Vitalità e varietà dei dialetti
È ancora valida una considerazione che il dialettologo tedesco Gerhard Rohlfs fece già in un discorso tenuto nel 1964 relativamente alla variazione e alla vitalità dialettale in Italia. Egli osservava che il nostro Paese «Fra le nazioni europee gode il privilegio di essere, certamente, il [...] più frazionato nei suoi dialetti […]», una ricchezza dialettale che «esiste ancor oggi come fenomeno sociale e come fenomeno linguistico». E aggiungeva: «Ogni viaggiatore che, cominciando con il Piemonte, attraversando poi la Liguria, la Toscana, il Lazio e le province napoletane, si reca in Sicilia, si può rendere conto di questa situazione» (1972, p. 26). Da allora è trascorso mezzo secolo e, nonostante la diffusione della scolarizzazione, i mezzi di comunicazione e varie altre modalità di esposizione alla lingua italiana, la diffusione dell’italofonia, nonché diverse forme di contrasto nei confronti del dialetto, la ‘malerba dialettale’, come si diceva in passato, non è stata estirpata. I cambiamenti avvenuti, ponendo l’attenzione sugli ultimi cinquant’anni della storia linguistica italiana, sono certamente notevoli. Anzitutto vi è stata una diminuzione nel numero di coloro che parlano il dialetto e un aumento degli esclusivi italofoni, ma sono significativi i numeri relativi al bilinguismo italiano-dialetto. In ogni caso non si è verificata la scomparsa dei dialetti. Piuttosto, come mostrano i dati statistici, gli studi e le ricerche sul campo, negli ultimi anni i dialetti, che dovevano scomparire con la progressiva diffusione della lingua italiana come lingua parlata dalla popolazione, sono ancora vitali, anche se soggetti a un processo di ‘trasfigurazione’ dialettale, dovuto alle trasformazioni di quel tipo di vita tradizionale, che aveva il dialetto come lingua pressoché esclusiva, e all’influsso della lingua italiana.
La questione dialettale in Italia ha interessato specialmente la scuola, nella quale per lungo tempo il dialetto ha rappresentato la lingua materna della comunicazione ed è stato spesso utilizzato in quella didattica che si avvaleva della lingua conosciuta per arrivare a quella di studio, l’italiano, come suggeriva anche il ministro della Pubblica Istruzione Michele Coppino nelle indicazioni per i programmi scolastici nel 1867. Il dialetto nella scuola veniva spesso deriso e disprezzato, considerato generalmente come un problema, una difficoltà nell’apprendimento dell’italiano; anche per questo in anni più recenti si è registrata una forte tendenza all’uso dell’italiano nelle famiglie e i genitori, tra loro dialettofoni, hanno cercato di usare l’italiano con i figli.
D’altro canto, l’essere diventati italofoni può voler dire non aver timore del dialetto, considerarlo un valore positivo, una risorsa in più nel proprio repertorio linguistico. Di qui varie iniziative, anche di carattere normativo a livello regionale, per la tutela e la valorizzazione del patrimonio linguistico locale. Di qui anche varie forme di ‘risorgenze dialettali’. E periodicamente la questione dell’insegnamento del dialetto a scuola diventa oggetto di discussione. Nell’estate del 2009 la stampa italiana ha dedicato spazio a numerosi interventi sul tema. In tal caso il via alla discussione è venuto da un partito politico italiano, che ha proposto di inserire nella formazione scolastica l’insegnamento del dialetto, per un suo riconoscimento istituzionale. Si tratta di un’iniziativa evidentemente di carattere ideologico, non realizzabile, ma che lascia intendere quanto una questione linguistica possa essere strumentalizzata. Non sarà un insegnamento formalizzato a essere utile, bensì una riflessione sulle strutture del dialetto, anche per la didattica dell’italiano. Ma la scuola ha il compito di occuparsi del dialetto con un intento culturale, perché è importante la promozione del rispetto nei confronti del dialetto e della cultura riflessa dal dialetto; rispettare le differenze linguistiche dovrebbe essere la prassi nella scuola di un’Italia plurilingue che necessita di confrontarsi anche con il nuovo plurilinguismo connesso all’attuale immigrazione.
Il dialetto, dunque, pare essersi liberato da quegli stereotipi che per decenni lo hanno contrassegnato; la sua capacità espressiva è ampiamente riconosciuta: anche il dialetto, come la cosiddetta lingua, è il riflesso di una cultura e ciò che il dialettofono può esprimere con il suo idioma è stato ben dimostrato da autori come Luigi Meneghello (Libera nos a malo, 1963), il quale dichiara che il suo dialetto veneto è la sola lingua che conosce bene. In un testo come questo il dialetto è presente in forma di inserti di varia lunghezza, ma assai numerosi sono i testi interamente in dialetto di autori illustri del passato, come Giambattista Basile, Carlo Goldoni, Carlo Porta, Giuseppe Gioacchino Belli, e contemporanei a confutare l’opinione, piuttosto diffusa, che in dialetto non si possa scrivere e invece molto lo si è fatto e ancora più lo si fa, e per motivi diversi, solitamente con intento di tipo letterario. La scrittura può essere una delle ragioni chiamate in causa per cercare di chiarire la differenza fra lingua e dialetto: anche persone dotate di una qualche cultura sostengono che un dialetto non si scrive. A livello scientifico distinguere tra lingua e dialetto richiede la definizione di alcuni criteri e in conclusione nella situazione linguistica italiana si può dire che la differenza sta nel fatto che il cosiddetto dialetto è una lingua locale, l’italiano è la lingua nazionale, come sosteneva già Anton Maria Salvini nel 1724: «I vostri natii dialetti vi costituiscono cittadini delle sole vostre città; il dialetto toscano appreso da voi, ricevuto, abbracciato, vi fa cittadini d’Italia» (Cortelazzo 1969, p. 13), citazione che richiama le origini dell’italiano e l’opposizione tra italiano lingua comune e dialetti, lingue locali.
Ma il dialetto può rappresentare ancora per alcune persone una fonte di imbarazzo, ciò può capitare a chi sia dialettofono (quasi) esclusivo e si trovi a doversi confrontare con l’italiano e con l’uso del dialetto manifesti inadeguata padronanza della lingua. Il dialetto può anche essere rassicurante, come osserva Manlio Cortelazzo a proposito di coloro che nel parlare veneto «si dimostrano impacciati con la lingua comune. Spesso cominciano volenterosamente il discorso in italiano (che è come camminare su un piede solo) per tornare presto presto al dialetto, più familiare e dominato» (Itinerari dialettali veneti, 1999, p. 155).
Ancora, il dialetto può essere oggetto di censura, di stereotipi e pregiudizi. Una certa dialettofobia è ancora diffusa in aree in cui, ancor oggi, il dialetto è maggiormente vitale. Da un’indagine condotta negli anni Novanta da Giovanni Ruffino in merito alle opinioni, espresse in forma scritta, di alunni di terza, quarta e quinta elementare, provengono osservazioni del tipo «La lingua italiana la usano le persone più importanti … invece il dialetto lo usano le persone che non hanno valore» (Palermo), «Mia mamma, quando parlo in dialetto, mi sgrida perché dice che non so parlare bene l’italiano, come mai parlo quella strana lingua?» (Soncino, Cremona), «l’italiano è molto gentile è invece il dialetto è scortese, però a me mi piace il dialetto» (Comiso, Ragusa): immagini piuttosto negative del dialetto alla cui diffusione hanno certo contribuito la scuola e l’acquisizione della lingua italiana (L’indialetto ha la faccia scura. Giudizi e pregiudizi linguistici dei bambini italiani, 2006, pp. 243, 151, 230).
La questione dialettale non è risolta: come il dialetto continua a essere parte integrante del patrimonio linguistico degli italiani, così dialettofilia e dialettofobia, seppure diversamente dosate rispetto a un tempo, sono sempre presenti nella comunità.
Una domanda di rito che di frequente si sentono rivolgere i dialettologi è la seguente: «Quanti sono i dialetti in Italia?». La risposta potrebbe essere che i dialetti sono tanti quanti sono i campanili, stante la possibilità che i parlanti hanno di percepire differenze nel parlato tra un luogo e l’altro, di pronuncia, di usi lessicali e così via, spesso richiamate da blasoni popolari e scioglilingua: per es. nel dialetto di Senigallia: «’L difett intl parol ch’ènn finit, / Prché parland ’l cod c’ l’ magnam, / Vol dì che no’ sem gent d’ bon aptit (Il difetto nelle parole è che sono finite, / perché parlando la coda ce la mangiamo, / vuol dire che noi siamo gente di buon appetito)» (Cortelazzo, in I dialetti italiani. Storia, struttura, uso, 2002, p. XXX).
Al di là delle minute differenze locali, sono state formulate alcune classificazioni in aree dialettali.
Com’è noto, già Dante Alighieri aveva ordinato i dialetti (all’epoca i ‘volgari’) secondo un criterio geografico tenendo come riferimento l’Appennino.
Le classificazioni dei dialetti con criteri scientifici risalgono alla seconda metà del 19° sec., a opera di studiosi come Graziadio Isaia Ascoli (1829-1907) e, successivamente, Clemente Merlo (1879-1960) e altri (cfr. Loporcaro 2009). L’individuazione di aree dialettali, o di famiglie linguistiche o di gruppi linguistici, è operazione complessa e le soluzioni proposte variano a seconda dei diversi criteri linguistici selezionati; possono contare, inoltre, anche fattori extralinguistici. Nella maggior parte delle classificazioni dei dialetti vale il principio (introdotto già da Ascoli nel 1882) del confronto con il latino, vale a dire il ‘criterio genealogico’, una valutazione della maggiore o minore distanza dalla lingua dalla quale derivano. La classificazione formulata da Merlo (1924) considera anche una prospettiva storica richiamando le antiche lingue prelatine dell’Italia (celtico, etrusco e così via). Altre classificazioni, pur tenendo conto del rapporto tra i dialetti e il latino, si propongono di osservare solo i sistemi linguistici, trascurando i fattori extralinguistici e ne derivano classificazioni dette quantitative. Il problema di fondo è sempre la soggettività nella scelta dei fatti linguistici da considerare ai fini della classificazione e quindi la relatività di quest’ultima. Appare, perciò, più soddisfacente una classificazione dialettale che consideri i tratti linguistici, ma anche altri fattori quali la storia, il contatto tra lingue, la variabilità linguistica in genere, secondo la prospettiva della moderna sociolinguistica. La classificazione dialettale che è stata seguita da vari studiosi è quella proposta da Giovan Battista Pellegrini nel 1975, che si fonda sul concetto di ‘italoromanzo’, vale a dire il complesso delle «varie parlate della Penisola e delle Isole che hanno scelto già da tempo, come “lingua guida” l’italiano» (pp. 56-57). Il criterio della lingua guida (o lingua tetto) è un riconoscimento dell’adozione dell’italiano toscano come lingua scritta ormai da molto tempo nelle varie regioni. Al di là del notevole frazionamento dialettale, pur ammettendo la possibilità di ulteriori suddivisioni e dando per scontata la relatività di ogni classificazione, l’italoromanzo può essere suddiviso in cinque sistemi: dialetti settentrionali; friulano; toscano; dialetti centro-meridionali; sardo.
Questa suddivisione è uno schema generale, di uso pratico e didattico; in ogni sistema sono possibili sempre più minute e dettagliate articolazioni fino ad arrivare alle differenze che possono esistere, ed essere percepite dai parlanti, tra il dialetto di una località e quello della località vicina, oppure, all’interno di un popoloso centro urbano, le differenze tra un quartiere e un altro o un gruppo sociale e un altro, e così di seguito fino alla variazione minima.
In tale classificazione sono comprese anche realtà linguistiche come il friulano e il sardo che hanno uno statuto particolare, trattandosi di «minoranze linguistiche storiche», come previsto dalla l. 15 dic. 1999 nr. 482. Pertanto lo schema individuato da Pellegrini va rivisto almeno per quanto riguarda questi due sistemi.
Considerando poi importanti variazioni interne al sistema dei dialetti settentrionali, messe in evidenza dallo stesso Pellegrini, si può suggerire uno schema relativo ai dialetti dell’Italia come il seguente: i dialetti galloitalici (compresi gli idiomi piemontesi, lombardi, liguri, emiliani e romagnoli); il veneto; il toscano; i dialetti mediani (interessano Marche e Umbria centro-meridionale, Lazio centrale); i dialetti meridionali (Lazio meridionale, Abruzzo, Molise, Puglia, esclusa l’area salentina, Basilicata, Campania, Calabria settentrionale); i dialetti estremi (comprendenti quelli del Salento, Calabria centro-meridionale, Sicilia).
L’Italia linguistica odierna risulta, dunque, costituita da dialetti e minoranze linguistiche storiche.
Per quanto riguarda le forme di dialetto, è ancora Pellegrini in un intervento del 1959 (1975, pp. 11-54) a porre l’accento sull’esistenza di un settore mediano tra lingua e dialetto, ovvero l’italiano standard a un polo e il dialetto schietto all’altro polo, nel quale si situano varietà della lingua, come l’italiano regionale, e di dialetto come la koinè dialettale, con cui s’intende quel tipo di dialetto nobilitato, con caratteri comuni uniformi, che si è diffuso in un territorio esteso e che ha alla base un tipo dialettale depurato dei tratti locali più vistosi. Nella formazione di una koinè vengono accolti elementi comuni ai grandi centri regionali ed elementi dall’italiano adattati al dialetto. All’idioma locale, rustico, schietto, più conservativo si può aggiungere il dialetto del centro urbano solitamente più innovativo, più esposto all’italianizzazione, maggiormente variegato al suo interno, data la dinamica connessa a una rete sociale aperta; di contro il dialetto locale è quello del piccolo centro, proprio di una comunità ristretta, più omogenea, di una rete sociale chiusa. Un ambiente urbano e quello di un piccolo centro possono rappresentare anche diverse modalità di impiego del dialetto, meno usato nel primo caso, più usato nel secondo, impiego facilitato dalla presenza di una tradizione ininterrotta che coinvolge la comunità in cui tutti si conoscono e l’uso linguistico comune rende solidali.
Anche in tal caso si tratta di una schematizzazione, utile, tuttavia, a rappresentare varietà di dialetto più o meno standardizzate e diffuse in un territorio più esteso (koinè dialettale). È ovvio che, al di là degli schemi, bisogna considerare che in ogni comportamento linguistico entrano variabili sociali (età dei parlanti, grado di istruzione, contatti con altri ambienti e luoghi ecc.), geografiche e così via, e perciò anche il piccolo centro non sarà poi così uniforme.
Visto dall’interno della struttura linguistica, si può anche parlare di un dialetto arcaico rispetto a uno moderno, cioè con elementi nuovi che possono risultare da un’evoluzione interna al dialetto stesso, ma che in genere rappresentano il risultato di un’imitazione di modelli linguistici considerati più prestigiosi, come può essere il dialetto della città rispetto a quello del paese (nel passato in misura maggiore che in tempi più recenti) oppure l’italiano, come accade oggi, con la conseguenza di processi di standardizzazione delle varietà dialettali (cfr. anche Grassi, Sobrero, Telmon 1997).
