Visione anglicana di Costantino
Un’indagine storica
La storia della visione anglicana di Costantino – per essere precisi, le visioni anglicane di Costantino, in tutta la loro varietà – è di particolare interesse se si considera l’ecclesiologia distintiva della Chiesa di Inghilterra, Chiesa di Stato sottoposta al governo del monarca britannico. Variazioni nel quadro emergono da evoluzioni nella Chiesa anglicana o nella storiografia inglese. Sono queste a dare continuità, piuttosto che una rigorosa linea di successione, in quanto gli scrittori anglicani hanno fatto ricorso a fonti antiche e a studi continentali tanto quanto ai loro predecessori nella comunione anglicana. Su questo argomento non esiste una bibliografia, fatto salvo per i lavori che verranno descritti in seguito. Alcuni degli autori trattati hanno ricevuto e continuano a ricevere grande attenzione in qualità di storici o teologi di rilievo, quali Foxe, Hooker e Gibbon, ma la seguente trattazione è la prima indagine generale sulla visione anglicana di Costantino.
La Chiesa anglicana rivendica continuità con il suo passato medievale, ma la sua costituzione distintiva fu sancita dall’Atto di Supremazia del 1534, il quale proclamava il monarca inglese ‘il solo Capo supremo della Chiesa di Inghilterra’. Un successivo Atto di Supremazia, quello del 1559, cambiò il titolo in ‘Supremo Governatore’ della Chiesa di Inghilterra, per il disagio nell’utilizzo di ‘capo’ nel caso di una donna, la regina Elisabetta I. Questo è tuttora parte della titolatura della corona inglese. L’opposizione a tale innovazione fu debole, poiché l’autorità papale, adesso respinta, non evocava nella popolazione inglese alcun sentimento generale di fedeltà e l’appello agli «antichi diritti e privilegi della nazione inglese» toccava le corde popolari. Ciononostante era necessario offrire una giustificazione che soddisfacesse l’élite informata su Chiesa e Stato. Una delle domande che ci si deve porre è se in questo contesto fu fatto appello all’esempio degli imperatori romani, per il loro ruolo spesso dominante sugli affari ecclesiastici, e in particolare al primo e più celebrato tra loro, Costantino il Grande. Il capo consacrato della Chiesa anglicana al tempo della sua separazione da Roma è Thomas Cranmer, arcivescovo di Canterbury e primate di Inghilterra. Egli sostiene la supremazia reale sulla base della responsabilità del monarca davanti a Dio per il benessere dei suoi sudditi nella sfera spirituale e nella sfera materiale, una rivendicazione che risale agli imperatori cristiani della tarda antichità, e riceve un sostegno, benché discutibile, nel diniego della nozione cattolica di sacerdozio1. Secondo Cranmer i vescovi e il clero sono ufficiali dello Stato la cui consacrazione per mezzo dell’imposizione delle mani non è nient’altro che un piacevole spettacolo, di per sé né necessario né efficace. Come scrive nel 1540 in risposta a una consultazione su una proposta di dichiarazione di dottrina cristiana:
Tutti i prìncipi cristiani furono incaricati direttamente da Dio ad avere piena cura di tutti i loro sudditi, per ciò che riguarda l’amministrazione della parola di Dio, per la cura delle anime, come per ciò che riguarda l’amministrazione delle cose politiche e del governo civile. E in entrambe queste due funzioni essi devono avere diversi ministri al loro servizio, per sopperire a ciò che è assegnato ai loro vari uffizi [...]. I ministri della parola di Dio al servizio di sua maestà sono i vescovi, parroci, vicari, e tanti altri preti quanti sono stabiliti da sua altezza per quel servizio [...]. Detto questo, ufficiali e ministri [...] [devono] essere incaricati, assegnati ed eletti in ogni luogo secondo le leggi e gli ordini di re e prìncipi. Nell’ammissione di molti di questi ufficiali sono usate cerimonie e solennità piacevoli, che non sono necessarie, ma sono solo per buon ordine e decorosa maniera: poiché se tali uffizi e servizi fossero assegnati senza tale solennità, sarebbero ciò nonostante davvero assegnati. E non c’è più promessa di Dio che la grazia sia data nell’assegnazione dell’uffizio ecclesiastico di quanta non ve ne sia nell’assegnazione dell’uffizio civile2.
L’argomentazione di Cranmer prosegue con l’ammissione che nei primi tre secoli della Chiesa, quando non c’erano principi cristiani a governare la Chiesa stessa e a nominare i ministri, erano le congregazioni cristiane a sceglierli. Questo significa che solo con Costantino la Chiesa riuscì, per la prima volta, a essere governata nella maniera voluta da Dio. Durante il regno della regina Maria I l’Inghilterra è testimone della restaurazione cattolica, nel corso della quale Cranmer viene deposto dal suo incarico e mandato al rogo come eretico. Al suo processo a Oxford, nel 1555, gli si domanda se pensa veramente che il monarca, in qualità tale, sia il capo della Chiesa, anche nel caso in cui fosse eretico o infedele. Lui risponde: «Nerone fu capo della Chiesa – cioè dei corpi degli uomini di cui la Chiesa consiste – per questo decapitò Pietro e gli apostoli. E anche il Turco è capo della Chiesa di Turchia». Questa risposta intendeva fare una distinzione tra la Chiesa visibile, come organizzazione giuridica, e il vero Corpo di Cristo, la Chiesa spirituale degli eletti. Mentre la prima può essere capeggiata da un non credente, quest’ultima (ovviamente) no; è infatti Cristo l’unico capo. È chiaro che tale semplice e radicale ecclesiologia non ha bisogno di rifarsi al precedente tardoantico: gli imperatori cristiani, benché certamente attivi negli affari ecclesiastici, non trattarono mai la Chiesa come un dipartimento dello Stato, ove il potere dei capi derivava dalla nomina del sovrano. Non è dunque sorprendente che gli scritti di Cranmer (a dire il vero non copiosi) non contengano alcun riferimento all’imperatore Costantino.
Costantino è comunque menzionato nella prefazione del traduttore a un’opera di Cranmer, scritta in latino nel 1547 e pubblicata in inglese, durante il regno della regina Maria. Il traduttore (il cui nome esteso non è indicato) sostiene la distinzione tra la Chiesa visibile e la Chiesa spirituale indicando il ruolo dominante rivestito da Costantino e dai suoi successori nella definizione della dottrina, per mezzo dei concili che diressero, a cominciare dal «primo e più generale concilio di Nicea»3. Di conseguenza, prosegue il testo, la scelta tra l’ortodossia e l’eresia dipendeva dalla preferenza personale dell’imperatore; l’esilio di Atanasio sancito da Costantino dopo il concilio di Tiro è citato come prova che la Chiesa visibile poteva distaccarsi da quella vera. Questo implica che quella vera non può cadere in errore. I successi o le deviazioni della Chiesa nella storia cessano di essere di primaria importanza o di meritare estrema attenzione.
