VITRUVIO (Vitruvius Pollio)
Nella tradizione manoscritta (De Architectura libri decem) il nome è Vitruvius; è detto Vitruvius Pollio nell'adbreviatus liber di M. Cetius Faventinus (di epoca imprecisata, ma prima del 400 d. C.),
Contemporaneo di Cesare e di Augusto, egli ricorda il primo assai spesso nella sua opera, la quale è dedicata al secondo in segno di ringraziamento e, quasi, di disobbligo per i benefici avuti ad intercessione di Ottavia, sorella di Augusto (63-10 a. C.). Precisare ulteriormente la data di composizione è impossibile, per quanto i filologi abbiano lungamente discusso su alcuni dati offerti dallo stesso testo; e cioè sul fatto che V. nomina Ottaviano Caesar, Imperator, Imperator-Caesar - quindi prima del 27 a. C. - e soltanto cita una aedes Augusti nella descrizione della Basilica di Fano (v, 1, 6-10) di non sicura paternità vitruviana. Ricorda inoltre il Tempio di Cerere (iii, 3, 5) che cessò di esistere per incendio nel 31 a. C., e cita (iii, 2, 5) come ancora esistente la Porticus Metelli, portico che fu distrutto poco dopo il 27 a. C. per la costruzione della Porticus Octaviae, che egli ignora e che verrebbe quindi a costituire un terminus ante quem per la redazione. Senonché, considerando il carattere slegato e frammentario dell'opera, nella quale sono stati raccolti, probabilmente, scritti più antichi accanto a parti più recenti (primo quoque tempore... reliquo quoque tempore: prefaz. i libro); onde non sembra possibile pensare a una stesura continuata ed unica, ma piuttosto ad una farraginosa ricucitura di schede e appunti di varia epoca e provenienza, esperienze personali di capomastro costruttore e trascrizioni e traduzioni da fonti latine e greche - appunti redatti nel nostro testo quando V. era più vecchio e pieno di acciacchi (ii, praef., 4: mihi staturam non tribuit natura, faciem deformavit aetas, valetudo detraxit vires): di fronte a tutte queste considerazioni, anche la questione cronologica assoluta perde ogni interesse attuale e non costituirà mai un elemento di valutazione.
Di natura timido, V. non ricevette dalla sua professione quelle soddisfazioni che, per la sua cultura e la sua dirittura morale, egli contava di meritare: "altri più audaci di me conseguiranno fama e ricchezze; io ho sempre ritenuto doversi piuttosto ricercare il buon nome nella povertà che l'abbondanza coll'infamia. Però mi è mancata anche la fama; sono poco conosciuto e non mi resta che sperare nei posteri. Così succede del resto a quelli che come me hanno aspettato di essere chiamati a costruire opere, invece di mettersi in mostra e provocare gli inviti" (vi, praef., 5).
Che egli sapesse il greco parrebbe, e dai suoi postulati di cultura enciclopedica e dalle molte parole greche citate alcune delle quali (embater, iv, 3, 3 e i, 2, 4; aniatrologetos, i, 1, 13) non si trovano nei testi greci a noi pervenuti e sono testìmoniate soltanto da Vitruvio. A meno che tutto ciò non serva appunto di ingenuo schermo per coprire l'incertezza nell'uso del greco e l'incapacità di tradurne l'intimo significato; la frase, per esempio, dei codici a vii pr. 16: in deorum σεσημασμένῳ, che dal contesto appare risalire alla nota formula greca del semaînon e del semainòmenon, e cioè del "significante" e del "significato" (cfr. Arist., Rhet., iii, 2, 37), anche se corretta nel modo più favorevole per V., lascia pensare che egli, pur conoscendo la formula stessa e adoprandola altrove (i, 1, 3), non ne abbia ben capito il senso filosofico e linguistico. Analogamente lasciano perplessi il graphikoteros di iv, 4, 4, il kolossikoteros di iii, 5, 9, il frequentissimo commodus che riproduce il sym + metros greco col valore che il vocabolo ha nei testi greci, non con quello latino. Neanche convince interamente quanto dice a proposito della musica (v, 4, 1: Harmonice autem est musica litteratura obscura et difficilis, maxime quidem quibus graecae litterae non sunt notae. Quam si volumus explicare, necesse est etiam graecis verbis uti, quod nonnulla eorum latinas non habent appellationes). Certo è che manca la sicura documentazione di versione diretta, anche soltanto di alcune parti, da un testo greco, fenomeno invece largamente accertato e criticamente sfruttato per Plinio il Vecchio (v.). V. scrive direttamente nel suo disadorno e difficile latino arcaico dell'ultima Repubblica: o compone egli stesso il testo o lo deduce da altri testi già latini; forse quaderni di tipo manuale e artigianesco, più che testi veri e proprî. E non si è formato un usus e uno stile proprio, né può dirsi che conosca la techne di scrivere, pur adoperando usualmente i termini della retorica applicati all'architettura, come erano in Grecia applicati alla scultura, alla pittura, alla musica. Pertanto, quando si parla delle fonti probabili di V. (e si citano Pytheos fondatore dello stile tardo-ionico in Asia Minore, Metrodoros qui de architectonice scripsit [Plinio], Hermodoros pure asiatico), è giusto e significativo che questa probabile e possibile fonte sia greca, sia tardo-ellenistica, sia permeata largamente di filosofia (Posidonio, Stoa) e di retorica; ma nessuno potrà mai appurare se V. ne abbia attinto direttamente e non si sia valso piuttosto di riassunti e di manuali già tradotti e adattati per i costruttori latini. A postulare questa fonte mediata induce la constatazione che può trarsi dalle definizioni vitruviane nelle prime pagine, dove sono confuse e mescolate in modo piuttosto banale le tre fasi cronologiche del concetto di bello architettonico presso i Greci: la fase pitagorica o aritmetica (corrispondente in scultura a Policleto), quella scenografico-ottica (Platone), e quella personale e morale del decor (epoca ellenistica). Ora, queste tre fasi sono rispecchiate nei testo di V. tutte assieme, non senza ripetizioni e confusioni, senza prospettiva storica. Ne risulta un eclettismo indigesto, dove il critico deve scernere e collocare al suo posto i singoli elementi.
L'opera di V. è divisa in 10 libri, che trattano: 1° dell'architettura in generale e delle doti dell'architetto; 2° dei materiali; 3° e 4° dei templi e degli ordini; 5° degli edifici pubblici; 6° delle case; 7° dei pavimenti; 8° idraulica; 9° geometria e astronomia; 10° macchine civili e militari. È chiaro che solo i primi sette libri corrispondono al titolo, i restanti tre sono excursus isolati che rappresentano forse gli studi di V. fatti "primo quoque tempore" (p. I).
Grande è stata l'attenzione dedicata all'opera di V. nell'epoca imperiale e, qua e là, anche nel Medioevo; grandissima nel Rinascimento, da Leon Battista Alberti (1485) in poi.
L'editio princeps è del 1486; l'edizione dello Jocundus è del 1511 coi disegni, che nella tradizione medievale erano andati perduti. Buone traduzioni del Barbaro 1556 e segg.; Perrault, Parigi 1673 segg.; Choisy, Parigi 1909. Migliore edizione del solo testo: Rose, Lipsia 1899; migliore edizione di testo e traduzione (inglese) Granger, Vitruvius nella Loeb Coli., Londra 1931 e 1945; traduzione italiana con testo a fronte, limitata alle parti di interesse archeologico, e note critiche (Ferri), Roma 1960.
Bibl.: V. Mortet, Recherches critiques sur V. et son oeuvre, in Rev. Arch., 1902-07; L. Sontheimer, Vitruvius und seine Zeit, Lipsia 1908; A. Birnbaum, V. und die griech. Architektur, Vienna 1914; B. Ebhardt, Die Zehn Bücher d. Architektur, Berlino 1916; W. Sackur, V.'s Technik und des V.'s Liteatur, Berlino s. a.; F. Pellati, V. e la fortuna del suo trattato nel mondo antico, in Riv. di filologia, XLIX, 1921, p. 305 ss.; id., V. nel Rinascimento, in Boll. del R. Ist. di Arch. e St. dell'Arte, IV-VI, 1932: id., Nuovi elementi per la datazione del trattato di V., in atti del III Congresso di Studi Romani, Bologna 1935; C. Watzinger, Studien zu V., in Rhein. Mus., II, 1909; G. K. Lukomski, I maestri dell'architettura classica, Milano 1933; W. Achraumm, Die Vorreden in Vitruvs Architectura, in Philol. Wochenschrift, 1932, p. 860 ss.; A. Boethius, V. and the Roman Architecture of his Age, in Dragma Nilsson, 1939, pp. 114-143; F. W. Schlikker, Hellenistische Vorstellungen von der Schönheit des Bauwerks nach V., Berlino 1940; S. Ferri, Problemi di estetica vitruviana, in La Critica d'arte, VI, 1941, p. 97 ss.; C. I. Moc, Numeri di V., Milano 1945; H. Riemann, Vitruv und der Griechische Tempel, in Arch. Anz., LXVII, 1952, c. i; S. Ferri, Note archeologico-critiche al testo di V., in La Parola del Passato, VIII, 1953, p. 214; id., V. Architettura, Roma 1960.