I parlanti italofoni e dialettofoni, bilingui, fanno uso dell’italiano o del dialetto, o anche di entrambi, mescolandoli in forma diversa. A determinare la scelta di usare il dialetto può essere l’ambiente (lo si usa specialmente in famiglia e con gli amici), l’argomento, ma molto spesso dipende dall’interlocutore, e ciò avviene anche all’interno della famiglia e di rapporti parentali e amicali.
L’italiano e il dialetto si possono utilizzare insieme in uno stesso discorso; si tratta di situazioni molto frequenti sulle quali sono stati fatti diversi studi per comprenderne funzioni e modalità. L’alternanza e il cambiamento (o commutazione) da un codice linguistico all’altro può avvenire a causa di diverse ragioni, tra le quali l’esigenza di formulare meglio un concetto nella lingua con la quale si ritiene che sia più facile parlare di quell’argomento.
Le modalità del cambiamento possono essere di diverso tipo: il passaggio da un codice all’altro nello stesso discorso, che accade preferibilmente da una frase all’altra, o, meglio, al confine tra una frase e l’altra (commutazione di codice o code switching); la mescolanza dei due codici all’interno della stessa frase (enunciato mistilingue o code mixing); l’uso di elementi isolati (interiezioni, espressioni varie).
Il bilinguismo italiano-dialetto si può tradurre in situazioni di diglossia nelle quali il dialetto è riservato ai rapporti quotidiani, a domini come la famiglia, ma anche di dilalia, che si realizza quando i due codici non ricoprono funzioni comunicative diverse, ma sono utilizzabili entrambi nella conversazione quotidiana. Il processo che ha portato a situazioni di dilalia muove da quelle di diglossia. A lungo la conoscenza dell’italiano è stata limitata a un numero ristretto di persone – e generalmente la lingua era riservata a determinati usi scritti e formali – rispetto alla gran parte della popolazione, che aveva il solo dialetto come lingua a disposizione:
La progressiva diffusione dell’italiano nel secolo XX a fasce sociali e a classi di situazioni in cui era usuale il dialetto ha rappresentato un’invasione da parte della lingua standard nell’ambito del parlato quotidiano, con una ristrutturazione dei rapporti fra le varietà che ha condotto a una situazione, appunto di dilalia (Berruto 2004, p. 132).
Comparando i dati statistici dei rilevamenti ISTAT del 2000 e del 2006 (2007), in Italia si parlano sia l’italiano sia i dialetti, considerati i contesti relazionali seguenti, nelle percentuali indicate: ‘in famiglia’ 32,9 nel 2000, 32,5 nel 2006; ‘con amici’ 32,7 nel 2000, 32,8 nel 2006; ‘con estranei’ 18,6 nel 2000, 19,0 nel 2006. Sono dati che vanno considerati con riserva, visto che si basano sull’autovalutazione degli intervistati e che non indicano con quali modalità vengono usati italiano e dialetto. Tuttavia si tratta di indicazioni significative per quanto riguarda la tenuta del dialetto e gli usi di entrambi i codici; inoltre, tenuto conto delle numerose ricerche effettuate, è certo che alternanze e cambiamenti di codici, contatto e interferenza tra l’italiano e il dialetto costituiscono la norma.
Una delle conseguenze del contatto tra l’italiano e il dialetto è la formazione di varietà intermedie, l’italiano dialettizzato e il dialetto italianizzato, dovute alle reciproche interferenze; ne consegue la progressiva diffusione dell’italiano presso parlanti dialettofoni ai quali manca una competenza adeguata della lingua nazionale dovuta allo scarso livello d’istruzione, alla poca pratica e cura della lingua. Se nell’italiano parlato (ma anche in quello scritto) risalgono tratti del dialetto, con la formazione dell’italiano regionale e dell’italiano popolare o dei semicolti che nasce dalla situazione dell’italiano male appreso dai dialettofoni, il dialetto subisce la pressione dell’italiano, non solo con l’inserzione di elementi a livello lessicale, ma anche influendo in alcuni casi a livello morfosintattico.
L’italiano regionale, definito come la vera realtà parlata dell’italiano, è quella varietà di lingua che si caratterizza per pronunce, cadenze, parole o costruzioni particolari che contraddistinguono l’italiano parlato in una zona da quello in uso in un’altra. Tra gli elementi più evidenti vi sono le parole di provenienza dialettale, i dialettalismi o regionalismi dell’italiano. In vari casi sono voci uscite dal territorio originario per diventare parole dell’italiano di tutti. Basti pensare a un termine di lontana origine veneziana, come ciao, parola bandiera dell’italiano, o al ligure mugugno. Molti i termini relativi al cibo: grissino (di origine piemontese), panettone (milanese), pizza (napoletana), cassata (siciliana), cantucci (toscana). Altri vocaboli sono rimasti circoscritti all’italiano regionale, per es. la ciambotta in Puglia, che si riferisce a un miscuglio di verdure, o di pesce, la calia («ceci abbrustoliti») in Calabria e Sicilia, coviglia a Napoli, nome di una sorta di semifreddo servito in bicchieri profondi. Insospettabili dialettalismi sono anche espressioni come essere in bolletta (dal milanese, in italiano è registrato dal 1905).
Da una pioneristica indagine del 1974 effettuata dalla Doxa, istituto per le ricerche statistiche e l’analisi dell’opinione pubblica, per quanto inficiata dalla provenienza non diretta delle rilevazioni dei dati, si ricavano le seguenti percentuali relativamente agli usi linguistici: ‘in famiglia’ solo in dialetto 51,3, in dialetto e in italiano 23,7, in italiano 25,0; ‘fuori casa’ solo in dialetto 28,9, prevalentemente in dialetto 13,4, in italiano e in dialetto 22,1, prevalentemente in italiano 12,9, in italiano 22,8.
Indagini statistiche effettuate successivamente mostrano una graduale ma lenta diminuzione nell’uso del dialetto rispetto all’italiano.
Restando ai rilevamenti della Doxa per l’uso del dialetto in famiglia, le percentuali risultano le seguenti: 51,3 nel 1974, 46,7 nel 1982, 39,6 nel 1988, 35,9 nel 1991, 33,9 nel 1996 (Avolio in Enciclopedia dell’italiano 2011, p. 359). I dati registrati dall’ISTAT circa l’uso esclusivo o prevalente del dialetto in famiglia sono: 32,0 nel 1988, 28,3 nel 1995, 19,1 nel 2000, 16,0 nel 2006. Vi è dunque un progressivo calo nell’uso esclusivo o prevalente del dialetto nell’ambito familiare, ma anche in altri contesti (fuori casa, con amici, con estranei).
Gli stessi rilevamenti mostrano l’aumentare dell’italofonia, che ha subito una forte crescita tra il 1988 e il 1995 (meno importante nel periodo successivo) in tutti e tre i contesti comunicativi e specialmente ‘con estranei’, passando dal 64,1 del 1988 al 71,4 del 1995.
Ma ciò che conta maggiormente rilevare è la progressiva crescita dell’uso di italiano e dialetto, un uso misto che in famiglia passa dal 24,9 del 1988 al 28,3 nel 1995 al 32,9 nel 2000, per assestarsi al 32,5 nel 2006, a conferma che il dialetto anche in alternanza con l’italiano non si perde e contribuisce ad arricchire il patrimonio linguistico italiano. L’uso misto in famiglia aumenta di dieci punti percentuali nell’Italia insulare (dal 31,6% nel 1995 al 41,4% nel 2000) e di sei punti nell’Italia meridionale (dal 39,6% nel 1995 al 46% nel 2000).
Se si considera la comunicazione con gli amici, la media nazionale relativa all’uso misto è del 32,7 nel 2000, 32,8 nel 2006. Tra il 2000 e il 2006, se l’uso prevalente del dialetto è diminuito, rimane stabile, se non con qualche aumento in alcune aree, l’uso misto di italiano e dialetto nelle tre situazioni considerate.
Significativi sono poi i dati per le diverse aree e per le singole regioni. In generale si osserva che le regioni con maggiore presenza del dialetto in famiglia nell’ultimo rilevamento ISTAT del 2006 sono il Veneto con 38,9 la provincia di Trento 38,5, la Calabria 31,3, la Basilicata 29,8 (nel 2000 la percentuale era del 25,9) e la Sicilia 25,5 la Campania 24,1, il Molise 24,2 rispetto alla media nazionale del 16,0. Le regioni in cui è più alta la percentuale di uso misto italiano e dialetto in famiglia sono la Campania 48,1, la Puglia 47,9, la Sicilia 46,2, il Molise 42,3, rispetto alla media nazionale che è del 32,5.
I dati raccolti dai sondaggi statistici consentono di apprezzare differenze nell’uso del dialetto tra regioni, ma anche altri fattori, quali l’aumento delle percentuali nell’uso del dialetto in relazione all’età, le variazioni connesse alla condizione e posizione nella professione, l’influsso che può avere il livello di istruzione. Non chiariscono quale tipo di idioma effettivamente si parla, se si tratti di un dialetto conservativo o meno, quale varietà di dialetto, come si usano sia italiano sia dialetto, se si tratti di diglossia e/o dilalia, i livelli di competenza.
Rispetto a queste considerazioni e ai dati statitistici che confermano che i dialetti non stanno scomparendo, ma sicuramente cambiando, da qualche anno ormai si sono registrati importanti segnali di una nuova collocazione del dialetto nel quadro sociolinguistico italiano, configurandosi come risorsa comunicativa a disposizione del parlante da affiancare all’italiano. Riprendendo le considerazioni di Gaetano Berruto: «un motto dell’Italia alle soglie del terzo Millennio sembra essere “ora che sappiamo parlare italiano, possiamo anche (ri)parlare dialetto”» (2002, p. 48). Per i bilingui il dialetto può non rappresentare un ostacolo alla promozione sociale, un indice di basso livello culturale, ma una possibilità in più nel repertorio comunicativo; anzi si osserva l’uso del dialetti in contesti alti e settoriali, nella stampa, nella pubblicità, nelle canzoni, nelle radio e televisioni locali e così via. Già dagli anni Novanta si parla di ‘nuova dialettalità’, o ‘risorgenze dialettali’, comprendendo anche l’uso del dialetto nelle conversazioni confidenziali e nelle nuove forme di scrittura molto vicine al parlato, blog, forum, sms ecc., che da alcuni anni interessa anche il mondo giovanile, e specialmente quello cresciuto senza dialetto. Se, infatti, il dialetto è presente in nuove situazioni comunicative, spesso gli utenti sono parlanti evanescenti o parlanti semiattivi che, avendo una limitata competenza, sono in grado di produrre frammenti di conversazione in dialetto, ma sono raramente veri dialettofoni, o dialettofoni fluenti, che invece si possono riscontrare in prevalenza nelle fasce d’età più alte e che ancora utilizzano correntemente il dialetto per i vari ambiti d’uso della conversazione quotidiana.
Al dialetto nei tradizionali e in nuovi domini comunicativi sono da associare valori diversi, da quello comunicativo/affettivo come lingua d’uso funzionale dell’impiego quotidiano all’altro espressivo/ludico, a quello simbolico/ideologico, fino all’altro ‘museografico’/folkloristico (Berruto 2006, p. 120); il livello di vitalità decresce dal primo all’ultimo dei valori indicati.
Per le singole regioni vengono successivamente riportati i dati statistici più recenti del 2000 e del 2006 (ISTAT 2007) relativi all’uso del dialetto e del dialetto e italiano nelle situazioni comunicative prese in esame dal sondaggio, che consentono di valutare la vitalità dell’idioma locale. Una descrizione delle varietà dialettali nella regione è per lo più esemplificata da alcuni tratti di carattere fonetico e morfosintattico, mentre si trascura il lessico per l’elevato grado di variazione nei diversi dialetti, come ampiamente dimostrato dalle ricerche di geografia linguistica in Italia e come, del resto, gli stessi italiani sono in grado di percepire ed esemplificare anche attraverso i numerosi dialettismi comunemente usati nell’italiano regionale.
Le più ampie descrizioni dei dialetti delle regioni italiane (talvolta subregioni) sono fornite dalla collana Profilo dei dialetti d’Italia (a cura di M. Cortelazzo, poi di A. Zamboni), iniziativa avviata dal Centro per lo studio della dialettologia italiana di Padova del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR); diversi sono i volumi pubblicati a partire dal 1974, ma al 2014 la collana è ancora incompleta.
Si menzionano qui di seguito alcuni fenomeni linguistici, specie di carattere fonetico, che vengono richiamati nell’esposizione relativa alle singole regioni. Elementi che caratterizzano l’area settentrionale nel suo complesso e che rientrano nel fascio di isoglosse che attraversa l’Appennino (pressappoco da La Spezia-Massa Carrara a Rimini-Fano) sono: la sonorizzazione delle consonanti sorde intervocaliche del latino (urtica › ortiga, urtiga), lo scempiamento delle consonanti intense o lunghe (graficamente: doppie) del latino (come in cappa › capa), la frequente caduta della vocale finale diversa da -a; tali fenomeni non sono presenti in area toscana e centromeridionale. Quest’ultima, individuata da un fascio di isoglosse che attraversa l’Appennino all’incirca tra l’area dei Colli Albani (vicina a Roma) e i dintorni di Ancona, ha, rispetto al toscano e all’area settentrionale, tra le sue particolarità più frequenti, le seguenti: la diffusa metafonesi (fenomeno che interessa limitatamente alcuni dialetti settentrionali) che presenta una casistica molto varia da un dialetto all’altro e, nell’area più propriamente meridionale, dove si verifica l’ammutimento della vocale finale (vocale evanescente: ë [ə]), assume una funzione grammaticale con distinzione di genere e numero (per es. in napoletano: maschile nirë «nero» e femminile nerë «nera»); l’assimilazione consonantica di nessi come -nd-, -mb- (come in monno per mondo, palummo per palombo); l’aggettivo possessivo enclitico, cioè posposto al nome (di parentela) a cui si riferisce: pàtrima («mio padre»), màtrima («mia madre»), sòreta («tua sorella»).
Un tratto comune al toscano e ai dialetti centro-meridionali è il raddoppiamento (o rafforzamento) fonosintattico, la pronuncia rafforzata di una consonante iniziale di un vocabolo preceduto da una determinata parola, che si realizza quando tra i due stessi termini non vi è una pausa: così si dice a Vvenezia per «a Venezia», talvolta reso graficamente in univerbazioni (soprattutto, ebbene e così via).
Ai dialetti settentrionali appartiene l’area galloitalica, che si caratterizza per la presenza di vocali turbate (ovvero le pronunce del tipo lüna «luna», cör «cuore»), il passaggio di -a- tonica a -è- che interessa in particolare il piemontese (in forme verbali: parlè «parlare», cantè «cantare» e così via), e soprattutto il romagnolo (sèl «sale», tèl «tale» e così via); specifici esiti del gruppo consonantico sono -ct- delle parole latine come lacte; l’estesa caduta di vocali non solo finali, ma in alcune varietà anche atone (dal latino telariu › tlèr in emiliano e romagnolo).
Si rileva una flessione circa l’uso esclusivo o prevalente del dialetto ‘in famiglia’, che passa dall’11,4 al 9,8, ‘con amici’ dal 7,6 al 5,6, ‘con estranei’ dal 2,2 al 1,4; tale diminuzione, per quanto assai modesta, si osserva anche circa l’uso di italiano e dialetto ‘in famiglia’, che passa dal 27,3 al 25,4, ‘con amici’ dal 25,6 al 25,4, ‘con estranei’ dall’11,3 al 10,7.