Di gran lunga più importante per lo sviluppo della teologia e dell’identità anglicana è il contributo di Richard Hooker, il cui Laws of Ecclesiastical Polity, pubblicato in larga parte (libri dal I al V) tra il 1593 e il 15974, è stato, ed è tuttora, la grande opera di ecclesiologia anglicana. In contrasto con Cranmer, ristabilisce la dottrina tradizionale secondo la quale i ministri ricevono, al momento dell’ordinazione, un dono particolare dello Spirito Santo, distinto da tutto ciò che un sovrano secolare può conferire. Allo stesso tempo Hooker si pronuncia contro la separazione tra Chiesa e Stato: nelle nazioni cristiane l’appartenenza alla Chiesa e al Commonwealth sono abbinate e, anche se le sfere di attività ecclesiastica e civile possono essere distinte, questo non significa che debbano esserci due gerarchie separate e autonome; infatti, in Inghilterra, spetta al re e al parlamento legiferare in materia ecclesiastica. Hooker ha molte occasioni nella sua opera per menzionare Costantino come modello di monarca cristiano. Egli, in difesa del sistema anglicano, si appella al suo esempio e ai suoi successori, i quali costantemente «interferivano negli affari della Chiesa»: questo era un loro diritto, considerato che il popolo aveva affidato tutto il potere legislativo all’imperatore. Hooker cita la famosa affermazione di Costantino per cui egli era «vescovo di quanti stanno al di fuori della Chiesa»5, e la interpreta non nel senso che l’imperatore manchi di autorità all’interno di essa, ma che egli può propriamente delegare questioni ecclesiastiche a coloro che siano particolarmente competenti ad affrontarle6. In un volume successivo dell’opera, Hooker descrive Costantino come «astenuto da ciò che egli stesso avrebbe potuto legittimamente fare piuttosto che desideroso di reclamare un potere non degno o adatto a essere da lui esercitato»7. Questo sembra voler dire che Costantino aveva tutto il diritto di imporsi sulla Chiesa in qualsiasi occasione, ma che a volte si trattenne per prudenza e modestia.
Nel corso della sua dettagliata discussione su tutta la gamma di opere e pratiche ecclesiastiche, Hooker trova numerose occasioni per assumere Costantino come modello da imitare: per il suo rifiuto dei costumi ebraici, per la costruzione e la dedica solenne di chiese magnificenti, per la convocazione di sinodi e per l’uso dell’autorità nel rafforzarne i decreti, e non in ultimo per la sua generosità nei confronti della Chiesa e l’incoraggiamento per tutti i fedeli a compiere opere di beneficenza testamentarie. Hooker ammonisce i vescovi del suo tempo affinché mantengano la loro dignità ed esibiscano manifestamente la loro santità, considerata l’attitudine sprezzante nei confronti della Chiesa dimostrata da molti di quelli che rivestono alte posizioni di governo; essi non possono fare affidamento su un governatore così adiuvante come Costantino, desideroso di promuovere la loro reputazione e a volte abile nel «coprire le loro imbecillità».
Nel complesso, Hooker intende Costantino, per il suo ruolo nella Chiesa, come precursore di Enrico VIII e dei suoi successori, ma i suoi riferimenti al modello dell’imperatore e dei suoi successori sono blandi e secondari. Egli non pensa che la rivendicazione da parte dei monarchi inglesi della suprema autorità nella Chiesa, così come nello Stato, abbia bisogno di sollecite giustificazioni. Egli scrive per un pubblico inglese in un’epoca in cui il contrattacco cattolico, che aveva avuto inizio con la deposizione della regina Elisabetta dichiarata da Pio V nel 1570, era palesemente fallito, e la sfida alla supremazia reale dalle file del protestantesimo inglese (brevemente vittorioso nel secolo successivo) non era ancora emersa.
Costantino, come primo imperatore cristiano, ha dato ai teologi tanto materiale su cui discutere. Allo stesso tempo il suo regno è stato studiato da storici sia dell’Impero romano che della Chiesa primitiva. Lo studio che è stato, forse, il più letto, e di certo il più accessibile al lettore, è quello contenuto nell’opera anglicana più popolare del XVI secolo (oltre alle diverse edizioni del Book of Common Prayer), gli Acts and Monuments di John Foxe, resi disponibili secondo decreto governativo in ogni Chiesa parrocchiale del regno, a cui quasi immediatamente fu assegnato il nome popolare di Libro dei Martiri di Foxe. Costantino appare per la prima volta nell’opera (sarà citata qui l’edizione estesa del 1570) come il vincitore su Massenzio e Licinio, e per questa ragione liberatore della Chiesa dalla persecuzione, e colui che diede così inizio a un periodo di pace che, secondo Foxe, sarebbe durato in Inghilterra per mille anni sino alla ripresa delle persecuzioni al tempo del proto-protestante John Wycliffe. Come la maggior parte degli scrittori inglesi su questo argomento sino a Gibbon, Foxe segue pedissequamente il resoconto della carriera di Costantino scritto da Eusebio di Cesarea nella Vita Constantini. L’unica affermazione distintiva in questa parte del resoconto è la sua insistenza (in qualità di buon protestante riformato) che la visione di Costantino della croce e l’adozione del labaro non giustificava l’adorazione delle croci per i cristiani moderni.
Foxe corona il suo racconto delle persecuzioni romane e chiude il primo libro della sua opera con un panegirico dell’imperatore. Egli richiama allo stesso tempo l’orgoglio nazionale dei suoi compatrioti seguendo la tradizione che collocava la nascita di Costantino in Bretagna ed eleva sua madre Elena allo status di figlia di un ‘re’ britannico. Costantino, prosegue, sebbene crescesse senza conoscere i riti pagani, fu indotto a celebrarli dal suo matrimonio con Fausta, la figlia di Massimiano, ma rinunciò comunque a praticarli dopo la sua vittoria su Massenzio; Foxe si rifà chiaramente al modo in cui il Salomone dell’Antico Testamento e molti dei suoi successori si dice fossero stati persuasi dal politeismo per via delle loro mogli straniere. Conquistati gli imperi pagani, il solo interesse di Costantino – Foxe prosegue – fu la prosperità della Chiesa, a cui donò pace in due modi: mettendo fine alla persecuzione e sopprimendo la discordia interna alla Chiesa stessa causata dalle controversie con i donatisti e gli ariani. L’autore cita la lettera di Costantino ad Alessandro vescovo di Alessandria e Ario, in cui li rimproverava per i loro litigi su materie da lui considerate non importanti (precisamente, la divinità di Cristo). Tale lettera mise in imbarazzo molti pii commentatori durante i secoli, ma Foxe non ha alcuna esitazione nel raccomandarla come dimostrazione della «divina disposizione» e della «singolare natura gentile del mite e religioso Costantino» e come modello da imitare per tutti i principi cristiani.
