VIṢṆU
Insieme a Brahmā e Śiva (v.), V. è una delle divinità della trimurti induista. A un dio che porta questo nome è assegnato un ruolo di rilievo già negli inni vedici; pur non essendo identico al V. induista, egli ne possiede i tratti caratteristici: è benefico dio conservatore e liberatore ed è connesso al mito dell'attraversamento dell'universo in tre passi, che sarà prerogativa della più tarda incarnazione in nano di V. (vāmana-avatāra). La dimora del dio vedico è nel più alto dei cieli, cosa che lo pone in chiaro rapporto con il sole. Egli compare come aiutante di Indra, il dio più importante dei Veda, ma il suo prestigio si accresce notevolmente in epoca tardo-vedica. Il dio attorno alla cui figura si formò il più tardo culto induista fu il risultato di una sintesi tra la concezione del V. vedico, dell'immagine eroizzata di Vāsudeva-Kṛṣṇa e del dio cosmico Nārāyaṇa dei testi post-vedici. Seppur resa complessa da tali premesse, l'evoluzione iconografica di V. si lascia ricostruire senza grandi difficoltà.
Non è facile comprendere perché le più antiche rappresentazioni del dio furono realizzate fuori dell'India. Si trovano sulle monete di Agatocle (c.a 170 a.C.), provenienti dagli scavi di Ai Khānum, nell'Afghanistan settentrionale, e rappresentano le figure di Saṃkarṣaṇa e di Vāsudeva-Kṛṣṇa, legate alla fase delle origini del culto di Viṣṇu. Come attributi, il primo regge nelle mani la mazza e l'aratro, il secondo la ruota e la conchiglia (?). Entrambi sono stanti, come normali figure umane a due braccia, con spada ed elmo. E però importante la loro gerarchia relativa: Saṃkarṣaṇa, fratello maggiore di Vāsudeva-Kṛṣṇa, è sempre rappresentato sul diritto delle monete con la leggenda in greco, e Vāsudeva sul rovescio, con leggenda in scrittura indiana. Ne risulta la superiorità del fratello maggiore. Ciò corrisponde all'ordine dei nomi nelle più antiche iscrizioni indiane in cui le due figure vengono onorate come guide del gruppo dei cinque eroi (pañcavīra). Provenienti da una famiglia della stirpe Vṛṣṇi, i cinque eroi furono venerati per secoli come «esseri divini di origine umana». I loro nomi erano Saṃkarṣaṇa, Vāsudeva, Pradyumna, Sāṃba e Aniruddha e tutti e cinque erano imparentati. Vāsudeva, destinato a emergere più tardi, non è altri che Kṛṣṇa, fratello minore di Saṃkarṣaṇa (=Balarāma).
Il culto dei cinque eroi, testimoniato con sicurezza dall'epigrafia, fu popolare fino al II sec. d.C. e la sua esistenza è documentabile anche in epoca più tarda, nella regione dei Vṛṣṇi e in altre aree del subcontinente, fin nell'India meridionale. Un importante centro di questo culto fu, alla fine del II sec. a.C., Besnagar (v. vidisä), dove accanto al pilastro con Garuḍa ancor oggi stante, erano anche quelli dedicati a Saṃkarṣaṇa, con capitello a foglia di palma, e a Pradyumna, con capitello con makara; sono state inoltre individuate le fondazioni di altri pilastri.
In quanto movimento popolare, tale culto eroico rappresentava una spina nel fianco per l'ortodossia brahmanico-induista, e dovette di conseguenza essere riportato sotto il controllo chiesastico. Il passaggio dal culto eroico a quello induista per un dio, si attuò tramite il dissolvimento del vincolante rapporto parentale tra i cinque Vṛṣṇi: Sāṃba viene dichiarato impuro, Vāsudeva-Kṛṣṇa (il futuro V.) dai testi del I sec. d.C. appare come il divino Nārāyaṇa-Vāsudeva, dal cui corpo emana la figura di Saṃkarṣaṇa, che produce a sua volta Pradyumna, da cui sorge infine Aniruddha. Questo sistema, fondato sul concetto delle quattro emanazioni (caturvyūha), eleva Vāsudeva allo stato di grande dio, tramite la sua identificazione con Nārāyaṇa; gli originarî legami familiari sono dimenticati. Nel III sec. d.C., Vāsudeva-Nārāyaṇa è rappresentato nelle sculture a quattro facce di Vyūha. Questa figura, ma senza emanazioni, con l'inizio del periodo kuṣāṇa vive per almeno due secoli come Vāsudeva-Kṛṣṇa a Mathurā - leggendario luogo natale di Kṛṣṇa - in piccole sculture destinate al culto domestico. Esse lo mostrano provvisto di quattro braccia; la mano anteriore destra è alzata nel saluto regale, mentre nelle altre reca, come attributi, la mazza, la ruota e la conchiglia; le braccia di questa figura sono tutte disposte al di sopra dei fianchi. Questo Vāsudeva-Kṛṣṇa non è ancora identificato con Viṣṇu.
