VISUAL STUDIES.
– Storia dei Visual studies. Temi e protagonisti dei Visual studies. La ‘svolta visuale’. Crisi dei Visual studies? La politicizzazione dei Visual studies. I Visual studies e l’Europa. Gli studi di ‘cultura della rappresentazione’ in Giappone. Conclusioni. Bibliografia
I V. s. indicano un campo di studi accademici che hanno come oggetto il visibile e le pratiche dello sguardo in forme culturalmente organizzate. Per questa ragione si dice anche che i V. s. sono quell’ambito disciplinare che studia la ‘cultura visuale’. Con quest’ultima espressione ci si riferisce a sua volta alle immagini prodotte dai media di qualsiasi tipo e alle modalità culturali della visione, sia nelle forme della spettatorialità, sia nelle loro forme di rilevanza politica, come nel caso della sorveglianza e in tutte le forme di controllo. In questo senso fondamentale è la dialettica tra spettacolo e sorveglianza, tra guardare ed essere guardato. Così intesa, la ‘cultura visuale’ può essere variamente interpretata o come costituzione culturale della visione o come costruzione visuale della cultura (Mitchell 2008).
Storia dei Visual studies. – I V. s. appaiono nel mondo accademico anglosassone al termine di un lungo percorso, cominciato negli anni Cinquanta con la comparsa dei Cultural studies in Inghilterra, grazie all’opera pionieristica di Richard Hoggart (The use of literacy, 1957) e Raymond Williams (Culture and society, 1958). Allo stesso tempo andava maturando una diversa impostazione della storia dell’arte anglosassone rispetto a quella continentale. Infatti, se quest’ultima era imperniata sul concetto di ‘forma’ e sull’analisi storico-stilistica come fondamento dell’autonomia dell’arte, la prima invece sviluppò un punto di vista empirista. Tale approccio metteva in luce la dipendenza dell’arte da altri fenomeni storico-sociali o da condizioni di tipo psicologico. In questo modo l’arte finiva con il diventare un fenomeno culturale tra gli altri, specificato solo dal suo legame con la visione. Comunque tale specificità non interessava solo le arti maggiori, ma potenzialmente tutta la produzione visuale di una data epoca. Tale concezione rimandava alla tradizione inglese che congiungeva art and craft, diversamente da quella continentale che si occupava solo della grande arte squalificando le arti applicate. Questo aspetto infine può anche essere messo in relazione con l’impostazione prevalentemente marxista dei primi Cultural studies e al diffondersi delle nuove problematiche relative ai mass media.
Nel 1972 vennero dati alle stampe due libri: il primo,Ways of seeing di John Berger, è la versione cartacea di un fortunato programma televisivo, che spiega l’arte al grande pubblico ricorrendo a nozioni di sociologia e psicologia. Il secondo, invece, è la tipica espressione dell’orientamento accademico inglese negli studi artistici: Painting and experience in fifteenth century Italy (1972; trad. it. 1978) di Michael Baxandall.
Questi due testi già mostrano le due anime, quella massmediale e quella accademica, del futuro discorso sulla visual culture. A questi però dobbiamo aggiungere un terzo fattore e cioè il successo dell’iconologia nel mondo anglofono. Con l’ascesa del nazismo il Warburg Institute venne portato a Londra e vari esponenti di punta dell’iconologia, come Erwin Panofsky o Ernst Gombrich, si trasferirono in Paesi anglofoni. L’interesse per il contenuto culturale delle opere proprio di questa disciplina, la rese particolarmente compatibile con l’impostazione antiformalista sopra descritta. L’iconologia si occupava di arte figurativa storicizzata, non di arte contemporanea e non di mass media, ma il suo scrupoloso approccio storico-filologico la rendeva metodologicamente interessante anche per altri usi.
È su queste basi che nacque tra gli anni Ottanta e Novanta il discorso della visual culture. Esso però si congiungeva anche al postmoderno. Infatti nel frattempo anche i Cultur al studies erano cambiati; avevano accantonato il marxismo dialettico e si erano aperti alla cultura critica del poststrutturalismo francese. I V. s. così presero a svilupparsi come la forma accademica assunta nel mondo anglofono dal discorso sulla cultura visuale. Essi attingevano da una parte alle ricerche iconologiche e dall’altra a quel pensiero critico continentale che aveva già tematizzato le immagini e la visione (la fotografia con Roland Barthes; l’aura con Walter Benjamin; il simulacro con Pierre Klossowsky, Guy-Ernest Debord, Jean Baudrillard e Gilles Deleuze e infine il dispositivo di sorveglianza o il panopticon con Michel Foucault).
Temi e protagonisti dei Visual studies. – I V. s., come pure la visual culture, non sono dei domini omogenei per loro stessa costituzione, in quanto riprendono il carattere pluralistico ed eclettico dei Cultural studies, di cui per certi versi fanno parte. Quindi esistono vari filoni di ricerca all’interno di essi che rispecchiano quelli degli stessi Cultural studies come il gender, il postcolonialismo, le sottoculture, i new media e così via.