Foxe procede citando numerose leggi di Costantino, conservate in Eusebio, e i codici di leggi varate a beneficio della Chiesa. Alcune di queste sono interpretate in maniera distorta. Egli sostiene, ad esempio, che Costantino riservò le cariche pubbliche ai cristiani e vietò agli ‘altri’ di compiere sacrifici agli idoli o celebrare feste pagane. E citando un editto del 321 che congedava dai doveri e dalle imposizioni curiali i medici e gli insegnanti di retorica e grammatica (senza alcuna menzione della religione), Foxe propone una parafrasi notevolmente anacronistica: «Non meno cura e previdenza il suddetto Costantino ebbe inoltre per il sostentamento delle scuole di appartenenza della Chiesa, e per il nutrimento delle belle arti e delle scienze libere, specialmente della teologia». Foxe si riferisce chiaramente ai collegi cristiani e alle scuole di grammatica dei suoi tempi. Quando cita le istruzioni date da Costantino a Eusebio di Cesarea perché faccia cinquanta copie della Bibbia, aggiunge una nota a margine incoraggiando i governanti del suo tempo affinché imitino tale promozione della conoscenza delle Scritture, date le moderne tecniche di stampa di cui questi sono dotati. Infine, dopo una digressione polemica sulla donazione di Costantino, giustamente accantonata come un falso, Foxe porta a conclusione la sua «narrazione dei nobili atti e delle celestiali virtù del celeberrimo Imperatore Costantino il Grande, per tutti i principi cristiani una singolare rappresentazione da osservare e imitare, e meritevole di memoria perpetua in tutte le congregazioni di santi cristiani».
Per concludere, Foxe rappresenta la persistenza all’interno della Chiesa anglicana di una visione del regno di Costantino congedata da leggende e coalescenze medievali, fermamente basata sulla prima e più sostanziale fonte, la Vita Constantini di Eusebio. Nel contesto di dominio della politica cristiana (di diverse tendenze) del suo tempo e dei limiti degli studi contemporanei, non sorprende che egli non sia riuscito a riconoscere gli aspetti tendenziosi della presentazione di Eusebio.
Si è visto come per i grandi teologi anglicani del XVI secolo la questione più urgente della relazione tra Chiesa e Stato, e del ruolo all’interno della Chiesa dei monarchi cristiani, dia forma al contesto delle modalità di approccio a Costantino il Grande. Nonostante i controversisti abbiano fatto riferimento a Costantino e ai suoi successori per illustrare le loro teorie, non hanno fatto ricorso alla storia nelle loro dimostrazioni. Un’eccezione parziale è data da un opuscolo pubblicato a Londra nel 1647 in difesa di un’opera olandese, il De Episcopatu Constantini Magni di Nicholaus Vandelius. L’anonimo autore di questo considerevole libello ricorda l’insistenza di Cranmer nel sostenere che il clero dovrebbe sottostare all’autorità dei magistrati, e che «la vocazione, l’elezione, e la consacrazione con l’imposizione delle mani sono strumenti meramente umani e corrotti nei quali vediamo per esperienza [che] non c’è efficacia spirituale». Lo stesso autore fa riferimento all’esempio di Giustiniano e Virgilio per indicare come un governante dovrebbe trattare un papa, ma non fa menzione di Costantino. La consapevolezza che rifarsi all’imperatore avrebbe potuto risultare controproducente è rafforzata dalla sua famosa dichiarazione, riportata da Eusebio, che egli era «vescovo» (o «sovrintendente») non di coloro che stanno «all’interno», ma di coloro che si trovano «all’esterno» della Chiesa. Richard Crakanthorpe, dottore di teologia, pubblica un’opera considerevole nel 1621, dedicata a re Giacomo I, con la quale demolisce alcuni documenti falsi attribuiti al regno di Costantino. La prefazione all’opera mette in relazione i due governanti: «Chiunque guardi all’uno dei due può osservare in esso come in un vetro riflettente il pieno e vivo ritratto dell’altro – entrambi discendono dai più principeschi progenitori, entrambi nati e allevati in questa terra felice». Deve tuttavia alterare la dichiarazione autodenigratoria di Costantino: descrive l’imperatore come «vescovo di tutti loro», cioè al di sopra dei vescovi. Uno storico successivo, Joseph Priestley, scrivendo nel 1790, sostiene ragionevolmente che, nonostante Costantino rispettasse l’autorità episcopale, egli «dovette ritenersi qualificato a decidere chi fossero i vescovi veri e ortodossi, i cui decreti decise di applicare, dato che ne patrocinava alcuni tanto apertamente, quanto, prendendo le loro parti, andava veemente contro altri». Nessuno degli autori di questo periodo – e pochi degli autori di quello attuale – hanno capito che la dichiarazione di Costantino (in realtà, «anche io sono vescovo – dell’impero») è lungi dall’essere una definizione del suo ruolo: è semplicemente un gesto gentile di condiscendenza, formulato nel contesto di una cena, per mettere i vescovi presenti a loro agio.
Costantino rimane comunque una figura celebrata in numerosi brevi racconti sull’Impero romano o sulla Chiesa primitiva, scritti per lettori il cui interesse non è polemico. Gli autori di queste opere convenzionali seguono in gran parte lo stesso percorso tracciato da Foxe. Nessuno di loro produce un’opera fondamentale su Costantino o promuove alcun avanzamento negli studi del suo regno. Sostanzialmente viene ripetuto lo stesso quadro di volta in volta, insistendo sul ruolo dell’imperatore come paladino del cristianesimo. La Vita Constantini di Eusebio è ancora la fonte principale, benché integrata (come già in Foxe) da altri storici della Chiesa primitiva, come Socrate e Teodoreto, e (in sporadici, specifici punti) da altre fonti antiche, inclusi i codici di leggi, e da storici secolari come Eutropio. Solitamente sono indicati i riferimenti precisi a queste opere, mentre le fonti secondarie non sono quasi mai menzionate; più lunga è la lista dei riferimenti antichi, più è lecito sospettare che siano stati presi interamente da predecessori non noti. Rimane comunque spazio per una certa varietà nella selezione dei fatti e per momenti di valutazione individuale.
Un elemento in Foxe è presto corretto, ovvero il fatto che Costantino avrebbe dato inizio a mille anni di pace nella Chiesa, sinché i cattolici del Medioevo non cominciarono a perseguitare i proto-protestanti. In contrasto, Patrick Symson, scrivendo durante il regno di Giacomo I, delinea il regno di Costantino come un breve interludio di pace, presto concluso con la persecuzione ‘ariana’ contro i cristiani ortodossi sotto il regno di Costanzo II. L’immagine di una pace perfetta sotto Costantino è artificiosamente accentuata dall’omissione da parte dell’autore della controversia ariana – il che è sorprendente persino per un breve racconto – e dall’accantonamento del donatismo perché moribondo sin dal principio, come un pesce fuor d’acqua: «più si muove, più si avvicina alla morte».