È importante osservare che il mutamento ufficiale di questa figura in quella di V. si registra improvvisamente sul finire dell'epoca kuṣāṇa, quando è per la prima volta testimoniata anche da iscrizioni. Il mutamento si compie in due tappe: in primo luogo la mano anteriore destra si abbassa, mostrando frequentemente il palmo aperto, nel quale con l'andar del tempo comparirà un petalo o una palla di fiori o, nel periodo post-gupta, il prescritto loto. La seconda tappa riguarda le braccia inferiori, le cui mani reggevano mazza e ruota: sono ora stese verso il basso e poggiano sugli attributi, posati a terra o personificati, di gadādevī (la mazza) e cakrapuruṣa (la ruota).
La figura ora descritta è chiaramente Viṣṇu. Da essa si sviluppano, nelle diverse scuole artistiche dell'India, le più tarde forme iconografiche del dio, che pur distaccandosi da quelle originarie mantengono rigidamente i tipi di attributi descritti. Nelle immagini medievali, difatti, mazza e ruota possono essere tenute verso l'alto, oppure i varî attributi sono tenuti indifferentemente dalle diverse mani. In questo caso gli artisti seguono uno schema tradizionale secondo il quale esistono ventiquattro possibilità nella successione degli attributi obbligatorî: loto, mazza, ruota e conchiglia. Ognuna di queste varianti è contraddistinta da un nome specifico e riflette un aspetto particolare del dio.
Il dio, rappresentato sia stante sia assiso, può essere raffigurato, a partire dall'epoca gupta, anche con più di quattro braccia (il più sovente con sei, otto e dodici braccia).
Formatasi la figura di V. nel periodo a cavallo tra l'epoca kuṣāṇa e quella gupta, compare come animale simbolico (vāhana, v.) del dio il mitico uccello Garuḍa, precedentemente noto soltanto come nemico dei serpenti o come immagine per capitelli connessi a Vāsudeva-Kṛṣṇa. La sua funzione iconografica predominante è di veicolo animale del dio. Nelle opere che mostrano V. assiso su Garuḍa, quest'ultimo è rappresentato o in forma animale o con corpo umano, il cui volto conserva però sembianze d'uccello.
Accanto al sistema del Vyūha, elaborato a partire dal culto eroico nei primi secoli dell'era cristiana, si sviluppa la teoria delle incarnazioni (avatāra) di Viṣṇu. Il loro numero varia a seconda dell'epoca di composizione dei testi, ma di norma sono considerati canonici dieci avatāra. Il termine esprime l'idea della discesa di V. sulla terra in veste di liberatore, che può avere caratteristiche animali o umane o anche miste. Le dieci incarnazioni del dio sono: Pesce (Matsya), Tartaruga (Kurma), Cinghiale (Varāha), Uomo-Leone (Narasiṃha), Nano (Vāmana), Paraśurāma, Rāma-Daśarathi, Kṛṣṇa o Balarāma, Buddha, Kalkin. Esse sono suddivisibili in due gruppi di cinque. Il primo gruppo è strettamente collegato ad antiche concezioni brahmaniche; l'altro include nomi di personaggi che, nel corso del tempo, a motivo della loro popolarità o importanza storico-religiosa, furono considerati incarnazioni di V. in base a una premeditata politica del clero brahmanico. Particolarmente eloquente è il caso del Buddha che, dopo il declino del buddhismo in India dal VII sec. d.C. in poi, entra nel pantheon induista come avatāra di Viṣṇu. Tutte le incarnazioni menzionate hanno avuto forma artistica, sebbene le opere a noi giunte abbiano diversa importanza e appartengano a differenti ambiti cronologici; le loro immagini si svilupparono con la stessa gradualità che accompagnò il formarsi del sistema degli avatāra. Per l'arte visnuita assumono rilevanza solo quelle appartenenti al primo gruppo e in particolare le antiche immagini brahmaniche del cinghiale (Varāha), dell'uomo-leone (Narasiṃha) e del nano (Vāmana) il quale, manifestatosi in una forma gigantesca, coprì lo spazio dell'universo in tre passi (trivikrama).