Il Piemonte è interessato, oltre che dal dialetto piemontese, anche dalla presenza di minoranze linguistiche storiche: l’occitano e il francoprovenzale nella fascia occidentale della regione, il walser nelle località di Alagna, Formazza, Macugnaga, Rima e Rimella; i parlanti tali minoranze sono normalmente anche parlanti piemontese, varietà che ha rappresentato il tipo linguistico più prestigioso, percepito anche come mezzo di ascesa sociale, in tale funzione sempre più sostituito dall’italiano.
La l. reg. 10 apr. 1990 nr. 26 con le successive integrazioni e modificazioni (l. reg. 17 giugno 1997 nr. 37) considera lingue storiche del Piemonte non solo le citate minoranze, ma anche il piemontese, la più diffusa sia numericamente sia geograficamente. Nell’ambito della ricerca scientifica sul dialetto rientra la realizzazione dell’Atlante linguistico ed etnografico del Piemonte occidentale (ALEPO), nato da un progetto degli anni Sessanta che a partire dal 2004 ha dato luogo alla pubblicazione di una serie di moduli (Telmon, Canobbio 2004).
Come conseguenza dell’antico assetto storico del territorio, frammentato politicamente, la situazione linguistica del Piemonte si presenta piuttosto frazionata in varietà linguistiche che sono decisamente caratterizzate.
Nei secoli passati in buona parte del territorio era presente un’ampio dominio dei Savoia, in una parte quello dei Visconti lombardi, il Monferrato residuo della Marca ligure, cui si aggiunse il marchesato di Saluzzo; in questa suddivisione territoriale vari erano i centri importanti: Torino, ma anche Aosta, Ivrea, Pinerolo nel ducato dei Savoia, Vercelli e Novara in zona lombarda, Casale e Chivasso nel Monferrato, Saluzzo nel marchesato omonimo, e Torino cominciò ad assumere un ruolo di capitale tra il 16° e il 17° sec., quando i Savoia, non potendo espandersi nella zona al di là delle Alpi, incominciarono a volgere le loro mire verso la Pianura padana.
Elemento importante in questa caratterizzazione del Piemonte è anche «la sua collocazione, che la pone a fare da tramite fra due culture, due o più famiglie linguistiche. Più francese di ogni altra regione italiana, se si eccettua la Valle d’Aosta […] il Piemonte può dirsi anche, per altro verso, la più italiana delle regioni francesi» (Telmon in Lexikon der Romanistischen Linguistik, 1988, p. 482).
Il piemontese appartiene al gruppo dei dialetti galloitalici, che in generale si caratterizzano per la presenza di vocali turbate ü e ö, e la caduta di vocali finali tranne -a; ma l’area galloitalica presenta alcune opposizioni al suo interno, e il piemontese condivide elementi ora con il ligure e l’emiliano, ora con il ligure e il lombardo e così via.
Il tipo dialettale che si può definire propriamente piemontese interessa sostanzialmente l’area centrale della regione torinese, ma la sua costituzione non è il risultato di un irradiamento da Torino, anche se il linguaggio della capitale è stato il modello per il formarsi di una koinè. Con il termine piemontese si può intendere la koinè estesa nelle principali città del Piemonte e nella Valle d’Aosta, ma anche l’insieme delle diverse aree con le parlate locali, cioè la parte più centrale della regione. Le aree periferiche sono orientate verso tipi e tratti linguistici esterni: verso la Liguria, la Lombardia, l’Emilia le aree dialettali mostrano un passaggio graduale. Le parlate della provincia di Novara sono di tipo lombardo, una parte della provincia di Alessandria si ritiene di tipo emiliano, una fascia meridionale, dalla provincia di Cuneo a quella di Asti e Alessandria, appartiene al tipo ligure.
Se per l’infinito del verbo della prima coniugazione il tipo piemontese mostra la palatalizzazione à › è, si osserva che la forma mangè, che si oppone al lombardo mangià, si riscontra a Torino, ma è presente anche a Vercelli dove, però, si dice l’ai mia fam («non ho fame»), come il lombardo minga fam, e non come il piemontese i l’ai nen fam.
Oltre alla palatalizzazione di a ›e, le caratteristiche più tipiche del piemontese annoverano pronunce come ü per u (nel Monferrato i); la dittongazione ei come in teila («tela»), meis («mese»), la caduta delle vocali finali diverse da -a, la tendenza alla sincope o aferesi delle vocali. Un dato interessante riguarda il mantenimento di -u finale atona in parole parossitone come prigu («pericolo»), che concorda con le varietà occitane o francoprovenzali, che hanno forme come gumu («gomito»).
Nel consonantismo è presente la lenizione delle sorde intervocaliche nell’evoluzione dal latino al romanzo, con soluzioni che mantengono la consonante come in seda («seta»), ma anche la perdono del tutto, come per es. rua («ruota»), mania («manica»), come in francese; frequente la velarizzazione di -l- seguita da consonante come in aut («alto»), caud («caldo»); si registra la palatalizzazione del nesso latino -ct-, un tratto del gruppo galloitalico che si ritrova anche in Liguria e Lombardia occidentale e per il Piemonte viene indicato come tipico l’esito -it, per es. lait («latte»), ma l’esistenza di coppie di parole spesso coesistenti nella stessa area, del tipo làcia («latticello del latte») rispetto a lait («latte») lascia supporre la presenza anche della palatalizzazione -c’ [t∫] oltre che -it-, quest’ultima considerata un’innovazione dovuta a influssi transalpini, peraltro piuttosto precoci essendo l’esito -it- attestato dai Sermoni subalpini (fine 12°-inizio 13° sec.). La distribuzione geografica di questo tratto mostra che làjt (che è anche torinese) è di area occidentale, lac’ orientale.
Nella morfologia si possono segnalare alcuni tratti come il plurale femminile in -i di gambi («gambe»), scali («scale»), che interessa il Piemonte orientale. Caratteristica è la desinenza personale in -uma della prima plurale del presente indicativo, del futuro e del presente congiuntivo, uguale per le tre coniugazioni: cantuma («cantiamo»), da confrontare con -um, -em dell’area dialettale lombarda, -emu in quella ligure; rispetto a questo tratto, di ampia diffusione areale, la variazione mostra che se il torinese o il biellese hanno -uma nei vari casi, nel canavese si trova -a. (càntan) nel langarolo-monferrino si trova -uma della prima coniugazione rispetto a -ima della seconda e terza, con altre possibilità come -juma per la terza.
Nella suddivisione dei dialetti pedemontani proposta da Berruto (1974, p. 12) sono evidenziati il piemontese, le varietà del piemontese (il canavese, il biellese, il langarolo-monferrino, l’alto piemontese); i dialetti delle zone intermedie: vercellese (piemontese e lombardo), alessandrino (piemontese con lombardo, emiliano e ligure), la fascia meridionale del Piemonte (piemontese e ligure). Non piemontesi sono il novarese e il dialetto dell’Ossola, che sono invece zone lombarde.
La Valle d’Aosta è una regione di minoranze linguistiche storiche, come definite nella l. 482 del 1999. Si tratta del francoprovenzale dei patois, del walser del gruppo germanico a Gressoney-La-Trinité, Gressoney-Saint-Jean e Issime; vi è presente il francese, lingua ufficiale con l’italiano.
Il plurilinguismo valdostano annovera anche il piemontese che, nella varietà canavesana, interessa alcuni centri importanti della bassa valle, come Pont-Saint-Martin e Verrès, dove ha soppiantato quasi completamente il francoprovenzale. In località del fondovalle, almeno fino ad Aosta, il piemontese è spesso adoperato, oltre al patois, come lingua veicolare di determinati ambienti, soprattutto nel commercio.
Il piemontese ha rappresentato una varietà di maggiore prestigio rispetto al patois francoprovenzale e la sua introduzione si deve verosimilmente all’attività commerciale, in particolare a partire dall’Unità d’Italia per arrivare al secondo dopoguerra. Oltre che tramite il commercio, il piemontese è entrato anche per contatto lungo il confine con il Canavese, mentre la koinè piemontese veniva ‘paracadutata’ ad Aosta e in altri centri dalla burocrazia torinese. La penetrazione del piemontese produce fenomeni di interferenza sul valdostano, specialmente con l’ingresso di piemontesismi.
Benché ancora vivo nelle comunità nelle quali si è sostituito al francoprovenzale, negli ultimi decenni il piemontese ha visto ridotto il suo prestigio e la sua adozione non rappresenta, come un tempo, un avanzamento sul piano sociale, ricoprendo una posizione marginale nel repertorio linguistico, e rimane ancora una conoscenza passiva nelle giovani generazioni.
Si registrano nella regione le seguenti percentuali. Per l’uso esclusivo o prevalente del dialetto: ‘in famiglia’ 12,6 e 9,3, ‘con amici’ 4,8 e 4,1, ‘con estranei’ 1,1, e 0,4; sia l’italiano sia il dialetto: ‘in famiglia’ 24,4 e 24,5, ‘con amici’ 28,5 e 32,2, ‘con estranei’ 9,8 e 15,0; un’altra lingua: ‘in famiglia’ 7,1 e 15,3, ‘con amici’ dal 4,9 al 6,0, ‘con estranei’ 4,5 e 2,4.
Si rileva una flessione circa l’uso esclusivo o prevalente del dialetto ‘in famiglia‘ che passa dal 10,7 al 9,1, ‘con amici’ dal 10,0 al 7,1, ‘con estranei’ dal 2,3 al 1,9; tale diminuzione si osserva anche per quanto riguarda l’uso di italiano e dialetto ‘in famiglia’ che passa dal 27,9 al 26,6; lieve aumento, invece, nella situazione ‘con amici’ dal 24,4 al 25,0, e ‘con estranei’ dall’8,8 al 12,9.
Nelle aree periferiche e rurali il dialetto si conserva certamente meglio. Quanto a Milano, che nel passato ha ricoperto un ruolo anche linguistico molto importante, è significativo il fatto che nel 1983 sia comparso un adesivo con la frase «se parla anca milanes», per dire quanto e da quanto tempo ormai la situazione fosse cambiata.
Dalla fine del 20° sec. ragioni di carattere ideologico, di tipo nostalgico, talvolta come riflesso di atteggiamenti snobistici ed elitari, e altre ancora, hanno fatto riemergere la dialettalità specialmente in alcune aree, in modo visibile, con scritte e toponomastica in dialetto, ma anche con lezioni in idioma, non mancando spazio per il dialetto nei media.
Il tipo dialettale lombardo verso ovest, nord ed est occupa un’area più vasta di quella della regione amministrativa: a ovest interessa parte del Piemonte, a nord il Canton Ticino, e le valli grigionesi Calanca, Mesolcina, Bregaglia e di Poschiavo, verso est è penetrato in Trentino. Nell’area lombarda di sud e sud-est, invece, il tipo dialettale è meno diffuso rispetto ai confini amministrativi e s’incontrano i «dialetti di crocevia» (Lurati in Lexikon der Romanistischen Linguistik, 1988, p. 494): il mantovano è emiliano con recente influenza del veneto; anche il pavese è interessato dal tipo emiliano, ma risente d’influssi milanesi; l’Oltrepò pavese è area di contatto tra piemontese ed emiliano.
Il tipo dialettale lombardo appartiene al gruppo galloitalico, condivide pertanto taluni tratti con il piemontese, il ligure, l’emiliano; il passaggio alle aree dialettali contermini è graduale e sfumato.
Nelle vicende linguistiche della Lombardia un ruolo importante ricopre Milano, la cui centralità nella regione è già antica e dalla quale si irradia un’influenza, tradotta per lo più in un’azione di standardizzazione ovvero di livellamento di tratti dialettali locali, anche per l’importanza della lingua letteraria. Scrivevano agli inizi degli anni Settanta Giacomo Devoto e Gabriella Giacomelli: «Il lombardo più genuino e arcaico lo si andrà a studiare un giorno, piuttosto che in qualsiasi altro centro della Lombardia, a Bellinzona, dove l’uso del dialetto si mantiene anche a livello borghese» (1972, p. 21).
Tuttavia, tale influenza milanese, anche indiretta, attraverso i centri maggiori (come Como, Varese, Lecco, Bellinzona), non è però servita a formare un modello lombardo unitario, come possono mostrare la conservatività del contado, o le parlate di talune aree, in particolare quelle di Pavia, Lodi, Cremona e Mantova. La storia linguistica della Lombardia non si esaurisce con quella di Milano, anzi si può parlare di «una pluralità di poli irradiativi» (Lurati in Lexikon der Romanistischen Linguistik, 1988, p. 494). Per diverse ragioni, non ultima l’appartenenza alla diocesi ambrosiana, l’irradiazione del milanese si avverte maggiormente nelle parlate delle aree occidentali; si può pertanto dire che: «C’è meno differenza in certo senso fra la piemontese Novara e Milano che fra Milano e Bergamo» (Devoto, Giacomelli 1972, p. 25) e il corso inferiore dell’Adda costituisce una sorta di confine dialettale.
Tratti linguistici lombardi, o del ‘lombardo comune’, che sono riscontrabili in generale nel gruppo dialettale galloitalico, sono costituiti dalla caduta della vocale finale diversa da -a, dalla presenza della vocale turbata ü, dalla degeminazione e lenizione consonantica; interessanti taluni esempi di metafonesi, un tempo più diffusa, e in aree periferiche come quelle ticinesi si trova per es. milanìs, plurale di milanés. Nel consonantismo, ricorre l’esito palatale c’ [t∫] da -ct- del latino, quindi lac’ («latte»). A livello morfologico ci si limita a citare il pronome ghe («gli», «loro»), che condivide con il ligure, mentre il piemontese ha i; diverse sono invece le sorti di -atu del participio passato o terminazione nominale che, a seconda delle diverse evoluzioni fonetiche locali e influssi connessi, può presentarsi come cantàt nella Lombardia orientale, cantào e quindi cantà in quella occidentale e a Milano, forma che tende a diffondersi anche verso oriente, e ancora in area orientale possono riscontrarsi forme come fac’ («fatto», ‹ latino factu) e, per analogia, andàc («andato»).
Un’articolazione delle varietà dialettali lombarde comprende le seguenti sezioni: lombardo occidentale, lombardo orientale, lombardo alpino, i dialetti trentini occidentali, la sezione di Sud e Sud-Est o ‘dialetti di crocevia’.