Altre novità sul tema riflettono la posizione più equilibrata e neutrale degli storici anglicani di questo periodo, pronti a giudicare criticamente Costantino. William Winstanley, nello scrivere un racconto popolare alla fine del periodo del Commonwealth, riprende il giudizio dello storico del IV secolo, Eutropio, secondo cui Costantino «può essere comparato nel primo periodo del suo regno ai migliori dei principi, ma nel periodo finale ai mediocri», in riferimento all’uccisione di Crispo e Fausta. Questo racconto è troppo breve e non è chiaro a cos’altro Eutropio stesse pensando. Winstanley elenca, tra gli errori di Costantino, anche il trasferimento della capitale dell’Impero a Costantinopoli e la divisione dell’Impero tra i suoi eredi. Egli vede questi eventi come destinati a indebolire inevitabilmente la metà occidentale dell’Impero e a portarlo al collasso con le invasioni barbariche del V secolo. Winstanley è un autore di minore rilievo, ma questa stessa nozione dell’Impero fatalmente indebolito dalla sua stessa divisione e dalla fondazione di Costantinopoli riemerge immediatamente dopo, in quella che è stata descritta come la storia generale più letta del periodo della Restaurazione (1660-1680), An Institution of General History, di William Howell:
Questo impero, essendo in condizione di declino, a causa della sua tarda età (poiché tutte le cose sublunari sono soggette alle vicissitudini del tempo) e fortemente stemperato da animosità interne, in cui il volere della monarchia ereditaria e l’orrida licenziosità dell’esercito permanente avevano avuto la meglio, come anche l’affaticamento per una così grande mole, e una così grande pletora che la natura non avrebbe potuto ben governare, essendo forzato come fu da Costantino a cambiare la sua aria naturale, congeniale e originaria con una tale violenta alterazione, contrasse la sua infermità mortale.
Volgendo al XVIII secolo, si registra un distacco dall’immagine descritta da Eusebio di un Costantino che sin dal momento della sua conversione divenne un fervente cristiano, fortemente entusiasta di diffondere la fede. L’opera sulla Chiesa primitiva sino ai tempi di Costantino che domina il campo all’inizio del XVIII secolo è A General Ecclesiastical History di Laurence Echard. Echard è profondamente tradizionalista nel ripetere la rivendicazione patriottica che Costantino «era originario della Bretagna» e la devota pretesa che la sua vittoria su Massenzio fu opera della divina provvidenza, ma insiste sul fatto che l’imperatore, nell’apprendere il significato della sua famosa visione, «si tenne in riserbo, come un uomo accorto e saggio, inizialmente non troppo compiacente». Questo è ripetuto in un’opera che ha ottenuto altrettanto successo immediatamente dopo la morte di Echard, The History of the Propagation of Christianity di Robert Millar, in cui si legge, in un modo che riprende manifestamente Echard, che dopo la sua visione Costantino «inizialmente non si dichiarò apertamente cristiano, ma tenne il riserbo». Nessuno degli autori sviluppa questa idea, ma è chiaro che in questo modo ridefiniscono il pio Costantino presentato da Eusebio come un politico esitante nelle sue posizioni e non intenzionato ad agire precipitosamente.
Echard e Millar scrivono in un’era in cui da un uomo di Stato ci si aspetta dimostrazione di moderazione un’era, inoltre, ritenuta testimone della sostituzione del ‘fanatismo’ del XVII secolo e delle sue guerre di religione con l’indifferentismo religioso. Il grande vescovo e teologo anglicano Joseph Butler si sente di poter affermare già nel 1736: «È successo, non so come, che molte persone diano per scontato che, da ultimo, sia stato scoperto che il cristianesimo è un mito». Butler non vuole dire che molti in Inghilterra negassero la verità del cristianesimo: una tale palese empietà sarebbe stata ancora un reato criminale. Ciò che sostiene qui è che l’apparente ortodossia spesso mascherava scetticismo o indifferenza. È questo che ha colpito i lettori anglicani ortodossi di quella che a oggi è considerata la più grande opera storica mai scritta in Inghilterra, The History of the Decline and Fall of the Roman Empire di Edward Gibbon. Gibbon tiene per sé la sua personale fede (o mancanza di fede), per non incorrere in eventuali accuse di blasfemia o ateismo, ma la sua analisi degli effetti della cristianizzazione sul destino dell’Impero romano è inequivocabilmente negativa. Alla fine della sua grande opera conclude: «Ho descritto nei precedenti volumi il trionfo della religione e del barbarismo». Ciò che colpisce di più gli ecclesiastici del suo tempo è il tentativo dello storico di giustificare il trionfo della fede cristiana senza fare riferimento al miracolo; nonostante includa i «miracoli della Chiesa primitiva» nell’elenco dei motivi del successo del cristianesimo, egli lo fa con percettibile ironia. Raggiunge poi il picco più alto quando simula assoluto attonimento davanti all’omissione da parte degli scrittori pagani della menzione delle tre ore di buio su tutto il mondo che accompagnano la crocifissione di Cristo: il lettore imparziale è chiaramente portato a licenziare il racconto del Vangelo come mito.
La sua narrazione del regno di Costantino fino al 324, che si concentra sulla graduale eliminazione dei suoi rivali, costituisce il capitolo XIV dell’opera, seguito da due capitoli sulla storia della Chiesa primitiva e delle persecuzioni, quindi da una parte sulle innovazioni secolari del suo regno, arrivando poi a due capitoli narrativi sul periodo dal 324 al 360. Questo porta a posporre la conversione di Costantino e la sua politica religiosa al capitolo XX, che fu pubblicato oltre cinque anni dopo il capitolo XIV. L’effetto è quello di implicare che l’ascesa di Costantino al potere supremo avesse solo una connessione accidentale con la sua religione; il racconto tradizionale, il quale attribuisce la sua ambizione al desiderio di promuovere il cristianesimo e il suo successo al favore del Dio cristiano, è silenziosamente accantonato.