La teoria delle incarnazioni di V. si sviluppò nei primi secoli della nostra era. Le sue prime testimonianze artistiche si identificano con le sculture del Vyūha, a partire dal 300 d.C. Varāha e Narasiṃha, già precedentemente attestati con due sculture in un contesto brahmanico, sono anche le prime e più frequenti figure tra gli avatāra di V.: il cinghiale in qualità di salvatore della Terra dall'Oceano, Narasiṃha come distruttore dei demoni che minacciano dei e uomini e del loro capo, Hiraṇyakaśipu. Varāha e Narasiṃha vengono rappresentati sia in azione sia come personificazioni di V. in forma umana, rispettivamente con testa di cinghiale e di leone, e con i quattro attributi del dio. Relative al secondo gruppo sono le figure di V. a tre teste da Mathurā e dalla regione circostante (V-VIII sec. d.C.).
La comparsa di Vāmana nell'iconografia si ha dall'epoca gupta in poi, inizialmente nelle sembianze di nano panciuto e successivamente, accanto a questa forma, anche come trivikrama che attraversa l'universo.
Saṃkarṣaṇa, il fratello maggiore di Vāsudeva-Kṛṣṇa, assume, con il nome di Balarāma, un nuovo ruolo: dal I sec. a.C. egli viene rappresentato nella scultura come personificazione dei Nāga (v.), con un cappuccio di serpente a sette teste. In tale veste, egli incarna in certo qual modo la risposta dell'ortodossia alla crescente popolarità del culto dei Nāga, documentandone l'appartenenza al mondo induista. Anche V., successivamente al distacco dal suo prototipo divino Vāsudeva-Kṛṣṇa, diviene dio dei serpenti, sebbene in un senso più filosofico-religioso; egli rappresenta il serpente primordiale Śeṣa, che diviene in tal modo un aspetto del dio. Dall'epoca gupta questo motivo viene introdotto nell'arte soprattutto nella forma di V. dormiente sul serpente Śeṣa. L'identificazione di Śeṣa con il dio è anche alla base delle sculture che mostrano il dio seduto o stante, con i suoi usuali attributi, sotto un groviglio di serpenti. È proprio con l’iconografia di V: dormiente su Śeṣa (śeṣaśayin) che appare anche, come consorte del dio, la dea Lakṣmī, conosciuta e rappresentata come dea della Fortuna sin dalle prime fasi dell'arte indiana. Dal primo Medioevo, V. e Lakṣmī sono spesso raffigurati come coppia divina in atteggiamento di intimità.
Secondo la concezione induista, tutti gli dei sono soltanto aspetti dell'Uno. Dati tali presupposti, sculture in cui vengono riuniti in un solo corpo due o più dei non destano stupore. La più nota e frequente di queste combinazioni è quella di V. con Śiva, nella figura di Harihara. Le più antiche rappresentazioni di questa fusione divina risalgono alle botteghe di Mathurā, nel IV sec. d.C., dove vennero elaborati anche i particolari iconografici. V. occupa la parte sinistra del corpo, Śiva la destra. Ognuna delle due metà presenta le caratteristiche del dio corrispondente: V., p.es., reca sempre sul capo una sorta di corona, mentre i capelli di Śiva sono intrecciati. Allo stesso modo i loro corpi presentano per metà gli usuali attributi. A giudicare dal numero delle sculture note, la figura di Harihara fu venerata in India fino agli inizi del Medioevo.
V. entra solo di rado a far parte di altre combinazioni divine e di norma in epoca medievale: così l'unione di V. con Sūrya come Sūrya-Nārāyaṇa o la combinazione di Sūrya, V., Śiva e Brahmā nel Hariharahiraṇyagarbha. Anche la combinazione con Lakṣmī è assai poco frequente e limitata all'India settentrionale.
Dopo la fase mathurena e in alcune scuole artistiche di età gupta, la figura di V. conosce sviluppi di carattere fortemente regionale. Stili artistici locali ne mutano l'aspetto, mentre gli influssi religiosi e settari ispirano la creazione di forme particolari, che tuttavia conservano nel corso dei secoli i più importanti tratti iconografici del dio, quali soprattutto il capo coronato e gli attributi: la mazza, la ruota, la conchiglia e, dal VI sec. in poi, il loto.
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