Tra i tratti linguistici significativi delle varietà della sezione occidentale comprendente pressappoco le province di Milano, Varese, Como e Bellinzona, rientra la presenza di ü, la caduta di -l e -r finali dopo la vocale tonica, come in saa («sale»), la presenza di lunghezza vocalica con funzione distintiva come in andà («andare»), andàa («andato»). Il lombardo alpino (l’Ossolano, la parte superiore del Canton Ticino, l’Alta Valtellina, le valli grigione italiane), piuttosto conservativo e più divergente dal modello milanese, anche in ragioni del contesto geografico, mostra tracce di palatalizzazione di c- e g- latine davanti ad -a- come cian («cane») e di mantenimento dei nessi latini con -l- come in claf («chiave»). La sezione orientale (le province di Bergamo e Brescia, la parte settentrionale di quelle di Cremona e Mantova) si presenta meno unitaria di quella occidentale ed orientata sui due poli rappresentati da Bergamo e Brescia. Tra i tratti linguistici si notano la caduta della consonante nasale dopo la vocale tonica: be («bene»), bu («buono»), tep («tempo»), i («vino»); tipico dell’area bergamasca e di quella bresciana di pianura è l’aspirazione di s sorda in h come in hal («sale»). L’area dei dialetti trentini occidentali, comprendente le Giudicarie inferiori, la Val di Ledro e la Val Rendena, rappresenta una propaggine dell’area dialettale di tipo lombardo, essendo stata interessata, per contiguità, da un’antica penetrazione di tale tipo linguistico e configurandosi culturalmente e linguisticamente come lombarda. Anche Trento ha svolto un ruolo di diffusione di innovazioni prima lombarde poi anche venete. L’area presenta tratti linguistici tipici del lombardo come le vocali turbate (ü, ö), h per s, come hémper («sempre»), la caduta di -n finale come ca («cane»), bé («bene»), tuttavia non mancano tratti veneti dovuti al successivo influsso di questa varietà, come la presenza del participio in -ést(o) e il morfema -o di prima singolare presente in tutto il Trentino, in opposizione al lombardo -i/-e. L’area dei ‘dialetti crocevia’ comprende le parlate della zona di Pavia, Lodi, Cremona e Mantova, territori su cui influiscono poli di irradiazione diversi. Nelle parlate pavesi s’incontrano affinità con Piacenza, con il Piemonte e la Liguria; in quelle lodigiane e cremonesi con l’Emilia, in quelle mantovane anche con il Veneto.
I dati relativi all’uso del dialetto, di italiano e dialetto, di altre lingue in tal caso mostrano il bilinguismo italiano-tedesco dell’Alto Adige, con il ladino in alcune aree, sdoppiando per provincia i risultati.
Considerando la regione nel suo complesso, le percentuali che risultano circa l’uso prevalente o esclusivo del dialetto ‘in famiglia’ sono 23,1 nel 2000, 20,4 nel 2006; ‘con amici’ 21,3 nel 2000, 18,2 nel 2006; ‘con estranei’ 11,8 nel 2000, 6,3 nel 2006. Le percentuali circa l’uso di italiano e dialetto ‘in famiglia’ 15,3 nel 2000, 15,1 nel 2006; ‘con amici’ 16,8 nel 2000, 16,5 nel 2006; ‘con estranei’ 17,4 nel 2000, 12,7 nel 2006.
Nella provincia di Trento si registrano per l’uso prevalente o esclusivo del dialetto ‘in famiglia’ 43,6 nel 2000, 38,5 nel 2006; ‘con amici’ 41,1 nel 2000, 34,3 nel 2006; ‘con estranei’ 6,3 nel 2000, 3,3 nel 2006. Per l’uso di italiano e dialetto ‘in famiglia’ 24,6 nel 2000, 25,6 nel 2006; ‘con amici’ 27,4 nel 2000, 27,5 nel 2006; ‘con estranei’ 27,6 nel 2000, 19,6 nel 2006.
Come si può osservare dai dati statistici, il Trentino è un’area con un significativo livello di dialettofonia, ricorrente specialmente in famiglia e con gli amici. Sommando le percentuali per il 2006 il dialetto è presente in famiglia nella percentuale del 64,1 rispetto al 48,5 della media nazionale; con gli amici 61,8, mentre la media nazionale è del 46,0.
Nella provincia di Bolzano, aggiungendo anche il dato relativo ad ‘altra lingua’ si rilevano per l’uso prevalente o esclusivo del dialetto: ‘in famiglia’ 1,8 nel 2000, 1,5 nel 2006; ‘con amici’ 0,7 nel 2000, 1,3 nel 2006; ‘con estranei’ 0,6 nel 2000, 0,2 nel 2006; per l’uso di italiano e dialetto ‘in famiglia’ 5,7 nel 2000, 4,1 nel 2006; ‘con amici’ 5,8 nel 2000, 5,0 nel 2006; ‘con estranei’ 6,9 nel 2000, 5,5 nel 2006; per ‘altra lingua’: ‘in famiglia’ 70,0 nel 2000, 65,5 nel 2006; ‘con amici’ 70,0 nel 2000, 64,3 nel 2006; ‘con estranei’ 66,4 nel 2000, 60,3 nel 2006.
Nella regione oltre alla presenza del tedesco nella provincia di Bolzano, sia in questa sia in quella di Trento sono presenti località in cui si parla il ladino, minoranza linguistica storica (l. 482 del 1999), come anche le parlate di tipo tedesco in alcune isole alloglotte del Trentino.
Il ladino, parlato in valli che appartengono alle province di Trento, di Bolzano e di Belluno, è caratterizzato da una notevole differenziazione al suo interno. Condivide tratti linguistici con la maggior parte o l’intera area settentrionale, come la sonorizzazione delle consonanti sorde intervocaliche, la semplificazione delle consonanti doppie, la caduta delle vocali in fine di parola (tranne a ed e del femminile). Tra le specificità vi sono la palatalizzazione di ca- e ga- come in ciavàl («cavallo»), cesa («casa»), che mostra anche un altro tratto tipico consistente nel passaggio di a tonica a e; la conservazione di -s finale del latino come desinenza del plurale, per es. cópes («coppe») e come desinenza verbale della seconda persona singolare, per es. ciàntes («tu canti»). Un tipo dialettale definito semiladino è quello della Val di Non (a nord-ovest della provincia).
Il tipo dialettale del Trentino è costituito da un insieme di varietà che mostrano diversi influssi provenienti da aree distinte, su cui hanno inciso la pressione galloitalica e quella veneta (da sud). Le vie di penetrazione sono le Giudicarie, la Val Lagarina, la Valsugana, avendo come meta comune Trento, da qui risalgono in parte verso le valli del Noce, dell’Avisio, del Fersina. Nell’Alto Adige, da settentrione proviene invece l’influsso bavarese attraverso Resia, Brennero e Dobbiaco, scendendo lungo le valli dell’Adige, dell’Isarco e della Rienza verso Bolzano, fino alla stretta di Salorno.
Nelle valli trentine occidentali è evidente l’influsso lombardo al quale si devono tratti quali le vocali turbate (ü, ö), la caduta della consonante nasale in fine di parola, come vi («vino»).
Dell’influsso del veneto del tipo vicentino e bellunese risente l’area trentina orientale; in Valsugana, in particolare, mancano, per es., le vocali turbate e la prima persona plurale del presente indicativo è -émo; il dialetto della regione del Primiero è di tipo feltrino.
Vi è poi l’area dialettale trentina centrale, che è di tipo veneto-lombardo, con due varietà principali, quella urbana e quella rustica, largamente venetizzata con alcuni residui di tipo galloitalico, cioè lombardo, meglio conservata nel tipo rustico; sono compresi il cembrano (Val di Cembra) e il fiammazzo (Val di Fiemme), che rappresentano situazioni linguistiche conservative.
Per l’area trentina centro-meridionale della Val Lagarina (con centri a Rovereto e Ala), in parte orientata sul veneto occidentale, si può notare, per es., la risoluzione della nasale finale nell’unico esito -m: pam («pane»), bom («buono»).
Le tracce lombarde riguardano per es. le vocali turbate ü e ö, ancora presenti nel Trentino centrale, così per «cuore» in Val di Fiemme si ha cuer, ma a Predazzo e Mezzolombardo cör, a sud, a Rovereto come in Valsugana, cór. Interessante anche il trattamento del vocalismo finale, per questo tratto sono ancora lombardi a Rovereto bas («basso»), car («carro»), part («parte»), diversamente da basso, carro, parte in Valsugana.
Per quanto riguarda la morfologia verbale, si può confrontare, per es., la desinenza della prima persona plurale del verbo con la forma occidentale come sum («siamo»), gum («abbiamo»), vulùm («vogliamo»), in una località come Pinzolo (alto bacino del Sarca), di tipo veneto come sem, gavém, volém a Rovereto, son, aòn, vulòn a Cavalese (Val di Fiemme).
Si ravvisa una particolare vitalità della dialettofonia nella regione. Per l’uso prevalente o esclusivo del dialetto: ‘in famiglia’ 42,6 nel 2000, 38,9 nel 2006; ‘con amici’ 38,2 nel 2000, 37,3 nel 2006; ‘con estranei’ 14,2 nel 2000, 15,7 nel 2006. Per l’uso di italiano e dialetto ‘in famiglia’: 29,8 nel 2000, 31,0 nel 2006; ‘con amici’ 34,4 nel 2000, 33,3 nel 2006; ‘con estranei’ 32,0 nel 2000, 28,7 nel 2006.
La regione è interessata, oltre che dal dialetto veneto, da minoranze linguistiche storiche (l. 482 del 1999). Si tratta di isole linguistiche tedescofone (il cosiddetto cimbro dell’area dei Tredici comuni nel Veronese e dei Sette comuni dell’Altopiano di Asiago, e il tipo carinziano di Sappada, in provincia di Belluno); nell’estremo lembo orientale del Veneto alcune località friulaneggianti appartengono a un’area di transizione occidentale friulano-veneta; in provincia di Belluno vi sono comunità ladine.
La tenuta del dialetto dipende da circostanze diverse. Per l’aspetto extralinguistico l’eco del prestigio che il dialetto ha avuto nel tempo grazie a Venezia, la cui superiorità politica, economica e culturale almeno dal 15° sec. ha determinato l’espansione di questo tipo linguistico attraverso la formazione di una koinè regionale, il progressivo declassamento di varietà illustri come il pavano, nonché la sua diffusione nei diversi territori su cui ha governato la Serenissima o nei quali ha avuto interessi mercantili, grazie ai quali il veneziano è diventato il veicolo di comunicazione dei commerci.
Considerato poi che, nelle varietà veneziana e centrale (padovano-vicentino-polesano) il dialetto non presenta caratteri galloitalici, la struttura della parola si conserva ed è ridotta la caduta di vocali finali. Il dialetto può dirsi non così distante dal tipo toscano e italiano e comprensibile anche per chi non sia dialettofono, e ciò favorisce il suo mantenimento. La vitalità del dialetto è anche in relazione allo scarso sviluppo dell’urbanesimo e al mantenimento di un’attività ancora in parte legata all’agricoltura, che è stata affiancata da una piccola e media industria locale. L’espansione del veneziano, per contatto o per effetto di ricaduta, ha interessato in particolare il territorio della regione Friuli Venezia Giulia, divenuto in parte dominio di Venezia dal 1420. Grazie al prestigio, questo ‘veneto coloniale’ si è imposto nei centri urbani come Udine, Pordenone, dove ha affiancato (come a Udine) o soppiantato (Pordenone) il friulano. Si è imposto definitivamente sulla lingua locale, il tergestino di tipo friulaneggiante, grazie alle attività commerciali nel 18° sec. anche a Trieste.
Accanto alla koinè e al veneziano, si sono mantenute le varietà locali con caratteristiche proprie specialmente nei piccoli centri della campagna. In indagini sull’uso e l’opinione circa il dialetto con parlanti di diverse fasce sociali emergono alcuni elementi quali la difficoltà, soprattutto da parte dei giovani, a dichiarare l’uso del dialetto, un certo fastidio quando si sente parlare dialetto in televisione, a meno che non si tratti del veneziano nettamente preferito alle altre varietà venete. Ma altri intervistati sostengono di esprimersi in dialetto in diverse occasioni, e taluni ritengono che sia importante continuare a parlare il dialetto, anche per manifestare l’identità veneta.
Il tipo dialettale veneto è costituito dalle seguenti varietà: veneziano, veneto centrale (padovano-vicentino-polesano), veneto settentrionale (trevigiano-feltrino-bellunese), veronese, trentino.
L’egemonia del veneziano, base della koinè, ha consentito la diffusione di tratti di origine veneziana, tra i quali la pronuncia di -l- evanescente, cioè una pronuncia del tipo cavàeo («cavallo»), e con caduta in cae («calle»), stèa («stella»), di qui in corrispondenza dell’italiano «hanno legato i galli» il veneto dice i ga igà i gai come una sorta di scioglilingua. Tale tratto ha raggiunto più o meno capillarmente altre varietà, non quella veronese; d’altra parte, guardando al modello veneziano nelle altre varietà, almeno in quelle urbane, si sono persi caratteri locali come la metafonesi di -é- e -ó- per effetto di -i finale (come per es. pero al plurale piri).
Una delle differenze importanti tra le varietà riguarda la struttura della parola, che nel veneziano è caratterizzata da una scarsa incidenza della caduta della vocale finale, ancora meglio mantenuta in quella centrale; diversamente in quella settentrionale vi è un’ampia caduta della vocale finale diversa da –a. Interessato dall’apocope vocalica è anche il veronese.
Si ravvisano i seguenti dati: per l’uso prevalente o esclusivo del dialetto ‘in famiglia’ 16,6 nel 2000, 10,7 nel 2006; ‘con amici’ 13,5 nel 2000, 9,6 nel 2006; ‘con estranei’ 5,9 nel 2000, 2,6 nel 2006. Per l’uso di italiano e dialetto: ‘in famiglia’ 24,5 nel 2000, 20,9 nel 2006; ‘con amici’ 34,8 nel 2000, 27,4 nel 2006; ‘con estranei’ 29,8 nel 2000, 26,8 nel 2006. Per altra lingua: ‘in famiglia’ 24,4 nel 2000, 30,9 nel 2006; ‘con amici’ 18,0 nel 2000, 27,5 nel 2006; ‘con estranei’ 0,5 nel 2000, 11,3 nel 2006.
La maggior parte del territorio regionale è interessata da minoranze linguistiche storiche (l. 482 del 1999): il friulano, già oggetto di tutela per la l. reg. 22 marzo 1996 nr. 15, e, relativamente alla risposta per ‘altra lingua’ dei rilevamenti ISTAT, gli informatori almeno in parte hanno considerato tale il friulano. Nella regione vi sono altre minoranze linguistiche storiche: le varietà tedescofone di località montane come Sauris, Timau, presenti anche nel Canal del Ferro e nel Tarvisiano; le varietà slovenofone lungo tutta la fascia orientale della regione; lo sloveno è presente in modo particolare, anche nella varietà standard, nel Goriziano e nel Triestino.
L’area friulana corrisponde alla provincia di Udine, parte di quella di Pordenone e di Gorizia. Comprende diverse varietà che si differenziano l’una dall’altra (principalmente sono tre: friulano centro-orientale, carnico o settentrionale e occidentale), ma le diversità interne non impediscono la reciproca comprensione tra friulanofoni. È presente una koinè friulana che trae origine da una tradizione scritta letteraria. Il friulano presenta tratti linguistici che condivide con la maggior parte o l’intera area settentrionale, mancano invece tratti galloitalici come le vocali turbate e, in linea generale, non c’è il passaggio da -a- tonica a -e-. Tra gli elementi che invece lo distinguono vi sono: la palatalizzazione di ca- e ga- come in chian o cian («cane») e ghial o gial («gallo»); la conservazione di -s finale del latino, presente per es. nel plurale dei sostantivi femminili e in parte dei maschili; la presenza di vocali lunghe e brevi, che hanno funzione distintiva.