La valutazione di Gibbon del carattere dell’imperatore attribuisce a quest’ultimo vizi e virtù, ma colpisce per la sua freddezza i lettori contemporanei, abituati a entusiastici encomi. Egli cita il principio adottato da Claude Fleury nella sua Storia Ecclesiastica per cui «dall’imparziale unione di quei difetti, ammessi dai suoi più ardenti ammiratori, e di quelle virtù, riconosciute anche dai suoi più implacabili nemici, potremmo sperare di fare un giusto ritratto di quest’uomo straordinario quale la verità e l’obiettività della storia dovrebbero accogliere senza rossore», ma conclude che tale procedimento produrrebbe «colori così discordi» e «una figura mostruosa più che umana». Crede invece che l’analisi più solida renderà conto delle discrepanze distinguendo i diversi periodi della carriera dell’imperatore. Segue poi una descrizione delle qualità che lo hanno portato al successo: salute e forza, temperanza e liberalità, abilità e coraggio nell’ispirare quello altrui, e soprattutto «la magnanimità nel concepire e la pazienza nell’eseguire i piani più ardui», mentre «la sconfinata ambizione che […] appare come la sua passione dominante» può giustificarsi come necessaria per portare unità e pace nell’Impero. Se soltanto, Gibbon prosegue, fosse morto nel 312 o persino nel 324, il suo carattere sarebbe apparso immacolato ai posteri. Qui Gibbon tira in ballo il giudizio lapidario dato da Eutropio (già menzionato) secondo cui Costantino «può essere comparato nel primo periodo del suo regno ai migliori principi, ma nel periodo finale ai mediocri», che Gibbon vuole emendare con «a malapena ai mediocri», per rendere la critica più feroce. Sviluppa così la critica di Eutropio:
si può osservare un eroe, che aveva per tanto tempo ispirato amore ai sudditi, incutendo terrore ai nemici, che degenera in un crudele e dissoluto monarca, corrotto dalla propria fortuna, o elevato dalla vittoria al disopra della necessità di simulare. La pace generale, che egli mantenne negli ultimi quattordici anni del suo regno, fu un periodo di splendore apparente, più che di reale prosperità; e la vecchiaia di Costantino fu disonorata dai due opposti ma conciliabili vizi della rapacità e della prodigalità […]. Le diverse innovazioni fatte dal vincitore portarono un aumento di spese; le sue costruzioni, la sua corte e le sue feste richiesero immediati e abbondanti finanziamenti; e l’unico fondo, che potesse sostenere la magnificenza del sovrano, era l’oppressione del popolo. I suoi indegni favoriti, arricchiti dall’infinita liberalità del loro signore, esercitavano impunemente il privilegio della rapina e della corruzione. Si sentiva in ogni parte della pubblica amministrazione una segreta ma universale decadenza, e l’imperatore, sebbene ne conservasse sempre l’ubbidienza, perse gradatamente la stima dei sudditi.
Gibbon esprime particolare disprezzo per l’aspetto fisico dell’anziano imperatore, le sue vesti di seta ricamate, i lussuosi gioielli e la «parrucca di diversi colori», comparandolo al notoriamente effeminato e dissoluto imperatore Eliogabalo. Questa immagine di imperatore eccezionalmente dotato, ma tristemente corrotto dal potere, potrebbe ricordare il famoso detto dello storico del XIX secolo Lord Acton: «Il potere corrompe, il potere assoluto corrompe assolutamente». Suggerisce che Gibbon è in cuor suo altrettanto critico dei primi anni di Costantino, ma non così imprudente da provocare i lettori devoti condannando il Costantino che si convertì al cristianesimo e che liberò la Chiesa dalle persecuzioni.
Nel trattare l’ipotetica esperienza di conversione generalmente attribuita a Costantino sulla base delle prime narrazioni, nel capitolo XX Gibbon esordisce con il racconto di Lattanzio di un sogno fatto prima della battaglia di ponte Milvio; benché ammetta che l’imperatore potrebbe aver fatto un tale sogno, l’autore suggerisce che la storia fu una «pia frode» per impressionare le truppe; la storia di Eusebio, persino più imponente, ma scritta venti anni più tardi, della visione di una croce nel cielo è altrettanto sconfessata come «falsità intenzionale». Il fatto che Costantino non fosse a questo punto, e per alcuni anni a venire, genuinamente o fortemente devoto al cristianesimo appare ineludibile a Gibbon per la mancanza di una rottura decisiva con il paganesimo: lo stesso anno vede «due editti, l’uno dei quali comandava la solenne osservanza della domenica, mentre il secondo dava istruzioni per la regolare consultazione degli aruspici». Come ulteriore prova dell’ambivalenza dell’imperatore, egli cita l’editto di Milano, perché tollerante con il paganesimo così come con il cristianesimo, e perché formulato in modo tale che fosse implicito che entrambi i riti erano equamente accettabili per «la Divinità». Gibbon non considera, così come non lo fecero gli altri storici inglesi fino al XX secolo, che l’editto non rivela il credo di Costantino, ma il punto più lontano verso cui riuscì a spingere il coautore dell’editto, il suo alleato pagano Licinio.
In ogni caso Gibbon non nega che Costantino fosse simpatizzante del cristianesimo e impegnato a promuoverlo. Allo stesso tempo è per lui assiomatico che sui governanti, quanto meno su quelli di successo, «influiscono più frequentemente le mire del vantaggio temporale, che le considerazioni d’una verità speculativa e astratta». Ma – ci si potrebbe chiedere – quale vantaggio temporale poté ottenere Costantino dalla promozione del cristianesimo? La risposta di Gibbon è che la dottrina cristiana insegnava obbedienza passiva a tutti i governanti, persino a coloro che li perseguitavano. Egli fa una stima della proporzione dei cristiani tra i sudditi di Costantino ad appena un ventesimo – una stima ben al di sotto di quella fatta dai suoi predecessori e contemporanei, e anche dai suoi successori del XIX secolo, ma sulla quale gli storici moderni non cavillano. Fa però propria, troppo acriticamente, la presunzione di quasi tutti gli storici sino al tardo XX secolo, che cioè il paganesimo (qualunque fosse la sua forza numerica) fosse già moribondo. Gli storici moderni hanno sostenuto che Costantino, adottando il cristianesimo molto prima di divenire l’unico signore del mondo romano, e in un momento in cui l’esercito era oltremodo pagano, non avrebbe potuto fare la sua scelta sulla base del calcolo politico. Ma Gibbon non crede che i pagani del tempo di Costantino fossero devoti alla loro religione: riferendosi all’esercito che sconfisse Massenzio, dice che «i barbari della Germania, che formavano il nerbo delle legioni, erano per natura incuranti e aderivano senza resistenza alla religione del loro comandante».
Pur insistendo, comunque, sull’adozione del cristianesimo di Costantino motivata dall’astuzia politica più che da un’intima convinzione, Gibbon accetta che con il tempo la tatticità divenne sincerità: «l’apparente pietà di Costantino (se pure da principio fu solo apparente) poté gradatamente, per la forza della lode, dell’abitudine e dell’esempio, convertirsi in vera fede e fervente devozione». Questa crescita graduale della fede fornisce una parziale spiegazione di un fatto che affligge lo spirito ecclesiastico degli storici più pii di Gibbon, ossia il differimento del battesimo di Costantino in punto di morte. Qui Gibbon invoca il declino morale dell’imperatore: «A misura che avanzava nella conoscenza della verità, declinava nella pratica della virtù». In altre parole, più la sua fede maturava, meno si sentiva pronto a adottare le norme morali richieste ai battezzati.
