DORNBERG (Dorimbergo), Vito
Nacque a Gorizia nel 1529, quintogenito di Erasmo, allora luogotenente di quella contea, e della tirolese Beatrice Giovo (Jaufen).
La famiglia, di origine francona o stiriana, fin dal sec. XIII era entrata al servizio dei conti di Gorizia, ottenendo la signoria del castello situato a metà della valle del Vipacco, che da essa prese il nome (ora Dornberk, già Montespino). Nei secoli XIV e XV vari membri ricoprirono la carica di capitano della contea e altri importanti uffici. Intorno al 1430 la famiglia si era trasferita nella valle dell'Isonzo, nei pressi di Tolmino, dove si costruì un castello: all'inizio del sec. XV, del resto, il feudo di Domberg era stato conferito dai conti a un'altra famiglia goriziana, i Rabatta.
Dopo il passaggio di Gorizia agli Asburgo (1500), i Dorriberg si misero subito a disposizione dei nuovi signori. Erasmo fu a più riprese luogotenente della contea, ma anche commissario imperiale nella guerra contro Venezia (in tale veste nel febbraio 1514 accettò la resa di Udine) e vicedomino della Carniola a Lubiana. Dei fratelli del D., due maschi e due femmine, il maggiore, Francesco, fu egualmente luogotenente di Gorizia negli anni 1570-1581; il secondogenito, Massimiliano, venne spesso impiegato dagli Asburgo in missioni diplomatiche, prima di esser chiamato da Massimiliano II a corte, dove raggiunse la carica di gran siniscalco; morì a Praga nel gennaio 1591.
Il D. era nato proprio nei giorni in cui il padre moriva, lasciando la famiglia in condizioni economiche non adeguate al suo rango. Ricevette la prima istruzione da un prete di Gorizia, poi venne mandato fuori città presso migliori insegnanti: nel 150 a Trento, nel 1542 a Verona, dove rimase due anni. Dal 1545 al 1547 frequentò con scarso profitto l'università di Padova, in cui l'aveva preceduto il fratello Francesco. Entrò quindi nel seguito del conte Bernardo di Ortenburg, che lo mise in contatto con la corte di Vienna e gli fece compiere alcune missioni in Germania e lungo il confine croato. Come ricompensa nel 1551 ottenne da Ferdinando d'Asburgo il titolo di consigliere cesareo.
Nel 1553 il D. rientrò a Gorizia, come luogotenente del capitano della contea, Francesco Della Torre, che peraltro rimase sempre assente. Da questo momento egli si può praticamente considerare l'uomo di fiducia dei sovrani austriaci in città: dal 1555 in avanti venne quasi sempre designato quale commissario imperiale alle annuali convocazioni degli Stati provinciali goriziani. Particolarmente delicati furono i suoi compiti in materia finanziaria: nel 1556 ebbe l'incarico di mettere ordine nell'amministrazione dei beni demaniali; nel 1557, per far fronte alle richieste di denaro da parte dell'amministrazione centrale, propose l'istituzione di una tassa sul consumo di vino, suscitando notevoli proteste.
Come luogotenente, il D. dovette occuparsi frequentemente anche di questioni ecclesiastiche. A differenza di molti nobili goriziani, non esclusi alcuni suoi parenti, che dagli anni '60 cominciarono a simpatizzare col luteranesimo, egli si mantenne sempre buon cattolico: tuttavia rivendicò con fermezza le prerogative sovrane sul controllo del clero. Nel 1561 arrivò a minacciare la revoca dei benefici a quei preti che non pagavano regolarmente i tributi imposti dall'autorità politica; nel 1565 Ottenne che delegati governativi ispezionassero le rendite di chiese e confraternite e fissassero norme precise per la loro amministrazione.
Soprattutto dopo il 1564, con la divisione dei domini austriaci tra i figli dell'imperatore Ferdinando e l'inserimento di Gorizia nelle province dell'Austria interna, il D. dovette farsi portavoce delle rivendicazioni dell'arciduca Carlo Il nei confronti del patriarca d'Aquileia, sotto la cui giurisdizione ricadevano tanto il Friuli veneto quanto una larga porzione dei territori assegnati al nuovo sovrano. Nel novembre 1565, durante il sinodo di Aquileia convocato dal vicario patriarcale, il luogotenente e Andrea Rapicio, vescovo di Trieste, quali rappresentanti dell'arciduca impedirono che i sacerdoti sudditi austriaci prestassero giuramento d'obbedienza ai decreti del concilio tridentino, reclamando una decisione al riguardo di tutti gli Stati dell'Impero. Ma soprattutto essi richiesero, per la prima volta, che fosse eretta a Gorizia una nuova diocesi, che sostituisse Aquileia nella giurisdizione ecclesiastica delle terre arciducali comprese nell'antico patriarcato.
