BORROMEO (Bonromeus, Borromaeus), Vitaliano
Nacque nel 1391 (o forse nel 1387) da Giacomo o Giacomino Vitaliani, cittadino di Padova, e da Margherita Borromeo, della nota famiglia di origine toscana. Alla morte del padre passò a vivere, insieme con la madre, presso il fratello di questa, Giovanni.
Giovanni Borromeo, coi fratelli Alessandro e Borromeo, si era trasferito a Milano - dopo il bando decretato alla loro famiglia dalle autorità fiorentine (genn. 1370) - per meglio esercitarvi la mercatura. Nel 1395 avevano ottenuto tutti la cittadinanza milanese. Ingenti aiuti finanziari forniti a Gian Galeazzo Visconti valsero loro una larga influenza: Borromeo fu creato conte di Castellarquato e della Val d'Arda. La morte di Gian Galeazzo e i torbidi che ne seguirono dispersero i fratelli: Giovanni tuttavia, all'avvento di Filippo Maria, ritornò a Milano e riacquistò presso la corte ducale il favore e l'influenza di un tempo, raccogliendo, grazie alla sua attività mercantile e creditizia, un ingente patrimonio.
Vitaliano, cui Giovanni aveva fatto assumere il cognome di Borromeo, si sposò in giovane età con Ambrogina Fagnani, figlia di Giacomo. Nel 1416 ebbe la cittadinanza milanese: poco dopo (e certamente a partire dal 1418) ottenne la carica di tesoriere generale ducale, vale a dire l'appalto dei servizi della tesoreria centrale del ducato. L'assegnazione di questa carica, di grande importanza politica e che richiedeva notevolissime disponibilità di denaro, al B., assai giovane e homo novus alla corte di Filippo Maria, trova probabilmente spiegazione nella fortissima posizione finanziaria dello zio Giovanni, che non si limitò a prestare al nipote aiuti finanziari, ma intervenne anche direttamente nella gestione della tesoreria: ancora nel 1426-27 risulta cointeressato in misura di due terzi all'impresa del nipote. Per quanto tempo il B. abbia esercitato l'ufficio di tesoriere non si può dire con esattezza. Risulta certamente in carica nel 1418, nel 1423, e nel periodo 1425-1427. Secondo il suo biografo B. Scala, avrebbe mantenuto l'ufficio per un quindicennio, fino a oltre il 1430. Occorre allora concludere che egli non esercitò continuativamente la carica, o ebbe colleghi nell'ufficio, dato che per questi anni risultano anche i nomi di altri tesorieri. Certo è che nell'esercizio del tesorierato poté accumulare una considerevole fortuna, e si creò a corte una posizione di grande prestigio e di larga influenza politica. Ritirandosi, lasciò l'ufficio al cognato Galeotto Toscano, e riuscì a ottenere dal duca un documento che lo assolveva da ogni eventuale addebito.
A partire dal 1431 il nome del B. compare con minor frequenza nei documenti dell'amministrazione ducale. La circostanza va forse messa in relazione col ritiro dagli affari dello zio Giovanni, avanzato negli anni (nel 1431 egli sottoscrisse il solenne atto di adozione del nipote, che comportava automaticamente il diritto alla successione nell'eredità) e anche con un maggior interessamento alla gestione del Banco Borromeo, che proprio in quegli anni aprì le filiali di Bruges (1431) e di Londra (1435). Nel 1439 e nel 1440 il B. risulta inoltre fornitore del pane e delle biade per l'esercito ducale; nel 1445 è appaltatore della condotta del sale da Genova a Milano. L'attività finanziaria, tuttavia, non lo rende estraneo alla corte ducale, che frequenta pur senza rivestire incarichi ufficiali: di una magistratura sine nomine per cui Filippo Maria "eum prefecit omnibus magistratibus" parla, certo con esagerazione adulatoria, lo Scala. Nel 1441, insieme con altri fiduciari del duca, è incaricato della consegna di Cremona a Francesco Sforza; nel 1446 viene inviato a Venezia per una delicata ambasceria. Il motivo tuttavia per cui il Filelfo scrisse che di lui Filippo Maria "nihil habuit carius aut splendidius" è certo da ricercarsi, più che in questi saltuari incarichi politici, nell'appoggio finanziario che il B. continuò a prestare ininterrottamente al duca. In cambio ottenne in gran numero, o per acquisto, o come saldo di vecchi crediti, proprietà terriere, feudi, privilegi, ponendo in tal modo le basi di quell'ingentissimo patrimonio fandiario che costituì il pilastro più solido della famiglia nei secoli successivi.