Una replica al racconto di Gibbon che poco lusinga Costantino è formulata nel 1790, subito dopo la pubblicazione di questi capitoli nel 1781, da Joseph Priestley, in una storia generale della Chiesa primitiva. Considerato che egli era unitariano, la sua opera esula dai confini del nostro tema; ma se si omettono gli elementi del racconto che riflettono il suo particolare credo, il resto è perfettamente rappresentativo della reazione a Gibbon degli ecclesiastici di tutte le denominazioni. Priestley castiga Gibbon per aver ridotto la conversione di Costantino a calcolo politico, poiché tale calcolo lo avrebbe piuttosto mantenuto fedele al paganesimo, che era la fede preponderante del mondo romano. «Questo storico», egli scrive, «difficilmente ammetterebbe che al momento dell’adesione di Costantino il cristianesimo era da così tanto tempo stabilito, come egli stesso testimonia, da essere stato abbracciato dalla maggior parte dei sudditi dell’Impero romano». Questa argomentazione è oggi ammessa dalla gran parte degli storici. Sfortunatamente non sono solo i contemporanei di Priestley a sovrastimare la forza della Chiesa in quella prima epoca: anch’egli lo fa. In uno dei capitoli precedenti della medesima opera, infatti, avanza l’idea che la mancanza di una ribellione pagana contro Costantino «è una prova irrefutabile del grande progresso che il cristianesimo ha fatto nell’Impero romano» e che una gran parte della popolazione, anche se non cristiana, fu da allora favorevole al cristianesimo, felice di vederlo diventare religione dominante e felice di essere governata da un imperatore cristiano.
L’opera di Gibbon ha offeso molti ecclesiastici, ma la sua qualità, sia nell’apprendimento sia nello stile, ha reso impossibile ignorarla o sostituirla. John Henry Newman scrivendo nel 1841 ammette che «è noto che la Chiesa inglese è priva di una storia ecclesiastica; Gibbon è quasi l’unica nostra autorità per temi che sono tanto vicini al cuore di un cristiano come nessun altro potrebbe essere». L’analisi delle motivazioni di Costantino fatta da Gibbon non ha fatto risentire Newman, poiché egli accetta la presunzione che i motivi di un uomo di Stato siano sempre primariamente politici. In una lezione del 1850 cita la lettera in cui Costantino rimproverava Ario e Alessandro vescovo di Alessandria per aver preso la loro disputa dottrinale troppo sul serio, e continua:
Tale è la posizione che il potere civile cristiano ha assunto nei primi giorni della sua nascita. Nel momento in cui lo Stato entra nella Chiesa, mostra la sua natura e le sue propensioni, e prende una posizione che non è mai stata cambiata, e mai lo sarà. Re e uomini di Stato possono essere, e sono stati, santi; ma, per essere tali, hanno agito contro gli interessi e le tradizioni del governo dei re e degli statisti.
L’influenza di Gibbon può essere inoltre individuata in un’opera anglicana, datata 1828, di un autore che si differenzia da Gibbon e da Newman nei valori e nelle convinzioni: lo studio su Costantino di Matthew Bridges, che sembra essere la prima monografia scritta da un autore inglese che sia mai stata dedicata interamente all’imperatore e al suo regno. Bridges riprende da Gibbon la nozione per cui la vita di Costantino mostra un progressivo declino morale. In effetti, rifiuta la spiegazione data da Gibbon dell’esecuzione di Crispo attribuendola (più plausibilmente) a false accuse lanciate dall’imperatrice Fausta, desiderosa di restringere la successione ai propri due figli, ma riprende la denuncia di Gibbon, secondo cui l’anziano imperatore fu sedotto dall’amore per l’ostentazione e dilapidò le ricchezze dell’Impero in un vasto programma di costruzioni senza utilità. La sua analisi si distingue però per la rigida devozione evangelica. Costantino, secondo il suo racconto, credeva in Cristo – in un certo senso –, ma in nessuna delle dottrine essenziali del cristianesimo:
Il credo di Costantino fu negli ultimi tempi corrotto dal fermento dell’arianesimo e della superstizione. Non era basato sui fatti di apostasia e vulnerabilità umana, non fece mai affidamento sulla sola offerta fatta da Cristo per i peccatori, trasmise poche o nessuna idea del cambiamento che può causare solo lo Spirito Santo in ogni persona non rigenerata, distrusse l’intero piano di salvezza, e oscurò le glorie della Trinità.
Bridges non si unisce neanche a coloro che supponevano che almeno dopo il battesimo e sul punto di morte Costantino fosse diventato un vero cristiano. Respinge come «deplorevole credulità» l’idea dell’imperatore per cui «per quanto peccaminosa sia stata la sua condotta, dovuta alla fragilità umana, sarebbe stata efficacemente lavata via dalla mera partecipazione alla sacra ordinanza». Eppure Bridges non ha alcuna personale ostilità contro il suo soggetto: egli addossa la colpa non tanto a Costantino quanto piuttosto allo stato di corruzione della Chiesa a quel tempo, in cui la semplicità e l’umiltà erano completamente perite. Il riluttante elogio di Newman per Gibbon, citato sopra, compare in una recensione del manuale più rilevante della storia della Chiesa primitiva che sia mai stato prodotto da un anglicano: una storia del cristianesimo sino al tempo di Costantino, in tre volumi, scritta da Henry Hart Milman, un ministro anglicano successivamente diventato rettore della cattedrale di St Paul a Londra. Milman affronta apertamente sia l’importanza di Costantino per la comprensione del cristianesimo europeo sia l’opportunità di offrire interpretazioni molto diverse tra loro:
Di tutti i problemi storici, nessuno è stato discusso con preconcetti di opinione, di passione, e di pregiudizio, secondo l’età, la nazione, il credo, dell’autore, che la conversione di Costantino e l’instaurazione del cristianesimo come religione dell’impero. Ipocrisia, calcolo, superstizione, ispirazione divina, sono stati a turno individuati come la sola o predominante influenza che, operando nella mente dell’imperatore, decise tutto quanto il destino religioso dell’Impero.
Il giudizio di Milman fu ragionevolmente quello che le motivazioni di Costantino fossero molteplici:
Il soldato potrebbe aver voluto appellarsi al potere di tutela di una divinità a cui una parte considerevole dei suoi sudditi, e forse del suo esercito, guardavano con fede o con timore. Lo statista [...] potrebbe aver scelto il cristianesimo per avere ovviamente la presa più forte e salda sulle menti del suo popolo. Egli potrebbe aver gradito l’influenza morale del cristianesimo, così come la sua tendenza a imporre la pacifica, se non passiva, obbedienza al governo civile. In un periodo successivo egli potrebbe aver gradualmente adottato come religione quella che aveva comandato la sua ammirazione a causa della sua influenza politica.