Per trattare questo problema il D. venne subito dopo mandato a Roma, dove prese alloggio presso l'ambasciatore imperiale conte Prospero d'Arco: era gia in città nel gennaio 1566, quando poté assistere all'insediamento del nuovo pontefice Pio V. Il viaggio non portò sostanziali novità nella questione aquileiese (a Gorizia venne solo istituito un arcidiaconato), ma il D. ebbe l'opportunità di stringere importanti relazioni, prima di tutto con l'influente conte d'Arco, e di farsi conoscere in campo diplomatico. Alla fine dello stesso anno infatti Massimiliano II lo designò ambasciatore imperiale a Venezia, chiamandolo a succedere al goriziano Francesco Della Torre, morto pochi mesi prima.
Il D. s'insediò ufficialmente nella nuova carica il 24 apr. 1567. Le istruzioni che aveva ricevuto dalla corte imperiale (in data 21 genn. 1567) precisavano che egli doveva curare gli interessi non solo di Massimiliano II, ma anche dei suoi fratelli Ferdinando del Tirolo e Carlo dell'Austria interna. L'appannaggio annuo di cui godette fu inizialmente di 2.400 corone, alle quali il sovrano aggiunse una pensione di altre 400 corone.
Negli oltre vent'anni della sua permanenza a Venezia il D. intrattenne con le corti asburgiche un fitto carteggio, tuttora conservato a Vienna e a Gorizia, sia pure con ampie lacune. Egli inviava dispacci anche più volte alla settimana, usando generalmente l'italiano o, meno spesso, il latino (rare sono le lettere in tedesco); dal governo imperiale riceveva istruzioni in latino, mentre l'arciduca dell'Austria interna scriveva di solito in tedesco. Soprattutto negli anni iniziali del suo mandato l'ambasciatore rappresentò per Vienna la fonte più attendibile su quanto avveniva nell'Oriente mediterraneo e sulle operazioni per mare dei Turchi. Tra la fine del 1567 e gli inizi del 1568 il D. ebbe anzi il compito di far proseguire alla volta della capitale i messaggi che da Costantinopoli spediva Antonio Veranzio, impegnato nelle trattative di pace col governo ottomano: allo stesso tempo doveva far tacere le indiscrezioni ormai circolanti sul prossimo raggiungimento dell'accordo. Ancor più delicata la sua posizione negli anni seguenti, quando Massimiliano II mantenne la propria neutralità e si rifiutò di partecipare alla Lega santa promossa da Pio V contro i Turchi, respingendo ogni sollecitazione al riguardo.
Su un piano più generale il D. aveva il compito di tener alto il prestigio dell'Impero nella politica italiana, anche a costo di opporsi alle pretese spagnole. Egli rivendicò sempre la prerogativa d'avere la precedenza fra tutti i rappresentanti di Stati secolari - secondo solo al nunzio pontificio - nelle cerimonie e nelle udienze pubbliche della Signoria, protestando apertamente ogni qual volta tale riconoscimento gli sembrasse negato. In situazioni politiche concrete i suoi tentativi di far valere gli antichi diritti imperiali furono tuttavia di scarsa efficacia: sia che si trattasse di opporsi al titolo granducale concesso dal papa ai Medici (1569), sia che fosse in gioco l'indipendenza dalla Spagna di piccole signorie feudali come Finale Ligure (1579). Di pura rappresentanza si può anche considerare la missione che lo portò per alcuni mesi a Genova nella seconda metà del 1575, quando gli inviati di vari Stati e del pontefice cercarono di conciliare le diverse fazioni che si contrapponevano in città, ormai sull'orlo della guerra civile.