Già negli anni in cui aveva esercitato l'ufficio di tesoriere il B. aveva avuto la concessione di numerosi privilegi di immunità e di esenzione fiscale per i suoi beni (24 ag. 1424; 13 ag. 1426). Il 25 luglio 1437 ottenne in feudo la terra di Castellazzo (Alessandria), ceduta tuttavia poco dopo; il 3 agosto di quell'anno ricevette Palestro, valutata 13.904 lire; nel 1440 vasti beni a Camairago, con diritti giurisdizionali (confermati, insieme con altri privilegi fiscali, dalla comunità di Lodi il 10 dic. 1442). Il 16 marzo 1442 ebbe Bra e Cherasco, in Piemonte; nel 1447 il vastissimo possedimento del Bissone, nel Pavese, con i relativi diritti di giurisdizione. Ma più di questi beni e feudi sparsi per tutto lo Stato di Milano, è notevole quel complesso di terre che il B. ebbe nell'alto Novarese e intorno al Lago Maggiore, primo nucleo del futuro "stato Borromeo": il 14 sett. 1439 acquistò, per la somma di 43.912 lire, il castello e il borgo di Arona, con tutta la pieve; il 9 febbr. 1441 Cannobio, con la sua pieve, la terra di Lesa e la regione del Vergante, per 25.283 lire; il 1º nov. 1446 Mergozzo e Vogogna; il 1º ag. 1447 la Val Vigezzo e altre terre (Borgo Ticino, Suno, Gattico, ecc.). Il 26 maggio 1445 ottenne il titolo comitale per il feudo di Arona, e nel 1447 l'autorizzazione a munire la rocca: poco dopo in effetti erano avviate imponenti opere di fortificazione.
Il B. veniva intanto continuando a Milano, nella contrada che ancora oggi prende il nome dai Borromeo, la costruzione del palazzo; avviata già dallo zio Giovanni: compì in particolare la decorazione plastica e quella pittorica, cui lavorarono fra gli altri Michelino da Besozzo, Filippo e Andrea Solari. Davanti al palazzo, acquistando e facendo demolire alcune vecchie case, aprì la piazza quadrata. Promosse anche il restauro dell'antica chiesa di S. Maria Podone, che sorgeva di fronte, e il cui nome da allora andò tradizionalmente legato a quello dei Borromeo: vi costruì infatti la cappella gentilizia e fondò prima una (1442) e poi altre tre cappellanie (1449). Nei pressi della chiesa pose la sede del Pio Luogo dell'Umiltà, da lui fondato nel dicembre 1444, con un reddito annuo di 1.000 fiorini: presieduto da sei cittadini nobili e onorevoli, esso doveva distribuire elemosine e dotare fanciulle povere. Per quanto fosse "vir penitus sine litteris", volle anche mantenere rapporti con numerosi letterati, fra cui il Filelfo, che gli dedicò i tre libri delle Commentationes de exilio, e Giacomo Bracelli, cancelliere della Repubblica di Genova, che gli fu poi di aiuto nell'ottenimento della cittadinanza genovese e di ampi privilegi fiscali da parte di quella repubblica (1445).