I protagonisti indiscussi di questo ambito sono due studiosi molto diversi tra loro. Il primo è William John Thomas Mitchell, che viene da studi di iconologia; il secondo è Nicholas Mirzoeff, che viene da studi di storia e storia dell’arte, ma che ha sempre adottato un taglio più vicino alla sociologia della comunicazione di massa con riferimento alle politiche dell’immagine nei media. A questi si potrebbe aggiungere anche lo storico dell’arte James Elkins che nel 2003 ha dedicato un libro esplicitamente ai V. s. in cui però si dichiara fin dal sottotitolo «scettico» su di essi. Tipico dei suoi studi è l’interesse per varie forme di immagine: da quelle mediche e scientifiche a quelle artistiche.
La ‘svolta visuale’. – Negli anni Novanta si cominciò a parlare di ‘svolta visuale’ attraverso varie espressioni che si richiamavano deliberatamente alla svolta linguistica (linguistic turn), di cui aveva parlato Richard Rorty in relazione all’avvento della filosofia analitica. L’espressione venne poi rimodellata in cultural turn in omaggio al boom degli studi culturali negli anni Ottanta e poi in visual turn (Martin Jay) per indicare il grande rivolgimento di interesse teorico verso la società dell’immagine, connessa anche all’idea, poi criticata, dell’esistenza di media visuali e del loro predominio. Tali media sarebbero il cinema, la fotografia e la televisione, cui sono stati poi aggiunti i visual media digitali. A questa concezione fa da pendant quella della società dell’apparire e del look, connotata da una valenza morale negativa di superficialità e frivolezza che caratterizzerebbe l’industria culturale e lo stile di vita post moderno. Il dominio del visuale, quindi, va decodificato e criticato, perché sotto la sua apparente immediatezza nasconde forme di persuasione occulta a scopi economici e politici. Questo atteggiamento sospettoso fa seguito a una storica diffidenza per l’immagine che attraversa tutta la cultura occidentale, specialmente ebraico-cristiana e in particolare protestante, secondo cui l’immagine è finzione mendace che suscita idolatria. Rispetto a questa visione critica dell’immagine e della visualità, che attinge alla critica dell’industria culturale fatta dalla scuola di Francoforte, si distingue nettamente l’atteggiamento di Mitchell che invece è interessato a una rivalutazione complessiva dell’immagine. Egli parla perciò di pictorial turn, che si potrebbe tradurre con «svolta immaginale», tenendo conto però che con picture in inglese si intendono le immagini in senso fisico come quadri e sculture, diversamente da imagine che indica l’immagine mentale o la pura forma delle figure (Mitchell 2008). Un’altra nozione simile è infine quella di iconic turn proposta però in Europa da Gottfried Boehm.
È certo che questa svolta, che sembrava in controtendenza con la svolta testuale di cui si parlava in quegli stessi anni in relazione al decostruzionismo, si è risolta in un’ipertrofica testualizzazione dell’immagine, in cui si cerca di tradurre in parole e concetti, non solo l’arte (come faceva la critica d’arte), ma tutta la produzione di immagini della società di massa.
Crisi dei Visual studies? – Il successo dei V. s. ha raggiunto il suo apice nei primi anni del Duemila per poi esaurire rapidamente la propria spinta propulsiva. Infatti, da allora i V. s. si sono diffusi ed espansi accademicamente in tutto il mondo, ma senza produrre innovazioni teoriche significative. Già nei primi anni Duemila Elkins notava questo stallo teorico (Elkins 2003). In tale situazione si sono sviluppate tre tendenze diverse: la principale consiste nel protrarsi di una produzione scolastica che ripropone i contenuti degli anni Novanta; la seconda comprende invece minoranze più dinamiche che pongono l’accento sulle implicazioni politiche; la terza, infine, guarda alla situazione europea che è rimasta maggiormente legata al mondo dell’arte.
La politicizzazione dei Visual studies. – Per certi versi la politicizzazione è stata sempre presente nei V. s. distinguendoli da altri approcci come quello storico-artistico, estetico e scientista. Ma poi ha assunto un significato diverso perché si è assistito all’entrata in scena di autori che non vengono dalla storia dell’arte, bensì da percorsi più propriamente filosofico-politici, come nel caso di Martin Jay e di Susan Buck-Morss. Secondo Buck-Morss (2004), se l’arte e la storia dell’arte riflettono un assetto sociocultu rale tipicamente occidentale ed elitario, il passaggio ai V. s. cerca invece di tenere il passo con una società non più eurocentrica, ma multietnica, mondiale e di massa, in cui alla maggiore inclusività sociale fa seguito una maggiore apertura a parametri visuali di diverse culture e di diversi ceti. Quindi, contrariamente a Mitchell, Buck-Morss pensa a un superamento dell’arte e della storia dell’arte come ambito disciplinare. La crisi dei V. s., tuttavia, è dovuta proprio al troppo vasto terreno di indagine che così si determina, cui si congiunge un troppo vago fondamento epistemologico rispetto a quello storicistico della storia dell’arte. Questo accade perché i V. s. riprendono il metodo case specific dei Cultural studies, che, anche quando è ibridato con quello storico-artistico (Mirzoeff 1999), porta comunque a una proliferazione incontrollata del discorso, invece di concentrarsi intorno a un determinato asse storico.
