verdizzotti, gli permise, già l'anno seguente, di ottenere la liberazione dal bando.
Morì a Venezia il 29 genn. 1661.
Possedeva alcune case in Venezia e numerosi terreni siti nel Trevisano, Padovano e Vicentino, acquistati in gran parte dal 1633 al 1655. Nella redecima del 1661 il figlio Paolo avrebbe dichiarato una rendita di 2.105 ducati. Nel testamento del 3 genn. 1661 il C. lasciò erede universale dei suoi beni il figlio Paolo, con condizione che, ritrovandosi egli ad avere due figli maschi di nome Vittore e Todero, venissero destinati al primo i beni e la casa "dominicale" siti in Vigonovo. La primogenitura doveva essere rispettata di figlio in figlio "in infinitum".
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Avog. di Comun, 57, Libro d'oro nascite, VII, c. 86; Avog. di Comun, Contratti di nozze, busta I 17; Senato, Rettori, Belluno Bellunese, filza 7; Senato, Rettori, Rovigo Badia et altri, filza 25; Cons. dei dieci, Criminali, reg. 58, cc. 99-100; reg. 59, cc. 55-56; reg. 70, cc. 113-114, 120-121; reg. 72, cc. 54-56, 92; filza 88; Cons. dei dieci, Comuni, reg. 92, c. 95; reg. 105, c. 156; reg. 104, c. 31; reg. 106, c. 21; filze 566, 571; Testam., busta 693, cc. 176-177; busta 64, fasc. 1, cc. 6-8; Savi alle decime, Condiz. di decima, busta 225, fasc. 668; Venezia, Bibl. del Civico Museo Correr, Mss. Correr, busta 1465, cc. 214-215 in cui si dà un breve profilo biografico del C.; busta 1466, contenente il fascicolo processuale relativo all'uccisione di Francesco Fondi; busta 1480, che fornisce l'indicazione di atti e contratti stipulati dal C.; busta 1481: contratto di nozze del figlio del C. con Laura Balbi; M. Castelli, Il Pellegrino. Idillio dedicato all'illustriss. sig. V. C. …, Belluno 1637; E. Doglioni, Il Core. Ode all'illustriss. sig. V. C. ..., Belluno 1637; A. Filoneri. Alla gloria dell'illustriss. sig. V. C. …, Belluno 1637 (dedicata a B. Polani, ricorda l'impegno sostenuto dal C. nel placare le discordie cittadine); M. Glamosae Ludi poetici... illustriss. D. D. V. C. dicati, Belluno 1637; Raccolta in lode dell'illustriss. V. C., Belluno 1637; Venere consolatrice nel feliciss. passaggio all'eterna vita dell'illustriss. signora Istriana..., Belluno 1637; Applausi poetici al merito dell'illustriss. sig. V. C. …, Rovigo 1639 (raccolta di vari autori con un'allocuzione iniziale rivolta al cardinale G. Locatelli); G. Bissuccio, Vaticinio di Giove. Panegirico all'illustriss. sig. V. C. …, Rovigo 1639 (lo stesso Bissucci curò nel 1640 una raccolta di poesie in lode del C.); M. Manfredini, Orazione all'illustriss. sig. V. C. …, Rovigo 1639 (con poesie di A. Sertorio e di altro autore, delle quali si ebbe nello stesso anno una seconda edizione); B. Spargieri, Orazione all'illustriss. sig. V. C. …, Rovigo 1640; A. Cavodistria, Assertiones philosophicae, s. l. 1653; G. Soranzo, Bibliografia venez., Venezia 1885, p. 374; A. Buzzati, Bibliografia bellunese, Venezia 1890, pp. 57-58; Relazioni dei rettori veneti in Terraferma, a cura di A. Tagliaferri, II, Milano 1974, pp. 109-114; VI, ibid. 1976, pp. 259-262; P. Litta, Le famiglie celebri ital., s. v. Correr, tav. IV.