Il debito verso Gibbon è evidente e Milman va persino oltre. Dopo aver respinto come non cristiani la visione della croce e il messaggio belligerante «Con questo segno vincerai!», egli prosegue: «L’autorità inattaccabile e indiscussa di questo miracolo durante così tanti secoli mostra come, nell’associazione che ebbe luogo tra il barbarismo e il cristianesimo, il primo mantenne assolutamente la sua predominanza». È sorprendente trovare un autore ecclesiastico che accetti la nota frase di Gibbon su «il trionfo della religione e del barbarismo», anche se esime la sua fede esonerata da questo criticismo. L’apprezzamento di Milman per i conseguimenti di Costantino fu compromesso da una concezione eccessiva della forza del cristianesimo all’inizio del IV secolo. Come molti storici anglicani, prima e dopo di lui, cita in questo contesto l’editto di tolleranza emanato dal pagano Massimino Daia nel 313, con l’asserzione retorica che la persecuzione di Diocleziano fu necessaria per il fatto che «quasi tutti gli uomini avevano abbandonato il culto degli dei e si erano uniti alla nazione dei cristiani». Questa affermazione si riferisce alle province orientali, dove il cristianesimo era più forte che in Occidente. Ma Milman aggiunge che la Gallia (il centro del potere costantiniano sino al 312) non accettò mai pienamente la religione dello Stato romano e perciò fece poca resistenza alla nuova fede; è a questo fatto che lui attribuisce la tolleranza mostrata verso i cristiani in Gallia sia da Costantino, fin dagli inizi del suo regno, sia da suo padre Costanzo.
Quando Milman e altri storici anglicani cominciano a esaminare le leggi e gli editti di Costantino, la sopravvalutazione della forza della Chiesa porta ad alcune perplessità. L’editto di Milano, notano, liberò la fede dalla persecuzione ma la pose, in qualità di religio licita, sullo stesso livello del paganesimo. Le successive leggi di Costantino, i suoi atti pubblici e i caratteri e le iscrizioni sul conio, tutti esprimevano allo stesso modo, come Milman osserva, una continua tolleranza delle tradizioni pagane. La spiegazione comune che viene data oggi è che Costantino, ben conscio che in gran parte i suoi sudditi erano ancora pagani, in particolare nell’esercito e nella classe di governo, dovette necessariamente mostrare rispetto per la loro fede; ciò che colpisce uno storico moderno come Timothy Barnes è quanto lontano si sia spinto nella promozione della Chiesa nonostante ragioni di cautela portassero nella direzione opposta, come mostrano il suo programma di costruzioni, il massiccio finanziamento ad attività cristiane e la confisca delle donazioni ai templi. Ma se, come credevano tutti gli storici che sono stati considerati in questo saggio (anche Gibbon, benché in misura minore), il paganesimo era moribondo e il cristianesimo sul punto di prenderne il posto, la tolleranza del paganesimo da parte di Costantino richiede una spiegazione diversa. Nell’affrontare la questione, Milman esordisce osservando come Costantino vedesse sé stesso al di sopra della Chiesa, estendendo così la tutela a tutti i culti dei suoi sudditi, piuttosto che come membro della Chiesa, obbligato a fare propria la sua intolleranza verso le altre credenze; di conseguenza, egli scrive, «ai cristiani potrebbe sembrare che l’imperatore sia regredito da capo della parte cristiana dei suoi sudditi a comune sovrano del mondo romano». Questo, Milman lo attribuisce nel prosieguo della sua analisi, non soltanto al senso del dovere imperiale di Costantino, ma anche all’«altezzoso, eclettico indifferentismo» di un imperatore la cui mente, persino nei suoi ultimi anni, fu capace di «ricadere in qualche modo nel suo cristianesimo non perfettamente spaganizzato». Due filoni convergono in questa conclusione: l’idea di un convertito incapace di apprezzare il più alto messaggio della fede cristiana (così perfettamente colto dallo stesso Milman) e l’immagine di un monarca illuminato per cui una religione non è più vera di un’altra.
Con l’avanzare del XIX secolo il cristianesimo inglese diventa più consapevole delle differenze di opinione tra le varie denominazioni protestanti e meno tollerante del disaccordo sull’interpretazione del Credo. Il modo in cui Costantino affrontò la controversia ariana iniziò a ricevere attenzioni ostili. Il suo ruolo nel concilio di Nicea fu salvo dal criticismo, considerato che si sa poco al riguardo, e quel poco che si conosce è dominato dal racconto elogiativo degli scritti di Eusebio di Cesarea. Ma la lettera che egli scrisse ad Alessandro vescovo d’Alessandria e ad Ario prima del concilio, deplorando gli acrimoniosi dibattiti su quelle che insistentemente considerava questioni futili, è più discutibile. Si è visto come Foxe l’abbia lodata; Milman è altrettanto elogiativo del «cristianesimo mite e più umano» che essa rivela. Ma la scena comincia allora a essere dominata da ferventi sostenitori dell’ortodossia nicena. Coloro che ritengono che l’arianesimo, con il suo rifiuto della vera divinità di Cristo, fosse in effetti un rifiuto della fede cristiana, sono scandalizzati dalla lettera. Newman è un caso tipico tra i tanti nel considerarla come prova di «totale ignoranza della dottrina». Altri vanno persino oltre e utilizzano la lettera per mettere in dubbio l’autenticità della fede di Costantino. L’opera inglese più influente sull’arianesimo, prima dell’avvento degli studi moderni, è Studies of Arianism dello storico anglicano Henry Melvill Gwatkin. Egli prende le tergiversazioni di Costantino sull’arianesimo come una prova della mancanza di fede in Cristo:
Egli indugiò sulla soglia della Chiesa [...]. Pur con tutto questo interesse per il cristianesimo, non avrebbe mai potuto raggiungere il segreto della sua vita interiore. Potrebbe aver apprezzato l’imponenza del monoteismo; ma sicuramente la Persona del Signore fu qualcosa di marginale. Costantino comprese la sua epoca perché ne condivise le superstizioni pagane e il sentimento di classe pagano; e il cristianesimo per lui era niente di più che un paganesimo monoteista. L’arianesimo perciò emerse come il suo ideale di religione, ed egli non poté scorgerne le mancanze.
La stessa idea riappare in diversi autori successivi. Brooke Foss Westcott, vescovo di Durham (1890-1901), osserva in una lettera pubblicata postuma che i temi che dominavano gli unici discorsi superstiti di Costantino erano «ciò che noi comunemente chiamiamo la dottrina della religione naturale, sull’unità e la provvidenza di Dio, sulla vita futura e la giusta ricompensa degli uomini». Perché (ci si potrebbe chiedere) la visione di Costantino e il messaggio del labaro, entrambi espressione dell’invincibilità del Cristo e della fiducia dell’imperatore nel suo aiuto, furono ignorati? Il motivo è che gli anglicani di questo periodo non possono riconoscere nel Cristo di Costantino, il guerriero divino, il Gesù delle loro miti e ingentilite devozioni.