I Visual studies e l’Europa. – Il ponte tra le ricerche continentali e quelle anglosassoni è rappresentato dall’iconologia e dai suoi sviluppi. Dopo Gombrich, nell’iconologia finì la stagione dei grandi protagonisti e si assistette a un ritorno alle origini, e cioè ad Aby Warburg. Questo però aprì anche uno spazio per altri studi che andavano in direzioni diverse, permettendo un nuovo dialogo tra le due sponde dell’Atlantico. Si pensi, per es., all’impatto avuto in Europa dagli studi di David Freedberg sul potere delle immagini e alla loro vicinanza con le ricerche dello studioso tedesco Hans Belting. La chiave di questo nuovo dialogo stava nella centralità dell’approccio antropologico in cui convergevano sia il ritorno a Warburg, sia gli studi di Freedberg, sia quelli di Belting (Bild-Anthropologie). A ciò si aggiunge il peculiare interesse europeo per la riflessione filosofica, tanto che alcuni studiosi, come Georges Didi-Huberman, vengono indicati come filosofi dell’immagine. Per es., riguardo all’Italia dall’estero non si guarda ai lavori degli studiosi che si sono espressamente interessati dei V. s., ma a un filosofo come Giorgio Agamben, che, tra l’altro, ha avuto rapporti con il Warburg Institute. Abbiamo poi il caso di storici dell’arte con interessi filosofici, come Victor Stoichita che ha sviluppato un approccio intertestuale rispetto alla storia dell’arte. Una nuova attenzione alla dimensione politica si trova invece negli studi sulle immagini classiche attraverso la nozione di decorum riscoperta da Tonio Hölscher o nelle analisi di Paul Zanker su immagini e potere. Tuttavia, questi studi non sono assimilabili ai V. s. in senso stretto perché la loro attenzione è focalizzata sull’immagine, tanto che i V. s. vi si riferiscono con l’espressione image theory. Quindi la differenza tra i due approcci sarebbe riassunta in quella tra visione e immagine (Exploring visual culture, 2005).
Gli studi di ‘cultura della rappresentazione’ in Giappone. – Il caso giapponese è sintomatico della situazione in corso, in quanto mescola in una nuova sintesi i V. s. propriamente detti con gli studi dell’immagine continentali (Atsushi Okada, Jun Tanaka). Ancora più significativa è l’esigenza espressa da questo tipo di approccio di andare oltre l’universalismo eurocentrico, già manifestata a suo tempo da Kaori Chino. Non si cerca però necessariamente di ridurre l’importanza dell’arte nell’ambito delle produzioni visuali, ma di considerarla da un punto di vista critico, filosofico e antropologico in modo che risulti multilaterale, relativistica e decentrata.
Conclusioni. – Oggi i V. s. non hanno più un tessuto comune che non sia nel loro passato. Per es., i riferimenti agli autori europei sono ben lungi dall’essere condivisi da tutti. Infatti, questi sono conosciuti solo in relazione a ricerche dei V. s. riguardanti aree, epoche e temi specifici. Al posto di un’intellighenzia accentrata e di una condivisione di testi e protagonisti, si assiste a una propagazione reticolare, in cui ognuno intrattiene rapporti con gli studiosi più prossimi per luogo o per tema o semplicemente per relazioni personali. Questa propagazione reticolare, acefala e disomogenea può essere il sintomo di una decomposizione di questo ambito disciplinare o può rappresentare diversamente l’incipit di una nuova dimensione della cultura nell’età della globalizzazione.
Bibliografia: Visual culture, ed. C. Jenks, London 1995; N. Mirzoeff, An introduction to visual culture, London 1999 (trad.it. Roma 2002); H. Belting, Bild-Anthropologie. Entwürfe für eine Bildwissenschaft, München 2001 (trad. it. Antropologia delle immagini, Roma 2011); J. Elkins, Visual studies. A skeptical introduction, New York 2003; Compelling visuality, ed. C.J. Farago, R.Zwijnenberg, Minneapolis 2003; S. Buck-Morss, Visual studies and global imagination, «Papers of Surrealism», 2004, 2, pp. 1-29; Exploring visual culture. Definitions, concepts, contexts, ed. M. Rampley, Edinburgh 2005; W.J.T. Mitchell, Pictorial turn. Saggi di cultura visuale, a cura di M. Cometa, Palermo 2008.