Accanto al friulano e alle altre alloglossie nella regione si parla anche il veneto, come varietà di contatto, che interessa la fascia occidentale della regione confinante con il Veneto. È presente anche il cosiddetto ‘veneto coloniale’, pervenuto attraverso l’egemonia veneziana, che si collega anche alla diretta dominazione veneziana di buona parte del territorio regionale dal 1420. Questo tipo di veneto si è imposto in particolare a Udine, oltre che in centri minori del Friuli, dove si è formata la varietà di ‘veneto udinese’, dotata di prestigio rispetto al friulano, ma negli ultimi decenni sostituita in tale funzione dall’italiano per cui il veneto udinese non è parlato dalle nuove generazioni ed è in fase di obsolescenza. A Pordenone, dove il friulano è scomparso alla fine del 19° sec., il veneto è presente sia nella varietà coloniale sia in quella di contatto, ovvero il veneto di tipo trevigiano, che interessa parte del territorio del Friuli occidentale.
Di genere coloniale è anche il triestino, il tipo dialettale veneto che giunse in città con i commerci e la cui presenza venne già attestata nel 14° sec.; a lungo questa varietà convisse con la parlata locale originaria, il cosiddetto tergestino, dai caratteri friulaneggianti, che nel 19° sec. scomparve definitivamente. Il triestino gode di una notevole vitalità, lo si può sentire parlare anche in situazioni di una certa formalità, e riveste un ruolo importante anche per la sua funzione simbolica: attraverso il dialetto passa l’integrazione nel tessuto sociale della città. In una prospettiva storica e socioculturale questa situazione linguistica di Trieste e il prestigio di cui gode il dialetto si spiegano come risultato di una spiccata tendenza all’individualità, e come manifestazione di italianità rispetto alla friulanofonia da un lato e alla slovenofonia dall’altro, di una città a vocazione marinara e commerciale rispetto a un entroterra agricolo. Il veneto triestino, grazie all’importanza della città (dal 18° sec. in avanti), ha fatto sentire la sua influenza anche nella zona monfalconese e goriziana.
Nella regione il veneto è presente anche nella varietà detta ‘veneto originario’. Si tratta di un tipo dialettale non dovuto a un processo di sovrapposizione del veneto sul preesistente friulano, ma a un’evoluzione in senso veneto a partire dal latino parlato nel territorio della linea di costa, interessando centri come Grado e Marano Lagunare; in entrambe le località il dialetto è vitale e mantiene bene anche i caratteri più specifici.
Più complessa l’interpretazione circa l’arcaicità del veneto detto bisiacco, indebolito nel suo uso attuale per la pressione del tipo triestino, incuneato nel Monfalconese tra l’Isonzo e il Timavo, varietà che ha risentito del contatto con il friulano, ma anche con lo sloveno.
I dati statistici relativi alla regione risultano i seguenti: per l’uso prevalente o esclusivo del dialetto ‘in famiglia’ 12,4 nel 2000, 8,3 nel 2006; ‘con amici’ 7,1 nel 2000, 6,0 nel 2006; ‘con estranei’ 1,7 nel 2000, 2,5 nel 2006. Per l’uso di italiano e dialetto: ‘in famiglia’ 17,9 nel 2000, 17,6 nel 2006; ‘con amici’ 20,3 nel 2000, 19,6 nel 2006; ‘con estranei’ 9,4 nel 2000, 8,7 nel 2006.
La dialettalità della Liguria non è particolarmente marcata ed è conseguenza di una crisi del dialetto iniziata già quasi un secolo fa. Si nota, tuttavia, un rinnovato interesse nei confronti del dialetto, uno sforzo nella valorizzazione che ne ha contenuto la perdita di vitalità, per lo più da inquadrare nel dibattito relativo alle identità locali, non soggetto, come in altre realtà a strumentalizzazioni di tipo politico, quindi come recupero funzionale dell’espressione culturale della regione, sostenuto da varie forme di associazionismo locale. In questo ambito è stato realizzato tra il 1985 e il 1992 il Vocabolario delle parlate liguri (4 voll.), che ha riunito intorno a questo progetto non solo studiosi, ma numerosi cultori locali. In direzione contraria alla contenuta dialettofonia risalta una intensa attività sul piano della scrittura di intento letterario in dialetto; attraverso la canzone poi, specialmente grazie a Fabrizio De Andrè (1940-1999), la varietà del genovese ha conosciuto notorietà.
Il tipo dialettale ligure occupa un’area più estesa della regione amministrativa, comprendendo a ovest il territorio francese di Tenda, a nord interessa aree amministrativamente in Piemonte, a est un’area presso Massa che appartiene alla Toscana.
Si configura, nel suo complesso, come un tipo con notevoli caratterizzazioni rispetto ad altri dialetti.
Le varietà liguri rientrano nel gruppo dei dialetti galloitalici, però con alcune differenze che consistono in caratteri galloitalici meno vistosi, non dipendendo da una diretta influenza gallica, ma da correnti e pressioni provenienti dalla Valle padana. Così, per es., come per i dialetti galloitalici vi sono le vocali turbate ü e ö, ma manca l’esito à › è negli infiniti (quindi lavà, rispetto al piemontese lavè); ridotta è la caduta del vocalismo finale e caratteristica la presenza di -u in fine di parola (di contro all’italiano -o). Al di là di La Spezia, a Sarzana e nell’area circostante si fanno sentire forti pressioni emiliane, da una parte, e toscane, dall’altra, quindi non solo mancano le vocali turbate, ma anche altri tratti si indeboliscono, come la lenizione delle consonanti.
Genova è il centro da cui si irradiano innovazioni, che variamente raggiungono il territorio ligure. Storicamente il genovese, inteso come l’insieme di parlate che condividono tratti comuni al dialetto di Genova, ma con un’estensione più ampia di quella della città, è la varietà più importante, che si espande sul territorio ed è modello per la koinè letteraria, anche al di fuori del territorio di origine. Le peculiarità del ligure si notano nella fragilità del consonantismo, che provoca incontri di vocali, spostamenti di accento e altri fattori. Così, per es. se in italiano si dice: «Io vidi un’aquila volare», in genovese si risponde a éia e âe? («aveva le ali?«) senza alcuna consonante; la variante dialettale influenzata dalla lingua letteraria, che annacqua i tratti locali, direbbe: «A l’aveiva e ae?» (Devoto, Giacomelli 1972, p. 13). Tra gli esiti consonantici si nota l’unificazione delle liquide -l- e -r- in posizione intervocalica, con successiva caduta, così dal latino matura si ha müa, da marina deriva màina con anticipazione dell’accento. Altri elementi assai particolari del ligure sono, tra gli altri, l’esito del latino pl- per cui a piano del toscano e pian del galloitalico o a bianco/bianc corrispondono rispettivamente i liguri cian e giancu, con un’evoluzione fonetica che trova paralleli in siciliano e in altri dialetti meridionali.
Nella morfologia del ligure è presente la metafonesi in presenza di -i finale del plurale, ridondante in casi come grendi («grandi»), pescuéi («pescatori», singolare pescòu), essenziale in casi come chen («cani») e sen («sani»), plurali rispettivamente di can («cane») e san («sano»).
Tenendo conto di aspetti prevalentemente fonetici, il dialetto ligure viene suddiviso in cinque diverse varietà: il cosiddetto ligure occidentale (da Ventimiglia a Taggia, con l’entroterra); la varietà centrale, da Taggia a Noli (con l’entroterra); il genovese; il tipo orientale, con centro a La Spezia (mentre la bassa Val di Magra con Sarzana e Castelnuovo è un’area di transizione in cui non prevalgono tratti liguri); le parlate dell’Oltregiogo, cioè al di là dello spartiacque, da Ormea (Cuneo) all’alta Val di Taro, un’area non uniforme con influssi ora piemontesi, ora lombardi, ora emiliani.
I dati statistici rilevati relativi alla dialettalità nella regione risultano i seguenti: per l’uso prevalente o esclusivo del dialetto ‘in famiglia’ 14,2 nel 2000, 10,5 nel 2006; ‘con amici’ 11,2 nel 2000, 7,9 nel 2006; ‘con estranei’ 3,0 nel 2000, 1,9 nel 2006. Per l’uso di italiano e dialetto: ‘in famiglia’ 26,7 nel 2000, 28,3 nel 2006; ‘con amici’ 26,3 nel 2000, 27,4 nel 2006; ‘con estranei’ 11,6 nel 2000, 12,6 nel 2006. Si nota una flessione nelle percentuali che riguardano l’uso esclusivo del dialetto, ma un aumento di quelle relative all’uso ‘sia italiano sia dialetto’.
L’area dialettale emiliano-romagnola è più ampia di quella della regione amministrativa interessando la parte meridionale della Lombardia, la Lunigiana fino a Carrara, la zona appenninica di Marradi (che appartiene alla provincia di Firenze), le Marche fino al corso dell’Esino. Se il passaggio verso l’area dialettale marchigiana, toscana e veneta è piuttosto marcato, più graduale è quello verso i tipi liguri, lombardi e piemontesi.
L’area rientra nel gruppo dei dialetti galloitalici, tra i tratti pertinenti vi è il passaggio di a ad ä, e che si confronta con a › e nella finale dei verbi piemontesi della prima coniugazione, tratto che in Emilia inizia solo a est di Piacenza, per cui «sale» a Fiorenzuola si dice sal, a Parma säl. L’esito ü si trova nella bassa parmense, in quella reggiana e nella zona appenninica, sicché nel bolognese si dice dur «duro».
Tradizionalmente si distingue tra un’area dialettale occidentale (piacentino, parmense, reggiano, modenese) e orientale (bolognese, romagnolo, ferrarese), con riferimento al corso del Panaro, ma in realtà si tratta di un continuum linguistico.
Di ampia diffusione nell’emiliano-romagnolo è la caduta della vocale finale diversa da -a, estesa sincope vocalica, le postoniche non finali e le protoniche cadono specialmente nel romagnolo e nel bolognese, meno di frequente nei dialetti occidentali, di qui parole come dmandga («domenica»), sbdel («ospedale») del bolognese.
Tra i vari tratti significativi nei diversi dialetti, vi è la metafonesi dovuta a -i finale prima della sua caduta e dunque importante a fini morfologici principalmente in sostantivi e aggettivi. La metafonesi riguarda specialmente i dialetti romagnoli e il bolognese, per es. nel faentino si trova per il singolare pes («pesce») per il plurale pis («pesci»), nel bolognese pa («piede») e pe («piedi»). Nel plurale femminile di nomi in -a e negli aggettivi le uscite in -i (nelle diverse varietà, tranne il piacentino): sureli («sorelle») nel ferrarese, ecc., sono plurali che si conservano dove si distingue un plurale femminile da un plurale maschile, come amig («amico» e «amici»), amighi («amiche») altrimenti il plurale in -i viene meno come in furmiga («formica») e formig («formiche»).
Nel complesso il dialetto emiliano-romagnolo, pur presentando alcuni fenomeni che hanno un’ampia distribuzione areale, è però caratterizzato da un’intricata articolazione interna, che rende difficoltosa una ripartizione in aree dialettali. Conseguenza di fattori storici e socioeconomici è la presenza di un policentrismo, per cui non si è avuta la formazione di una koinè dialettale su scala regionale. Piuttosto, come osserva Foresti, sul finire degli anni Ottanta, vi sarebbero elementi per supporre la formazione di koinè a livello provinciale, nonché «la compresenza nella regione di più norme dialettali (anche all’interno di una medesima provincia) sorrette da processi di adeguamento e standardizzazione micro-territoriali» (in Lexikon der Romanistischen Linguistik, 1988, p. 571).
Anche in Emilia-Romagna la dialettalità è più viva in situazioni periferiche, in piccoli centri, meno in quelli urbani; nei confronti del dialetto si registra un atteggiamento positivo, da tutelare in quanto patrimonio culturale, ma il suo uso poi è condizionato dalla situazione comunicativa, dal contesto. Nelle varietà emiliano-romagnole esiste una tradizione letteraria, colta, anche contemporanea, e in poesia, in particolare, s’incontrano numerosi nomi, tra i quali Aldo Spallicci (1886-1973) e Tonino Guerra (1920-2012), e altri autori specialmente, in anni più recenti, in versi nelle varietà romagnole.
I dati statistici circa l’uso di italiano e dialetto nella regione risultano essere i seguenti: per l’uso prevalente o esclusivo del dialetto ‘in famiglia’ 4,1 nel 2000, 2,8 nel 2006; ‘con amici’ 3,6 nel 2000, 2,3 nel 2006; ‘con estranei’ 2,6 nel 2000, 1,1 nel 2006. Per l’uso di italiano e dialetto: ‘in famiglia’ 10,1 nel 2000, 8,8 nel 2006; ‘con amici’ 9,4 nel 2000, 8,0 nel 2006; ‘con estranei’ 6,6 nel 2000, 5,8 nel 2006.
Va osservato che in Toscana non si può parlare di un’opposizione lingua-dialetto come in altre regioni; la relativa distanza tra l’italiano e le varietà locali rende difficoltoso per i toscani l’uso del termine dialetto, che preferiscono sostituire con vernacolo, e anche espressioni come abbandono del dialetto e progressiva italofonia non sono adeguate per questa situazione. Il parlato toscano nelle sue diverse varietà è caratterizzato da una notevole polimorfia, con numerose varianti fonetiche, morfologiche, lessicali (come mostra l’Atlante lessicale toscano in rete, http://serverdbt.ilc. cnr.it/altweb/), per cui la caratterizzazione locale si affida a elementi anche dialettali; vi è una incerta separazione tra i registri e una maggiore conservatività, specie nella morfologia e nel lessico.
L’area dei dialetti toscani occupa un’estensione minore rispetto alla regione amministrativa (non ne fanno parte le varietà della Lunigiana, dell’area carrarese e della Romagna toscana, le cui parlate sono di tipo settentrionale).
La dialettalità toscana è costituita da un continuum dal dialetto rustico, delle aree più periferiche e dei parlanti più anziani, a quello di parlanti giovani e di media età e negli insediamenti urbani, a un italiano locale differenziato (un tipo fiorentino, pratese, senese e grossetano, uno occidentale, uno lunigianese, uno aretino, uno delle aree più meridionali della regione), mentre non vi è un italiano regionale unitario per il policentrismo della regione, manca un adeguamento al modello fiorentino, che viene percepito come ad alta densità dialettale per la presenza di dialettalismi assai frequenti e ignoti ad altre aree non fiorentine. Si nota un attaccamento da parte dei parlanti giovani ad alcuni elementi del sostrato dialettale.
La tendenza in atto è quella di una progressiva perdita di caratteristiche locali o di elementi che non siano ampiamente diffusi nei dialetti toscani, d’altra parte alcuni tratti tendono a espandersi, come può essere la lenizione consonantica.