Nell'agosto del 1447 il B. fu tratto dalla sua eminente posizione ad assumere un ruolo di primo piano nelle vicende che seguirono alla morte del duca Filippo Maria: fra i promotori della Repubblica ambrosiana, fece parte insieme con Teodoro Bossi, Giorgio Lampugnani, Innocenzo Cotta della fazione ghibellina e aristocratica che inizialmente esercitò sulla Repubblica una influenza preponderante. Il suo apporto fu, come al solito, essenzialmente finanziario: nel gennaio 1448 egli, con Galeotto Toscano, il Bossi e il Lampugnani, risultava creditore verso il nuovo regime per la enorme somma di 60.000 ducati. Nell'accesa atmosfera della recuperata libertà non mancarono i contrasti e le lotte: il B. fu addirittura accusato di volere aspirare alla signoria, per sé o per il genero. Così nello stesso autunno del 1447, col pretesto di una legazione a Francesco Sforza, il B. lasciò Milano e si rifugiò nelle sue terre novaresi, donde ritornò solo quando un'ambasceria ufficiale inviata per iniziativa di Giorgio Lampugnani dal governo della Repubblica non lo invitò formalmente a ritornare. Negli anni 1447-1448 il nome del B. compare regolarmente fra quelli dei principali magistrati milanesi: "capitano e difensore della libertà" (agosto 1447), oratore al duca d'Orléans nel gennaio 1449, impegnato in numerose missioni straordinarie, spesso come ambasciatore al condottiero della Repubblica, Francesco Sforza. Nel frattempo, a compenso degli aiuti finanziari che veniva fornendo al governo, egli si faceva cedere assegnazioni sulle entrate pubbliche, titoli del Banco di S. Ambrogio, terre (vaste estensioni dei boschi ducali di Cusago, il possedimento e fortezza di Peschiera, alle porte di Milano) e soprattutto nuovi feudi, che ampliarono e rinsaldarono i suoi possedimenti sul Lago Maggiore: il 5 sett. 1448 otteneva l'autorizzazione a ricevere sotto la propria giurisdizione e come propri sudditi i Comuni e gli uomini della Val d'Antigorio; il 18 genn. 1449, per la somma di 12.800 lire riusciva a farsi concedere Angera, con la forte rocca e con tutta la sua pieve.
Tuttavia, nell'ottobre del 1448, la notizia della defezione di Francesco Sforza (che raggiunse il B. sotto le mura di Lodi, assediata dall'esercito della Repubblica) aveva scosso profondamente la fiducia nella sopravvivenza del nuovo regime in quegli stessi nobili e ghibellini che ne erano stati gli originari fautori. Lo Sforza inoltre aveva in poche settimane occupato gran parte della regione intorno alla città: al confine nordorientale dello Stato, ormai solo le fortezze e le terre dei Borromeo non erano cadute nelle sue mani. Mentre la guida della Repubblica passava al partito guelfo e popolare, che appariva favorevole a una lotta ad oltranza, i nobili ghibellini (e fra essi il B. che, secondo il suo biografo, "iam de libertate desperabat") si orientavano sempre più verso la resa. Il B., insieme col Bossi e col Lampugnani, cercò di accordarsi segretamente con lo Sforza per cedergli la città. L'iniziativa non ebbe seguito per l'esitazione dello stesso condottiero, che temeva di vedere ipotecata la propria futura autorità ducale da quella oligarchia che ora gli offriva il potere. Quando nelle elezioni del gennaio 1449 il partito guelfo ottenne la maggioranza e la congiura venne pubblicamente denunciata, numerosi ghibellini furono arrestati, e alcuni giustiziati. Il B. riuscì a salvarsi con la fuga: scortato da duecento uomini a cavallo (pare che li avesse tenuti al suo servizio privato dall'inizio della Repubblica) e con l'aiuto di Ambrogio Longhignana che, occupando la torre di porta Vercellina, gli consentì l'uscita dalla città, poté raggiungere la ben munita fortezza di Arona. Nei mesi successivi ebbe certamente l'appoggio e l'alleanza del duca di Savoia che, in un trattato del 6 marzo con Milano (respinto peraltro nell'aprile dal Consiglio dei novecento) aveva chiesto il riconoscimento milanese della indipendenza delle terre borromee sul Lago Maggiore. I rapporti del B. con la Repubblica non si interruppero subito: ancora il 2 aprile acquistava dai rappresentanti della Comunità per 1.000 fiorini le terre di Laveno, Cerro, Ispra, e altre minori. Non poté tuttavia sfuggire al bando decretato il 30 maggio contro duecento cittadini, accusati di "parricidio", cioè di alto tradimento. Nel luglio, forse in seguito al temporaneo mutamento politico seguito alle elezioni del primo giorno del mese, riuscì ancora a negoziare con il governo milanese la cessione di Omegna.