Una preoccupazione continua per il D., durante tutta la sua permanenza a Venezia, fu rappresentata dagli attacchi che gli Uscocchi di Segna portavano in Adriatico contro navigli veneziani, ma anche pontifici, con uccisioni e gravi danni all'attività commerciale. Gli Uscocchi erano sudditi di Massimiliano II: ma nonostante gli interventi dell'ambasciatore presso le corti austriache e gli sporadici provvedimenti adottati nei loro confronti, la situazione rimaneva irrisolta, per quanto al riguardo egli avesse proposto una misura definitiva, "di spianar Segna come luoco di nissuno beneficio alli stati dell'imperator, e di ridur l'Uschocchi a Otazaz et altri lochi vicini" (Monum. Uscocchorum, I, p. 190).
Tra Venezia e gli Stati austriaci confinanti c'erano però ben altri motivi di contrasto. Come rappresentante dell'arciduca Carlo, il D. aveva immediatamente reclamato la restituzione all'Austria del porto di Marano e la libera circolazione delle navi nel mare Adriatico. Per cercare di risolvere i problemi di confine tra i due Stati nel marzo del 1570 si riunì una commissione mista, alla quale partecipò anche Massimiliano Dornberg: ma già il 23 maggio dello stesso anno il D. scriveva al fratello che la Repubblica non avrebbe mai accondisceso alle richieste arciducali. In effetti i lavori della commissione si conclusero nel 1571 senza arrivare ad alcun risultato. Negli anni seguenti il D. dovette ripetutamente protestare presso la Signoria per i sequestri di navi austriache; nel 1583 fece all'arciduca una relazione assai particolareggiata sul problema dei confini e la corte di Graz rinnovò le sue richieste a Venezia, ammassando nel contempo truppe in Istria e nel Gorìziano. Nel 1584-86 si rischiò più volte l'aperto conflitto tra i due Stati. Il D. da una parte raccomandava a Carlo di prendere misure militari a difesa dei suoi territori; dall'altra, come portavoce dell'imperatore, cercava una mediazione tra le parti. Nel 1587 la questione fu rimessa a una nuova commissione, della quale l'ambasciatore fu chiamato ancora a far parte.
L'arciduca Carlo utilizzò i servigi del D. anche fuori dal campo diplomatico. Nel 1572 e 1573 questi ebbe infatti il compìto di riordinare le finanze della contea di Gorizia: incarico che dovette assumere anche nel 1587, quando fece ripristinare l'impopolare tassa sul vino. Nel 1577, 1584 e 1587 fu commissario arciducale alla convocazione degli Stati provinciali e in genere fu interpellato ogni volta che il governo di Graz doveva prendere provvedimenti riguardanti il Goriziano, come la costruzione della strada di Plezzo nell'alta valle dell'Isonzo (1576) o il nuovo regime di cambi tra la moneta veneziana e quella austriaca (1586). Il parere del D. sulle questioni religiose era sempre tenuto in grande considerazione: nel novembre 1572 egli sconsigliò di consentire che l'Inquisizione romana operasse nei territori arciducali; nel 1578, allorché Carlo fu costretto a permettere nei suoi Stati la libera professione della confessione augustana, non volle condannare il provvedimento, giudicando la concordia politica superiore a ogni altra esigenza. In coerenza con questo atteggiamento, nel 1581 avvertiva Carlo di non ritirare troppo affrettatamente quanto aveva concesso ai luterani.
Il D. continuò a operare incessantemente, nonostante l'opposizione della curia patriarcale, affinché Gorizia fosse elevata a diocesi: nel 1583-1584 il nipote Baldassarre, che intanto lo assisteva nella missione a Venezia, fu per qualche momento in predicato di assumere la nuova carica vescovile. Sul finire del 1584 l'ambasciatore addirittura iniziò a Gorizia la costruzione a sue spese di "una bella chiesa, grande e capace", che avrebbe dovuto diventare la cattedrale della città (Grazer Nuntiatur, II, p. 348).
L'intensa attività cui il D. si sottopose non fu priva di riconoscimenti: nel 1574 venne nominato primo consigliere di corte a Graz; nel 1576 l'arciduca Carlo gli conferiva la carica di capitano di Trieste, senza che egli dovesse ricoprire effettivamente l'ufficio, per il quale fu designato luogotenente il nipote Gaspare. Il D., in effetti, sposato con la bolognese Rachele Malvasia, non aveva figli e cercava sempre di favorire i familiari: nel 1575 aveva acquistato la giurisdizione di San Floriano del Collio, vicino a Gorizia; il 15 luglio 1578 Massimiliano II lo insigniva, insieme con i fratelli, del titolo di barone di Dornberg e Dornegk.