In una suddivisione tradizionale i dialetti toscani sono compresi nei seguenti gruppi: i dialetti occidentali (pisano-lucchese-pistoiese); i dialetti meridionali (senesi e grossetani) con taluni elementi che concordano con i laziali; i dialetti occidentali (aretino-chianaioli) che segnano la transizione al tipo umbro; il fiorentino. Rispetto a questa classificazione è stata successivamente proposta una più dettagliata, che enumera dieci varietà toscane sulla base di tratti morfosintattici (fiorentina, senese, pisano-livornese, lucchese, elbana, aretina, amiatina, basso garfagnina-alto versiliese, garfagnina settentrionale, massese) e otto varietà ‘grigie‘ (viareggina, pistoiese, casentinese, alto valdelsana, volterrana, grossetana-massetana, chianina, parlate del Sud-Ovest grossetano) che sono caratterizzate da fenomeni misti (Giannelli 1976, p. 14; Nesi, Poggi Salani, in I dialetti italiani. Storia, struttura, uso, 2002, pp. 415-16).
Tra i caratteri comuni si segnala l’assenza di fenomeni metafonetici, l’esito -aio da -ariu, l’uscita in -o per le parole che in latino terminano in -o e -u (presenza di -u nella varietà amiatina), la dittongazione di e e o brevi del latino (come in piede e nuovo); diffusa è la ‘gorgia toscana’, la pronuncia che suona come aspirata, in modo particolare delle consonanti occlusive, come in amiho («amico»); generale è la caduta della vocale atona finale quando è postvocalica e preconsonantica come in andà via per andai via e il raddoppiamento fonosintattico, anche con differenziazioni diatopiche.
Il tipo dialettale con il maggior numero di parlanti e il più conservativo è quello fiorentino che, rispetto ad altre varietà toscane, presenta l’anafonesi vale a dire pronunce come fungo per fongo, famiglia per fameglia; tra i vari tratti della morfologia del fiorentino, si segnala nel verbo la costruzione («noi») si e terza persona singolare del verbo, per la prima persona plurale cioè noi si va per «andiamo», una forma che è in espansione in altre varietà. Nel fiorentino rustico si mantiene per il passato remoto la forma in -onno come parlonno per «parlarono», il participio del tipo porto per «portato», forme che sono percepite come particolarmente ‘rustiche’. Il senese si configura come la varietà meno distante dall’italiano per un processo di livellamento dei tratti dialettali, che sono meno frequenti ed evidenti rispetto al fiorentino.
La vitalità del dialetto nella regione risulta essere la seguente: per l’uso prevalente o esclusivo del dialetto ‘in famiglia’ 13,0 nel 2000, 14,9 nel 2006; ‘con amici’ 11,9 nel 2000, 13,6 nel 2006; ‘con estranei’ 8,6 nel 2000, 7,6 nel 2006. Per l’uso di italiano e dialetto: ‘in famiglia’ 34,9 nel 2000, 37,7 nel 2006; ‘con amici’ 34,2 nel 2000, 39,6 nel 2006; ‘con estranei’ 22,7 nel 2000, 27,8 nel 2006. Si registra, perciò, un aumento della percentuale nell’uso esclusivo o prevalente del dialetto in famiglia e con amici, e di italiano e dialetto nelle tre situazioni considerate. Complessivamente si può parlare di buona tenuta del dialetto nella regione dato che, relativamente all’uso in famiglia anche se alternato con l’italiano, sommando i due dati risulta che la percentuale è del 52,6%, dunque superiore alla media nazionale che è del 48,5%. Significativo anche il dato relativo alla situazione ‘con amici’, che sale nel 2006.
L’area dialettale umbra non è unitaria ed è divisa in tre sezioni: quella perugina o nordoccidentale (compresi, oltre a Perugia, centri come Città di Castello, Umbertide, Gubbio), la sezione sudorientale (varietà di Foligno, Spoleto, Terni), la sezione sud-occidentale o orvietana, sostanzialmente affine al perugino, perciò si può parlare anche di bipartizione linguistica dell’Umbria, e in tal caso quest’ultima sezione può essere aggregata a quella perugina.
La sezione perugina o nordoccidentale (detta anche settentrionale) è in continuità con l’area dialettale toscana del tipo aretino e chianaiolo, dove sono presenti anche taluni influssi galloitalici, e presenta, tra le caratteristiche principali: la palatalizzazione della a tonica in sillaba libera, per es. sele («sale»), fenomeno, però, in via di dissolvimento; la notevole labilità delle vocali non accentate che tendono a cadere, per es. trapple («trappole») a Perugia, che si traduce nel cosiddetto ‘ritmo martellato‘ del perugino; la tendenza all’indebolimento delle consonanti intense prima dell’accento come in mulica («mollica») e la mancanza del raddoppiamento fonosintattico.
La sezione sudorientale (varietà di Foligno, Spoleto, Terni) si distingue, in particolare, per: la presenza della metafonesi, per influsso delle vocali finali -i e -u, per es. in munnu («mondo»), fiuri («fiori»), con differenziazioni diatopiche; la conservazione della distinzione tra -o e -u finali del latino, per es. otto rispetto a capillu («capello»), in continuità con i territori marchigiani di Camerino e Amandola (province di Macerata e Ascoli Piceno); le assimilazioni consonantiche in nessi come -nd-, -mb-, -ld-, come in callo («caldo»), gammo («gambo»), profonno («profondo»), importante tratto centro-meridionale, antitoscano, come la metafonesi; l’uso del possessivo enclitico come in fràtetu («tuo fratello»).
La sezione orvietana presenta tra le sue caratteristiche l’assenza della palatalizzazione di a tonica, il mancato indebolimento delle vocali atone, il plurale dei maschili in -e, cane («cani»), che si ritrova anche nel Viterbese, a Perugia e nelle Marche centrali.
Alle tre sezioni indicate, si aggiungono due aree di transizione, l’area Scheggia-Todi (che include centri come Assisi), dove s’incontrano taluni caratteri dialettali del territorio più a sud (nella classificazione dialettale, è la zona sudorientale di tipo mediano), e l’area Trasimeno-pievese di passaggio tra la Toscana orientale, il tipo perugino e quello orvietano.
I dati statistici riguardanti la dialettalità nella regione risultano essere i seguenti: per l’uso prevalente o esclusivo del dialetto ‘in famiglia’ 18,1 nel 2000, 13,0 nel 2006; ‘con amici’ 16,0 nel 2000, 13,6 nel 2006; ‘con estranei’ 9,3 nel 2000, 5,4 nel 2006. Per l’uso di italiano e dialetto: ‘in famiglia’ 42,2 nel 2000, 42,2 nel 2006; ‘con amici’ 41,7 nel 2000, 41,8 nel 2006; ‘con estranei’ 22,4 nel 2000, 25,0 nel 2006. Si conferma una sostanziale tenuta del dialetto e qualche aumento relativamente all’uso di italiano e dialetto.
È una regione assai differenziata per l’aspetto dialettale, nella quale si distinguono quattro aree principali, articolate in subaree. Qualche tratto comune alle diverse aree può essere la presenza degli infiniti tronchi e la metatesi di ra- (da re-) › a.- come in arcurdà («ricordare»), e taluni infiniti in -a come cora («correre»), veda («vedere»), l’uso della terza persona singolare anche per il plurale, per esempio loro va via, molto comune anche nell’italiano regionale.
La parte più settentrionale della regione corrisponde all’area dialettale pesarese, che arriva a comprendere anche la parte più a nord della provincia di Ancona. Nei dialetti dell’area, che si collegano a quelli romagnoli e rientrano nel gruppo galloitalico, s’incontrano, variamente distribuiti, tratti galloitalici come: la palatalizzazione di a tonica, come, per es., in pèder («padre»), sel («sale»); la caduta di vocali atone finale, tranne -a, e nel corpo della parola come in stimana («settimana»), dmèn («domani»); la sonorizzazione consonantica, diga («dica»), avùd («avuto»), e la degeminazione, vaca («vacca»).
Segue l’area centrale anconetana (comprendente i centri di Ancona, Osimo, Loreto, Jesi, Fabriano), nella quale sono presenti, in particolare, la conservazione di vocali finali e quella delle consonanti intense (che un dialetto come quello di Ancona ancora riduce), ma s’incontrano anche tratti tipici dell’area dialettale centro-meridionale come la metafonia, con forme come cuorpo («corpo»), assimilazioni consonantiche nei nessi -nd-, -mb-, -ld-.
Un’altra area è quella maceratese-fermana, che si collega alla zona umbra sudorientale, e interessa pressappoco il territorio compreso tra il corso dell’Esino e quello dell’Aso.
L’area ascolana, con la maggior parte della provincia di Ascoli Piceno, corrisponde alla fascia dall’Aso fino al Tronto; nelle varietà dell’area, con diverse concordanze con i dialetti abruzzesi, vi è una situazione molto complessa per quanto riguarda il vocalismo, vi si registrano dittongazioni e frangimenti, come in maila («mela») a Montalto, daice («dice») a San Benedetto, deice a Grottammare dove si ha bave («bove»), more («mare»); il vocalismo atono e specialmente finale si riduce a vocale indistinta ë [ə].
Si rileva nella regione una flessione circa l’uso esclusivo o prevalente del dialetto ‘in famiglia’ che passa dal 8,1 al 6,6, mentre ‘con amici’ rimane la stessa percentuale 6,9, ‘con estranei’ si registra un aumento dal 2,6 al 3,1. Per quanto riguarda l’uso ‘sia italiano sia dialetto’, lieve è la flessione nelle diverse situazioni: ‘in famiglia’ che passa dal 29,8 al 28,4, ‘con amici’ dal 28,4 al 27,1, ‘con estranei’ dal 14,1 al 12,0.
Il romanesco cittadino è ancora assai vivo, nonostante la vicinanza all’italiano; viene solitamente percepito dalla popolazione come il polo inferiore del continuum italiano locale. Pertanto risulta piuttosto difficile rispondere al quesito circa l’uso di dialetto e italiano e distinguere tra registri bassi dell’italiano e quelli più propriamente dialettali. Il romanesco è riflesso ampiamente in una ricca letteratura dialettale, che annovera nomi del passato come Trilussa e Belli e, tra gli autori più recenti, Mario Dell’Arco; inoltre è ben presente nella lingua del cinema con diversi protagonisti importanti e assai noti, da Anna Magnani ad Alberto Sordi e vari altri caratteristi.
La dialettalità del Lazio, regione che ha recentemente assunto gli attuali confini, si presenta come un composito insieme di varietà, complesso quanto regioni come l’Umbria e le Marche, più innovative e aperte a influssi esterni nell’area settentrionale e occidentale, più conservative nella parte meridionale e orientale. Nell’area a sud della regione si presenta una transizione verso il tipo dialettale meridionale, che s’incontra a sud del confine storico fra lo Stato pontificio e il Regno di Napoli; fino al 1927 esso segnava il confine fra il Lazio e la Campania, con varietà chiaramente campane come a Fondi, e propriamente napoletane (Gaeta, Formia e anche Cassino), e all’interno lungo il corso del Liri, varietà quasi abruzzesi (Sora), altre sono intermedie tra questi due tipi, come quelle di Atina, Arce, Pontecorvo, o di transizione rispetto al tipo dialettale mediano lungo la fascia da Terracina a Frosinone e a Guarcino (Avolio in Enciclopedia dell’italiano 2011, p. 763).
La posizione preminente di Roma non è tale dal punto di vista linguistico, non avendo esercitato, fino a tempi recenti, un ruolo decisivo come modello dialettale per il territorio.
La regione può essere suddivisa in tre principali aree dialettali: una di nord-ovest (la Tuscia viterbese, o dell’alto Lazio), una gravitante intorno a Roma che continua verso sud parallelamente alla costa fino circa al Circeo, e una a est e sud-est, comprendente la Sabina e la Ciociaria.
Alcuni tratti linguistici che si ritrovano nell’intera regione sono specialmente l’assimilazione consonantica nei nessi -nd- › -nn-, -mb- › -mm-, -ld- › -ll-, come in monno («mondo»), quanno («quando»), callo («caldo»); l’esito di -ri- › -r- come nell’esito del suffisso latino -ariu › -aro (toscano -aio); la costruzione stare a + infinito per esprimere un aspetto durativo: che stai a ffà? («che stai facendo?»), rispetto a stare + gerundio, che interessa sia la Toscana sia la Campania (Avolio in Enciclopedia dell’italiano 2011, p. 764).
Quanto ai caratteri dialettali, nella Tuscia viterbese e in alcuni comuni della parte settentrionale della provincia di Roma, sono presenti talune concordanze con la Toscana meridionale e l’Orvietano. Tra gli elementi tipici si segnalano i plurali in -e dei maschili, come le cane («i cani»); l’uso del possessivo enclitico posposto, come sòrema («mia sorella»); sono sporadici tratti come la metafonesi, la distinzione tra -o e -u in fine di parola.
Il tipo dialettale romano si va infiltrando in piccoli centri verso il viterbese, e soprattutto lungo la costa da Civitavecchia, Anzio, Nettuno (Vignuzzi in Lexikon der Romanistischen Linguistik, 1988, p. 634). Nella storia del dialetto cittadino si distingue tra un romanesco della prima fase fino al 16° sec. da quando ha conosciuto un processo di toscanizzazione perdendo così caratteri dialettali precedenti di tipo meridionale (‘romanesco di seconda fase’) di cui conserva ancora alcuni elementi quali l’assimilazione consonantica dei nessi sopra citata. Altre innovazioni caratteristiche si sono venute formando in tempi più recenti come l’indebolimento di -r-, per cui si pronuncia bira («birra»), l’indebolimento e la caduta di -l- in articoli, pronomi, preposizione e in particolari contesti con successiva fusione vocalica: lo vedi › o vedi, coll’amico › co l’amico › camico [k a:’miko], fenomeno osservato da Manfredi Porena nel 1925 e perciò chiamato lex Porena (p. 634).
Nelle varietà dialettali parlate a est e a sud del Tevere si presentano fenomeni più conservativi e del tipo dialettale ‘mediano’, non noti a Roma e nell’alto Lazio. Tra le varie caratterizzazioni si menzionano la metafonesi per influsso di -i e -u finali, per es. niru («nero») e niri («neri»), rispetto al femminile nera e nere a Rieti. Si mantiene la distinzione tra -o e -u finali già latine, come in otto (latino octo), rispetto a pilu («pelo», in latino pilum). Sono interessanti alcune tracce del neutro latino, così in alcune località si distingue tra lo ferru («il ferro, metallo)» e lu ferru («il ferro da stiro»), con la forma dell’articolo lo neutro (‹ latino illud) e lu maschile (‹ latino illum) (p. 625).
Nel Lazio meridionale, che apparteneva in passato alla Campania, il dialetto è del tipo ‘meridionale‘ e presenta in particolare: la vocale indistinta in fine di parola -ë [ə], con pronunce come quannë («quando»), tratto piuttosto diffuso nell’area; la metafonesi, piuttosto frequente, con varie soluzioni; l’articolo neutro lu.
I dati statistici rilevati riguardanti il dialetto nella regione risultano essere i seguenti: per l’uso prevalente o esclusivo del dialetto ‘in famiglia’ 22,9 nel 2000, 20,7 nel 2006; ‘con amici’ 19,0 nel 2000, 16,8 nel 2006; ‘con estranei’ 7,8 nel 2000, 6,9 nel 2006. Per l’uso di italiano e dialetto: ‘in famiglia’ 45,7 nel 2000, 38,3 nel 2006; ‘con amici’ 44,2 nel 2000, 39,5 nel 2006; ‘con estranei’ 19,9 nel 2000, 18,0 nel 2006.