Ma ormai, dal sicuro rifugio di Arona, guardava, assai più che alla morente Repubblica, a Francesco Sforza, cui inviò aiuti e denaro, preparando così l'accordo della sua casa con il condottiero, che sarebbe seguito pochi mesi dopo, e avrebbe definitivamente consolidato le fortune borromee. Colpito da febbri alla fine di settembre, fece testamento il 2 ott. 1449; morì il 4. I suoi resti furono in seguito trasportati nella chiesa milanese di San Francesco Grande e, alla fine del secolo XVIII, all'Isola Bella.
Il B. aveva avuto quattro figli: Filippo, il maggiore, erede della Compagnia e del titolo, che sposò una Visconti, Franceschina, figlia di Lancillotto; Giacomo, nato intorno al 1418 ed avviato per tempo alla vita ecclesiastica; Margherita, più tardi moglie di un altro Visconti, Agostino; e Talda (o Taddea), che sposò il conte Ottone Mandelli. Il rilievo dei matrimoni testimonia adeguatamente l'influenza politica e la potenza economica che il B. aveva acquistato alla sua famiglia in quarant'anni di fortunata attività finanziaria e mercantile; così come le attesta anche la rapida carriera compiuta dal suo secondogenito. Abate commendatario di S. Barnaba in Gratosoglio a soli diciannove anni, non ancora trentenne Giacomo veniva creato vescovo di Pavia da papa Eugenio IV (18 luglio 1446): per celebrare la nomina - cui non dovevano essere rimaste estranee le pressioni del duca di Milano - e commemorare degnamente il solenne ingresso del giovane presule nella sua sede episcopale (25 sett. 1446), Francesco Filelfo, legato da antica riconoscenza alla famiglia Borromeo, compose e recitò un'orazione latina indirizzata al popolo pavese, e una canzone in volgare, che dedicò al duca Francesco Maria Visconti, amico e sostenitore di Giacomo. Proposto alla dignità cardinalizia in seguito a segnalazione e per l'interessamento del nuovo duca di Milano, Francesco I Sforza Visconti (lettere di Pietro Noceto, segretario papale, in data 17 dic. 1451, e di Giacomo al duca, del 25 dicembre di quel medesimo anno), il presule si vide negato l'alto onore per l'ostinata volontà di Niccolò V. Il rifiuto si deve ricollegare, molto probabilmente, con le vicende della lunga ed aspra controversia giurisdizionale, che contrappose al vescovo di Pavia i canonici regolari della Congregazione del S. Salvatore, ai quali il papa aveva affidato, senza interpellare previamente il presule e senza rendergli ragione del suo operato, la collegiata di S. Epifanio, immediatamente soggetta all'autorità del vescovo di Pavia. Questa patente violazione delle sue prerogative episcopali provocò l'immediata, violenta reazione di Giacomo: a nulla valsero i buoni uffici interposti dal duca Francesco I per indurlo a più miti consigli. Il vescovo non volle recedere dal suo atteggiamento nemmeno quando il papa, con bolla del 23 luglio 1451, ebbe solennemente confermato il proprio operato.
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