A testimonianza della stima che godeva presso la corte imperiale, il D. già due volte, nel dicembre 1572, alla morte di Prospero d'Arco, e nel 1581 era stato proposto per la carica di ambasciatore a Roma. Nei primi mesi del 1587 si decise infine ad accettare l'alto ufficio, anche perché aveva ottenuto che il nipote Baldassarre (fallito il progetto del vescovato a Gorizia) gli succedesse nella legazione di Venezia. La morte improvvisa di Baldassarre per un momento lo fece ricredere della convenienza dei nuovo incarico: nel giugno 1587 scrisse alla corte di Praga di non avere mezzi sufficienti per una missione di tale impegno e di essere oltretutto creditore per una grossa somma col governo imperiale. Per la sua nomina invece insistevano gli ambienti ecclesiastici: il nunzio a Praga lo definì "signore molto compito, prudente, destro et sopra tutto catholico" (Nunt. am Kaiserhofe, II, p. 47).
Alla fine dell'estate 1587 il D. partì alla volta della sede imperiale: arrivò a Praga in ottobre, dopo essersi fermato a Graz. Nella città boema si trattenne oltre un anno, occupandosi dei propri crediti (43.000 fiorini), ma anche della vertenza dell'arciduca Carlo con Venezia e del problema uscocco. Nel dicembre 1588 tornò a Venezia, passando per Graz e Trieste. Vi rimase fino all'autunno seguente: a Roma non si credeva più nel suo arrivo e si vedeva in ciò la riprova dei cattivi rapporti tra l'imperatore e il pontefice in carica, Sisto V. La corte di Praga invece sollecitava continuamente l'ambasciatore a raggiungere la nuova destinazione: il 3 sett. 1589 gli inviò a Venezia le credenziali e le istruzioni, con l'ordine di partire immediatamente. Il D. si mise in viaggio solo a novembre, prendendo possesso della carica negli ultimi giorni dell'anno.
Egli arrivava a Roma in un momento particolarmente delicato, sia per i contrasti tra Rodolfò, II e la Curia papale per l'occupazione di feudi imperiali in Emilia, sia per la complessa situazione internazionale: ebbe tra l'altro l'ordine di trattare gli inviati della Lega come rappresentanti di uno Stato sovrano e di non avere contatti con l'ambasciatore di Enrico IV di Francia. La morte consecutiva di Sisto V (27 agosto 1590) e di Urbano VII (27 settembre 1590), con i due relativi conclavi, portò nuove difficoltà. A questo si devono aggiungere i rapporti ostili che il D. ben presto instaurò con il cardinale trentino Ludovico Madruzzo, protettore a Roma della nazione germanica ma di sentimenti filospagnoli, di cui egli non tollerava le intromissioni nel proprio mandato.
Non c'è da stupirsi che già nel settembre 1590 il D. esprimesse l'intenzione di ritornare in patria, ritirandosi dall'attività pubblica. Negli stessi mesi egli si mostrava pieno di fervore religioso; era finalmente completata a Gorizia la costruzione della chiesa dei Ss. Giovanni e Vito, da lui finanziata; in essa dispose che avesse sede la Confraternita del rosario, che provvide di una ricca dotazione. Ebbe anche una lunga corrispondenza col gesuita Eyrnerich Forster, rettore del collegio di Graz.
Il D. si ammalò gravemente il 20 marzo 1591; il 23 dello stesso mese scrisse le ultime lettere ufficiali. Il 1° aprile dettò un estremo codicillo al testamento, in cui espresse la volontà di venir sepolto a Gorizia, nella chiesa da lui fondata. Morì a Roma il 5 aprile: a Gorizia, dove il testamento venne pubblicato il 18, fu possibile celebrare solo la funzione religiosa.
Il D. compose nel 1589 una breve autobiografia dal titolo: Breve narratione dell'actioniprincipali da me passate nel corso della vita miasin dal dì presente descripto, conservata nella Biblioteca ap. Vaticana, Barb. lat. 4878, cc. 47-77.
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