Si rileva una lieve flessione nelle percentuali del 2006 rispetto al 2000, ma la dialettalità della regione rimane comunque al di sopra della media nazionale. Alla vitalità del dialetto si accompagnano esperienze di letteratura dialettale anche in questa regione.
Le varietà dialettali dell’Abruzzo rientrano nel tipo ‘meridionale’; si rilevano tratti del tipo ‘mediano’ nei dialetti dell’alta Valle dell’Aterno e della Marsica occidentale, in provincia dell’Aquila (area aquilano-sabina). Nella regione è presente un’isola alloglotta albanofona a Villa Badessa, frazione di Rosciano (Pescara) che rientra tra le minoranze linguistiche storiche (l. 482 del 1999).
La dialettalità abruzzese si può suddividere in alcune aree: una costiera fra Chieti e Teramo, una interna dall’Aterno al Sangro, una terza della Maiella, che si estende fino a San Vito, Guardiagrele, Vasto e che comprende anche il Molise; all’interno di tali aree si notano varie differenziazioni e nel complesso una notevole frammentarietà, pur permanendo l’intercomprensione.
In generale le parlate abruzzesi sono caratterizzate dalla vocale indistinta in fine di parola -ë [ə] e anche da quelle atone nel corpo della parola, con alcune restrizioni in sintagmi, per es. na bbella (anziché bellë) femmenë oppure na femmena bbellë («una bella donna»). È presente la metafonesi con una soluzione di tipo settentrionale, che non produce dittongazioni di -e- e -o- aperte, e una abruzzese meridionale e molisana con esiti dittongati -ié- e -uó-, che talvolta possono ridursi come li pidë ‹ li piëdë («i piedi») a Giulianova. L’area abruzzese conosce una notevole variazione nel vocalismo, mostrando significativi processi innovativi; sono frequenti i frangimenti delle vocali toniche, con dittongazioni, con o senza legami metafonetici e un grado di variazione diatopica notevole per cui ogni «centro abruzzese-molisano sarebbe istruttivo» (Devoto, Giacomelli 1972, p. 100), per es. ad Agnone fiaurë («fiore»), craucë («croce»), seunë («suono»), maisë («mese»); processi di frangimento sono dovuti a un forte accento intensivo. Quanto al consonantismo, anche in questa regione, come in tutto il sistema dialettale di tipo ‘meridionale’ sono diffuse le assimilazioni di nessi consonantici del tipo quannë («quando»), mannà («mandare»).
Inoltre, nell’area si fa uso del neutro, reso attraverso l’uso dell’articolo determinativo singolare in forma diversa come lë rispetto a lu, u e altre varianti, e in qualche dialetto della costa adriatica vi sono forme di pronomi e aggettivi dimostrativi, come a Bellante (Teramo), dove [’kwal:ə] si riferisce a «quella persona», [’kul:ə] a «quella cosa». Presenti nel territorio anche i plurali in -ora, con un morfema estratto dalle forme latine come tempora, come in tettërë («tetti»), pràtërë («prati»), dètërë («dita»), i costrutti con il possessivo enclitico come fràtëmë («mio fratello»).
I dati statistici rilevati riguardanti la vitalità del dialetto nella regione risultano essere i seguenti: per l’uso prevalente o esclusivo del dialetto ‘in famiglia’ 27,3 nel 2000, 24,2 nel 2006; ‘con amici’ 21,2 nel 2000, 19,1 nel 2006; ‘con estranei’ 8,9 nel 2000, 6,8 nel 2006. Per l’uso di italiano e dialetto: ‘in famiglia’ 36,0 nel 2000, 42,3 nel 2006; ‘con amici’ 39,3 nel 2000, 42,8 nel 2006; ‘con estranei’ 14,6 nel 2000, 23,4 nel 2006.
Si osservano flessioni nell’uso prevalente o esclusivo del dialetto, ma incrementi nell’uso di italiano e dialetto nelle tre situazioni nel rilevamento del 2006 rispetto a quello precedente. Nella regione sono presenti comunità alloglotte (l. 482 del 1999, in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche): quella croata, che interessa Acquaviva Collecroce, San Felice Slavo e Montemitro, e quella albanese (Montecilfone, Portocannone, Ururi, Campomarino).
Il sistema dialettale della regione, separata amministrativamente dall’Abruzzo nel 1963, rientra nel tipo dialettale ‘meridionale’ ed è affine all’abruzzese meridionale. Rispetto all’abruzzese gli esiti di nessi latini fl- e pl- sono di tipo campano: sciore e varianti («fiore»), chiagnë («piangere»).
Il Molise presenta un’omogeneità linguistica superiore a quella dell’Abruzzo. Tuttavia, benché unitario, il molisano può essere suddiviso in tre aree: l’Alto Molise, la parte settentrionale, montana, della provincia di Isernia, incentrata su Agnone, il Basso Molise, la fascia costiera e collinare della provincia di Campobasso, e il Medio Molise, la sezione più interna a ridosso del Matese, comprendente i due capoluoghi. Su tali aree giungono influssi di diversa provenienza che sono prevalentemente abruzzesi nell’Alto Molise, abruzzesi costieri e pugliesi nel Basso Molise, soprattutto campani nell’area del Matese e intorno alle due città. Campobasso in particolare è «una sorta di avamposto napoletano verso l’Adriatico» (Avolio in I dialetti italiani. Storia, struttura, uso, 2002, p. 610), dove non solo sono presenti influssi campani, che interessano il territorio, ma un influsso di Napoli, con cui la città molisana ha avuto un legame diretto, anche per la permanenza prolungata in loco di gruppi napoletani, per lo più personale dirigente dell’amministrazione pubblica e della scuola.
I dati statistici rilevati riguardanti il dialetto nella regione risultano essere i seguenti: per l’uso prevalente o esclusivo del dialetto ‘in famiglia’ 30,5 nel 2000, 24,1 nel 2006; ‘con amici’ 26,2 nel 2000, 19,7 nel 2006; ‘con estranei’ 15,4 nel 2000, 10,0 nel 2006. Per l’uso di italiano e dialetto: ‘in famiglia’ 46,7 nel 2000, 48,1 nel 2006; ‘con amici’ 46,0 nel 2000, 48,4 nel 2006; ‘con estranei’ 30,1 nel 2000, 33,3 nel 2006.
Sono dati che mostrano una diffusa dialettalità e un radicamento del dialetto rispetto alla media nazionale; per quanto si registri una flessione nell’uso prevalente o esclusivo nel rilevamento del 2006, aumenta invece la percentuale di coloro che usano sia l’italiano sia il dialetto. In Campania è presente un’isola alloglotta albanese a Greci (Benevento), minoranza linguistica storica (l. 482 del 1999). La regione appare come unita e compatta, ma al suo interno vi sono vari elementi di differenziazione benché, sulla base delle convergenze, si tenda a far coincidere linguisticamente la Campania con Napoli.
La capitale, osserva De Blasi, ha svolto una funzione unificante, «però dal punto di vista linguistico tale funzione si è limitata forse alla parziale diffusione di un lessico comune, mentre poco può aver influito sul piano della fonetica e della morfologia lessicale», considerato anche che la lingua ufficiale della capitale non è il dialetto, ma dapprima il latino, poi un volgare che evita le caratteristiche più tipiche locali, quindi l’italiano (De Blasi, Fanciullo in I dialetti italiani. Storia, struttura, uso, 2002, p. 628). Gli influssi del napoletano sulle altre parlate sono più contenuti di quanto non sembri, anzi proprio in centri vicini come Pozzuoli e Torre Annunziata sono presenti tratti contrastanti con il napoletano.
La situazione partenopea si differenzia da quella degli altri centri della regione, per la complessità della società e la densità demografica; la dialettalità della città, con le sue variazioni sociali, è particolarmente complessa da descrivere e analizzare.
La Campania è una regione composita anche nel passato se, senza risalire all’antichità, si pensa ai territori divisi tra bizantini e longobardi tra il 6° e l’11° sec., da un lato elemento greco, dall’altro elemento latinizzato, ma vi è anche una dialettica tra zone costiere e zone interne. Per es., la presenza di grecismi appare più significativa nel napoletano e nel cilentano, i longobardismi, invece, si rintracciano nelle zone appenniniche.
Per limitare l’esemplificazione a qualche caso relativo alla fonetica, tra gli aspetti significativi delle varietà dialettali della Campania, che rientrano nel tipo dialettale ‘meridionale’, vi sono: la metafonesi, provocata da -i e -u finali, che presenta soluzioni diverse a seconda delle aree; l’evanescenza della vocale finale e anche di quelle atone nel corpo della parola; il rafforzamento fonosintattico; l’assimilazione progressiva di -nd- (quannë, «quando») -mb- (chiummë, «piombo»), mentre -nt- passa a -nd- (mondë, «monte»), -mp- a -mb- (rombë, «rompere»), -nc- a -ng- (angora, «ancora»); gli esiti di pl- latino che vengono palatalizzati (chiù, «più»), bl- (janchë, «bianco»), fl- (sciatë, «fiato»).
La letteratura dialettale riflessa in napoletano costituisce una tradizione che si distingue per la continuità, la ricchezza e la qualità; non solo la lirica, ma anche il teatro, che è rappresentatato nel Novecento da autori come Raffaele Viviani (1988-1950) ed Eduardo De Filippo (1900-1984), senza contare altre espressioni artistiche che si avvalgono del dialetto quale la canzone melodica e il cinema come in Ricomincio da tre (1981) di Massimo Troisi (1953-1994); napoletano è anche il dialetto di Benvenuto al Sud (2010) di Luca Miniero, film ambientato a Castellabate nel Cilento. Ma il napoletano ha una notevole visibilità anche in tutta una varietà di scritture esposte, dai graffiti ai manifesti pubblicitari agli striscioni allo stadio, alla scrittura digitale (blog ecc.) che ne fanno una delle realtà dialettali più vivaci nel panorama italiano.
La vitalità del dialetto nella regione risulta essere la seguente: per l’uso prevalente o esclusivo del dialetto ‘in famiglia’ 17,7 nel 2000, 17,3 nel 2006; ‘con amici’ 13,6 nel 2000, 14,5 nel 2006; ‘con estranei’ 5,6 nel 2000, 5,7 nel 2006. Per l’uso di italiano e dialetto: ‘in famiglia’ 49,8 nel 2000, 47,9 nel 2006; ‘con amici’ 48,6 nel 2000, 48,4 nel 2006; ‘con estranei’ 22,3 nel 2000, 22,4 nel 2006.
Emerge una notevole vitalità del dialetto se si considerano le percentuali relative all’uso sia di italiano sia di dialetto che nella media nazionale sono, per il 2006, di 32,5 in famiglia, 32,8 con amici, 19,0 con estranei; da notare la sensibile differenza in termini percentuali tra l’uso del dialetto e di italiano e dialetto nelle tre situazioni considerate e in entrambi i rilevamenti.
Varia e tuttora vivace la scrittura letteraria in dialetto, iniziata ancor prima nel Salento dove era parlato anche dai ceti più alti. È anche l’area di provenienza del ben noto gruppo rap Sud Sound System, che canta in salentino.
La Puglia è divisa linguisticamente in due aree da una zona di transizione che corre approssimativamente da Taranto a Brindisi e che corrisponde pressappoco al tracciato dell’antica via Appia. Al di sopra di questa e con inclusione di Taranto la dialettalità è di tipo ‘meridionale’ (‘dialetti pugliesi‘), al di sotto, e compresa Brindisi, di tipo ‘meridionale estremo’ (‘dialetti salentini’).
Nella regione sono presenti anche isole linguistiche alloglotte (l. 482 del 1999): il francoprovenzale di Celle San Vito e Faeto (Foggia), l’albanese di Casalvecchio e Chieuti (Foggia), il greco (detto grico) di località del Salento, fra Lecce e Otranto (la Grecìa salentina).
I dialetti pugliesi si caratterizzano per tratti di tipo ‘meridionale‘, come la metafonesi, la presenza di vocali evanescenti che in fine di parola possono cadere del tutto, un notevole processo di frangimento vocalico (che collega i dialetti di quest’area con quelli abruzzesi) per le vocali toniche, per es. chioinë («pieno»), foichë («fico») a Bitonto, mareitë («marito») a Molfetta, mentre per «fuso» si registrano fàusë a Martina Franca, fèuse a Ruvo, föusë a Trani. Tra gli elementi di tipo morfosintattico si segnala l’articolo di genere neutro diffuso negli idiomi baresi, che nel dialetto italianizzato viene sostituito dal maschile.
Diversamente i dialetti salentini hanno un vocalismo tonico a cinque elementi (quello pugliese presuppone il vocalismo romanzo comune a sette elementi), simile a quello del siciliano e del calabrese meridionale, in cui si conservano le vocali è e ò (mentre le rispettive vocali chiuse si sono fuse con i e u originarie), probabilmente per l’interferenza con il greco bizantino, lingua di prestigio e di ampio uso nel territorio.
Le vocali atone sono chiaramente articolate; non è diffusa la metafonesi, caratteristica nell’Italia centro-meridionale, quindi a Lecce si ha chistu («questo»), chista («questa»), nell’area pugliese si ha l’opposizione chistu («questo»), chesta («questa»); ma a Lecce e anche a Brindisi sono noti i dittonghi metafonetici -ue- da -o-aperta come in buenu («buono»), bueni («buoni»), ma bona («buona»).
Le vocali finali sono articolate e in genere ridotte a tre: a, i, u, ma in diversi luoghi si sente anche -e.
L’area salentina si caratterizza anche a livello fonetico per la presenza delle consonanti cacuminali o retroflesse, con pronunce del tipo bedda («bella»), per la cosiddetta ‘impopolarità dell’infinito‘ (caratteristica anche dell’area calabrese meridionale e siciliana nord-orientale) che consiste nell’uso, frequente e talvolta obbligatorio, di proposizioni di modo finito invece dell’infinito, per es. «voglio dormire» si dice vògghju ddòrmu (Mesagne), letteralmente «voglio (che) dormo», per «lascialo mangiare» làssalu (cu) mmangia (Aradeo), cioè «lascialo (che) mangia». Tale tratto sintattico si attribuisce all’influsso del greco, in parte ancora oggi parlato in quel territorio, in alcune località che costituiscono isole linguistiche grecofone. Anche il lessico del salentino è ricco di prestiti greci.
I dati statistici emersi, relativamente alla vitalità del dialetto che viene utilizzato in regione, risultano essere i seguenti: per l’uso prevalente o esclusivo del dialetto ‘in famiglia’ 25,9 nel 2000, 29,8 nel 2006; ‘con amici’ 23,5 nel 2000, 23,0 nel 2006; ‘con estranei’ 8,7 nel 2000, 10,2 nel 2006. Per l’uso di italiano e dialetto: ‛in famiglia’ 42,1 nel 2000, 41,2 nel 2006; ‘con amici’ 40,1 nel 2000, 42,3 nel 2006; ‘con estranei’ 22,1 nel 2000, 21,4 nel 2006. Il rilevamento conferma la conservazione nella regione della dialettofonia, che è prevalentemente di tipo ‘meridionale’. Varie le documentazioni letterarie del dialetto, in particolare tra le più recenti quella del poeta Albino Pierro (1916-1995), originario di Tursi (Matera). Nell’ambito della ricerca scientifica sulla dialettalità della regione rientra il progetto di ricostruzione delle radici linguistiche locali che ha preso l’avvio nel 2007 all’interno del Dipartimento di studi letterari e filologici dell’Ateneo lucano e che fra il 2010 e il 2012 ha visto la pubblicazione di tre volumi dell’Atlante linguistico della Basilicata (ALBA) con il coordianamento di Patrizia Del Puente.
Barile (Potenza) è un’isola alloglotta che rientra nel gruppo delle minoranze linguistiche storiche albanesi (l. 482 del 1999). Dialetti di tipo settentrionale, galloitalico, di cui restano ancora tracce, dovuti a immigrazioni nel Medioevo (verosimilmente in epoca normanna e provenienti dal Monferrato), si parlano nella zona del Golfo di Policastro, a Potenza e nei centri circostanti (Tito, Picerno, Pignola, Vaglio).
La parte settentrionale e orientale della Basilicata si allinea con le parlate campane e pugliesi e presenta tratti del tipo meridionale con metafonia da -i e -u finali, diffuse vocali atone indistinte o evanenscenti ë [ə], così un singolare nëpotë ha un plurale nëputë; assimilazioni consonantiche come in quannë («quando»), callë («caldo»). Tra gli altri tratti ‘meridionali‘ sono presenti plurali in -ora come in fratërë («fratelli»), nell’articolo (lu o u) si trova qualche traccia del neutro lë.
Un’area caratterizzata da notevole conservatività è quella detta Area Lausberg (dal nome del romanista tedesco che l’ha individuata nel 1939). Geograficamente area lucano-calabrese, corrisponde a quella fascia tra il Tirreno e lo Ionio con al centro il massiccio del Pollino, compresa fra una linea approssimativa Maratea-S. Chirico Raparo-Calvera-Teana-Fardella-Senise-Colobraro-Tursi (a nord, in territorio lucano) e una linea Diamante-Verbicaro-Orsomarso-Saracena-Castrovillari-Cassano (a sud, in territorio calabrese). Zona appartata rispetto al resto dell’area dialettale meridionale, presenta diverse peculiarità, in particolare un sistema vocalico considerato arcaico e somigliante a quello del sardo, con cinque vocali senza distinzione tra aperte e chiuse: pipë («pepe»), crucë («croce»), rispetto a pépë, crócë dei dialetti meridionali.
Un’altra caratteristica importante, anche questa presente in sardo, consiste nella conservazione di -s e -t finali della coniugazione latina: latino cantas («tu canti»), in Area Lausberg càndësë (sardo càntas), cantat («egli canta»), in Area Lausberg càndëtë (sardo càntat). L’interpretazione che si dà a questa singolare situazione linguistica della zona Lausberg si collega all’antica e particolare modalità di latinizzazione del territorio.
I dati statistici rilevati riguardanti la dialettalità nella regione risultano essere i seguenti: per l’uso prevalente o esclusivo del dialetto ‘in famiglia’ 40,4 nel 2000, 31,3 nel 2006; ‘con amici’ 30,8 nel 2000, 22,9 nel 2006; ‘con estranei’ 13,1 nel 2000, 9,7 nel 2006. Per l’uso di italiano e dialetto: ‘in famiglia’ 39,4 nel 2000, 43,1 nel 2006; ‘con amici’ 44,4 nel 2000, 46,1 nel 2006; ‘con estranei’ 24,4 nel 2000, 25,4 nel 2006.
Anche in Calabria la presenza del dialetto è elevata rispetto alle medie nazionali che per il 2006 danno per l’uso esclusivo o quasi del dialetto il 16,0 in famiglia, 13,2 con amici, 5,4 con estranei, e all’uso sia di italiano e dialetto il 32,5 in famiglia, 32,8 con amici, 19,0 con estranei.
Oltre al dialetto calabrese nelle sue articolazioni e varietà, nella regione sono presenti diverse isole linguistiche alloglotte (l. 482 del 1999): località albanofone nel Cosentino e Catanzarese (San Nicola dell’Alto, Falconara Albanese, Spezzano Albanese, Acquaformosa), località grecofone nel Reggino (Bova, Roccaforte, Gallicianò e qualche altra in cui il greco ormai conta pochi parlanti), occitano a Guardia Piemontese (Cosenza).
Per l’aspetto linguistico la regione mostra scarsa unità ed è percorsa da diversi confini linguistici. La porzione di territorio a nord della linea Diamante-Verbicaro-Orsomarso-Saracena-Castrovillari-Cassano rientra, come si è visto, nell’area calabro-lucana, detta Area Lausberg. Si distingue poi un’area calabrese settentrionale, che presenta alcune affinità con il tipo dialettale ‘meridionale’, con tratti come la metafonesi, la presenza della vocale finale indistinta (ë [ə]), l’assimilazione di nessi -mb- / -nv- e -nd-.
I dialetti calabresi centro-meridionali hanno elementi del tipo dialettale ‘meridionale estremo’. Mancano assimilazioni di nessi consonantici; il sistema del vocalismo tonico – come in salentino – presenta cinque elementi e si conservano le vocali è e ò che non subiscono metafonesi (mentre le rispettive vocali chiuse si sono fuse con i e u originarie), le vocali finali sono chiaramente articolate, anche se ridotte a tre elementi: a, i, u, con conservazione di -e in zone della Calabria centro-settentrionale. È presente la pronuncia cacuminale o retroflessa, del tipo bedda («bella»).
Una delimitazione precisa tra le due aree, settentrionale e centro-meridionale, non è possibile, ma si possono seguire i confini, le isoglosse, di singoli fenomeni linguistici. Per es. esaminando la distribuzione del vocalismo tonico a cinque elementi, si nota che interessa l’area a sud della linea che unisce Diamante, sul Tirreno, a Cassano sullo Jonio. Per quanto riguarda elementi caratteristici dei dialetti di tipo ‘meridionale’, l’area della vocale finale indistinta si ferma lungo la linea Cetraro-Bisignano-Melissa; le assimilazioni dei nessi consonantici -nd- e -mb- del tipo quannu («quando») e chiummu («piombo») sono sconosciute a sud della linea Amantea-Crotone (Avolio in Enciclopedia dell’italiano, 2011, p. 1324).
I dati statistici rilevati riguardanti il dialetto nella regione risultano essere i seguenti: per l’uso prevalente o esclusivo del dialetto ‘in famiglia’ 32,8 nel 2000, 25,5 nel 2006; ‘con amici’ 2,6 nel 2000, 19,1 nel 2006; ‘con estranei’ 12,7 nel 2000, 9,8 nel 2006. Per l’uso di italiano e dialetto: ‘in famiglia’ 42,5 nel 2000, 46,2 nel 2006; ‘con amici’ 44,2 nel 2000, 48,7 nel 2006; ‘con estranei’ 29,4 nel 2000, 29,7 nel 2006.
Già da queste percentuali si rileva la significativa dialettalità dell’isola. Ma per descrivere e analizzare la situazione linguistica della Sicilia, la dialettofonia e i rapporti con l’italiano, gli aspetti sociolinguistici connessi, è sorto il Centro di studi linguistici e filologici siciliani, che si propone tra le sue iniziative anche la realizzazione dell’Atlante linguistico della Sicilia (ALS) diretto da Giovanni Ruffino (si vedano le pubblicazioni di Materiali e ricerche a parire dal 1995). Pertanto sotto il profilo linguistico attualmente la Sicilia è la regione descritta e studiata nel modo migliore (cfr. Lingue e culture in Sicilia, a cura di G. Ruffino, 2 voll., 2013).
La presenza del siciliano nella letteratura dialettale riflessa annovera nomi tra i quali, nel Novecento, il poeta Ignazio Buttitta (1899-1997). Tale dialetto non manca di una sua presenza nella scrittura in italiano, come mostrano le opere di Vincenzo Consolo (1933-2012) e le particolari esperienze del notissimo Andrea Camilleri, nella cui prosa risulta molto interessante l’impasto del dialetto con la lingua. Anche nel cinema d’autore il siciliano ha un suo spazio, basti pensare al film Baarìa (2009) di Giuseppe Tornatore.
Nella regione oltre al dialetto siciliano sono presenti isole linguistiche alloglotte albanofone (in particolare a Piana degli Albanesi e a Contessa Entellina, in provincia di Palermo) che rientrano nel gruppo delle minoranze linguistiche storiche (l. 482 del 1999). Vi sono poi varie località in provincia di Messina (Acquedolci, Fondachelli-Fantina, San Fratello e Novara di Sicilia) e in provincia di Enna (come Nicosia, Sperlinga, Aidone, Piazza Armerina) nelle quali ancora si conserva il dialetto di origine settentrionale, galloitalico (portato dalla colonizzazione proveniente da nord, versomilmente dalla zona del Monferrato), che costituiscono la cosiddetta ‘Sicilia lombarda’, un tempo più estesa (in vari paesi il galloitalico si è perso o ne restano poche tracce).
La delimitazione geografica dell’isola può far pensare che un confine tra tipi dialettali sia segnato dallo stretto di Messina, ma in Sicilia si ritrovano caratteri del tipo dialettale ‘meridionale estremo‘, che interessano già la Calabria centro-meridionale (oltreché il Salento).
La Sicilia dialettale è piuttosto varia e diversi tratti linguistici sono distribuiti qua e là, risulta pertanto difficile una ripartizione precisa, per quanto uno schema di riferimento preveda che il siciliano sia suddiviso in due grandi sezioni, quella occidentale (palermitano, trapanese, agrigentino centro-occidentale) e centro-orientale, propriamente centrali sono le parlate delle Madonie, il nisseno-ennese, l’agrigentino orientale, e orientali le parlate del Sud-Est, quelle del Nord-Est, il catanese-siracusano e il messinese.
Il siciliano nel suo complesso condivide fenomeni comuni ai dialetti estremi, in particolare il vocalismo a cinque elementi (con mancanza di e e o chiuse), la presenza di vocali finali chiaramente articolate, ridotte a tre: a, i, u, come nivi («neve»), tila («tela»), suli («sole»), muru («muro»), presenza di cacuminali o retroflesse, come in bedda («bella»), cavaddu («cavallo»).
A differenza della Calabria meridionale e del basso Salento, in Sicilia si trovano dittonghi metafonetici dovuti agli originari -i e -u finali, come in bieddu, bieddi, ma bedda (a Mistretta), fenomeno che interessa gran parte della Sicilia centrale e sudorientale. È presente l’assimilazione consonantica nei nessi -nd- e -mb-, funnu («fondo»), gàmmaru («gambero»), a esclusione della Sicilia nordorientale.
Diverse altre caratteristiche si ritrovano in Sicilia, diversamente distribuite, riguardanti la fonetica, la morfosintassi e il lessico.
A livello sintattico, per es., il siciliano nordorientale è interessato dalla cosiddetta ‘impopolarità dell’infinito‘, che si ritrova nel calabrese meridionale e nel salentino con frasi come vògghiu mi bivu («voglio bere»), vonnu mi vegnu («vogliono che io venga»), ci dissi mi veni («gli dissi di venire»); la congiunzione mi dovrebbe derivare dal latino modo › mu e poi mi per influsso di chi (G. Ruffino, Sicilia, 2001, p. 59).
La situazione linguistica della Sardegna con la l. 482 del 1999 comprende minoranze linguistiche storiche quali il sardo e il catalano ad Alghero. In località della Sardegna sudoccidentale sono presenti parlate liguri che non rientrano tra le minoranze previste dalla citata legge e che costituiscono il cosiddetto tabarchino. Si tratta di una varietà importata a Carloforte sull’isola di San Pietro e Calasetta sulla penisola di Sant’Antioco, dovuta a una colonizzazione che risale al 1738, quando abitanti provenienti dall’isola di Tabarka, al largo della Tunisia, aderendo all’invito del re di Sardegna Carlo Emanuele III di Savoia di ripopolare le terre sarde, si stanziarono nell’isola di San Pietro, dove fondarono il paese di Carloforte, così chiamato in onore del sovrano. Sono, però, originari della Liguria, partiti due secoli prima da Pegli per andare a esercitare il mestiere di pescatori di coralli. Nel tempo questa comunità ha conservato il proprio dialetto che è ben vivo e caratterizzante rispetto al sardo.
I dati statistici rilevati riguardanti la regione circa l’uso del dialetto risultano essere i seguenti: per l’uso prevalente o esclusivo del dialetto ‘in famiglia’ 0,9 nel 2000, 1,9 nel 2006; ‘con amici’ 0,7 nel 2000, 1,8 nel 2006; ‘con estranei’ 3,2 nel 2000, 0,5 nel 2006. Per l’uso di italiano e dialetto ‘in famiglia’ 38,1 nel 2000, 29,3 nel 2006; ‘con amici’ 37,6 nel 2000, 30,6 nel 2006; ‘con estranei’ 19,6 nel 2000, 16,0 nel 2006. Per altra lingua ‘in famiglia’ 13,9 nel 2000, 14,7 nel 2006; ‘con amici’ 11,7 nel 2000, 14,3 nel 2006; ‘con estranei’ 0,2 nel 2000, 4,7 nel 2006.
Relativamente al dialetto si tratta di indicazioni approssimative e occorre tener conto anche di ‘altra lingua’ con la quale almeno in parte l’informatore ha pensato al sardo inteso come lingua, anche come effetto della legge sopra citata, ma già tutelato dalla normativa regionale (l. reg. 15 ott. 1997 nr. 26); provvedimenti che certo hanno contribuito ad aumentare il prestigio del sardo promuovendo un nuovo interesse per la lingua e la cultura. Le percentuali complessivamente non sono elevate ed è altrimenti noto che l’uso del sardo presso le giovani generazioni è limitato e tendenzialmente manca la sua trasmissione in ambito familiare; il suo uso comunque non è in contrapposizione all’italiano.
Manca per il sardo una koinè regionale e vi sono due varietà il cui uso sovralocale si è consolidato nel tempo, il logudorese letterario per la poesia e il campidanese basato sul dialetto di Cagliari (Dettori in Enciclopedia dell’italiano, 2011, p. 1277).
Il sardo, che ha notevoli tratti caratterizzanti come per es. la conservazione delle occlusive velari sorda e sonora del latino come in chentu («cento»), ghéneru («genero»), il mantenimento di -s finale in parole, per es. tempus («tempo»), nel plurale come féminas («donne»), nel verbo cantas («tu canti»), comprende due varietà principali: il campidanese a sud, che gravita su Cagliari, ed è la varietà più innovativa; il logudorese, comprendente il nuorese, che è la varietà più conservativa; un rilievo particolare è assegnato alla varietà arborense, che si trova nella fascia centrale di transizione fra le due. Si distinguono ancora nell’area nord-est della Sardegna il gallurese, che sarebbe dovuto a immigrazioni dalla Corsica nel 18° sec.; l’area di nord-ovest è interessata dal sassarese, varietà dovuta all’incontro tra il logudorese locale e il pisano fin dai tempi della dominazione di Pisa nel 13° secolo; diversa l’opinione tra gli studiosi riguardo l’inserimento di tali varietà nel contesto del sardo.
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