Alla Chiesa anglicana, Chiesa ufficiale del regno con il monarca nel ruolo di «supremo governatore», è cara la nozione che re e parlamento esercitano autorità sulle materie ecclesiastiche tanto quanto su quelle secolari. Si è visto come questa pretesa sia stata difesa nel primo secolo della Chiesa anglicana sia da Cranmer sia da Hooker. La questione, comunque, rimane discussa, in particolare dopo la divisione del protestantesimo inglese (che seguiva la restaurazione della monarchia nel 1660) tra i sostenitori della Chiesa ufficiale episcopaliana e i free-churchmen, chiamati ‘nonconformisti’ o ‘dissidenti’, ugualmente numerosi. Come i loro fratelli nel continente, i dissidenti hanno un motivo per criticare l’unione, o almeno l’alleanza, tra Chiesa e Stato avviata da Costantino. A questo si accompagna la tentazione di oscurare il carattere, o quantomeno la sincerità religiosa, dello stesso Costantino. Si potrebbe prendere come esempio la breve vita dell’imperatore pubblicata da un ministro congregazionalista, Joseph Fletcher, nel 1852. Egli riduce la conversione dell’imperatore nel 312 a «un mero atto politico – un colpo di prudenza mondana»; al tempo stesso la mancanza di una politica risolutamente cristiana nei suoi atti e nelle sue leggi successive è il pretesto per «rendere dubbio se fu mai un sincero convertito o no». È sull’unione tra Chiesa e Stato che però Fletcher concentra la sua indignazione: la Chiesa ridotta a un mero dipartimento dello Stato, il cui proposito principale era di garantire una popolazione docile, rappresentò la totale corruzione del cristianesimo, che «perse completamente il suo carattere originario» e accettò «dei mali inconcepibilmente peggiori di quelli del paganesimo».
Naturalmente, gli autori anglicani trattano il coinvolgimento di Costantino negli affari ecclesiastici con maggiore simpatia. Un libretto considerevole, pubblicato nel 1815 da un avvocato di Londra e destinato alla distribuzione tra la classe politica, invoca il ruolo attivo di Costantino sullo scisma donatista e l’eresia ariana come prova che «non ci sono tracce di alcuna distinzione esistente tra il capo supremo della Chiesa e il capo supremo dello Stato». Il libro è scritto come risposta alle richieste dei cattolici romani affinché lo Stato rinunci al proprio veto sulla scelta dei vescovi cattolici e dei vicari apostolici.
Milman è ugualmente lieto di riconoscere che con l’avvento di Costantino il potere secolare prende in carico gli affari ecclesiastici: «L’imperatore assunse il controllo degli affari delle comunità cristiane: alla cura della pubblica amministrazione si aggiunse la riconosciuta supremazia sulla Chiesa cristiana».
L’Oxford Movement, guidato da Newman, già reclamava autonomia per la Chiesa, e i membri e i discendenti di questo movimento presto dominarono lo studio dei padri della Chiesa e della Chiesa primitiva.
Newman offre un’interpretazione della relazione tra Costantino e la Chiesa molto diversa da quella di Milman quando scrive che «la sottomissione, da parte di Costantino, del suo potere alla Chiesa fu un modello per tutti i monarchi cristiani successivi». Qui l’imperatore diventa un modello per qualcosa che non è né la subordinazione della Chiesa allo Stato né la separazione dei due: piuttosto, i vescovi governano la Chiesa, mentre lo Stato le garantisce tutti i privilegi, per assicurare il suo ruolo sociale e proteggerla dalla competizione.
Con il procedere del secolo, i fautori dell’‘alta Chiesa’ (gli ‘anglo-cattolici’) trovano sempre meno congeniale la sovranità esercitata da un parlamento dominato dai protestanti sulla Chiesa. Guardando a Costantino, essi oscillano tra sostenere che egli ebbe rispetto dell’autonomia della Chiesa e deplorare la confusione tra i ruoli della Chiesa e dello Stato che la sua conversione aveva introdotto. Brooke Foss Westcott, vescovo di Durham, sostiene fortemente che Costantino assunse la stessa autorità sulla Chiesa cristiana che i suoi predecessori reclamavano sui culti del paganesimo, impartendo direttive ai vescovi e alle congregazioni ed esercitando una giurisdizione superiore a quella dei vescovi. Egli conclude:
L’imperatore fu portato a pretendere nel nome del suo uffizio funzioni per l’esercizio delle quali non aveva alcun diritto [...]. Una confusione fatale dei poteri spirituale e temporale ebbe inevitabilmente luogo nella Chiesa orientale [...], e i peggiori mali del bizantinismo furono inclusi in questo primo grande trionfo del cristianesimo.
A questo punto l’indagine può volgere alle conclusioni. Non perché s’intenda ignorare il contributo degli storici inglesi del XX secolo, ma perché questo non è specificamente connotato in senso anglicano. I due autori inglesi più importanti che hanno scritto di Costantino nella prima metà del secolo sono stati Norman Baynes e Arnold Hugh Martin Jones; il primo non era anglicano e il secondo non era credente. Gli studiosi di Costantino della seconda metà del secolo annoverano, comunque, un numero di ferventi anglicani, tra cui William Hugh Clifford Frend, Stuart G. Hall e Averil Cameron. Ma essi non scrivono specificamente in qualità di anglicani, e sono più legati agli studiosi del continente che alla tradizione storiografica anglicana a cui questo saggio è dedicato. È necessario un riepilogo. Quanto questa tradizione capì le azioni e le intenzioni di Costantino? La tradizione precedente, rappresentata da Foxe, si accontentò di ripetere il modo agiografico di trattare Costantino della Vita scritta da Eusebio. Ma si è visto come la presentazione fatta da Eusebio dell’imperatore, come tenace promotore della fede, sia stata gradualmente scalzata. Lo studio di altre fonti, in particolare le leggi imperiali, rivela un Costantino meno determinato, continuamente pronto al compromesso. La grande sopravvalutazione della forza numerica della Chiesa del suo tempo ha indebolito irrimediabilmente la tesi per cui egli non avrebbe avuto altra scelta che quella di chetare i suoi sudditi pagani; comincia invece a essere opinione condivisa da quasi tutti gli storici che la conversione di Costantino del 312 fosse lungi dall’essere completa, e che sia la sua comprensione delle richieste della fede cristiana sia la sua prontezza ad accettarle si siano sviluppate solo gradualmente, raggiungendo la pienezza (se mai la raggiunsero) solo in punto di morte. A questo è stata presto aggiunta la presunzione (che avrebbe sbalordito Cranmer e Foxe) secondo cui nessuno statista di successo – e Costantino fu notoriamente di successo – è motivato da convinzioni religiose; egli è considerato invece un pragmatista, innamorato non della verità ma dell’utilità, non di principi astratti ma di effetti pratici. Se questo sia stato valutato in senso positivo o negativo dipese dalle convinzioni dei singoli storici. Gibbon ha rispettato Costantino in quanto abile politico, mentre Newman lo ha trovato soltanto un altro esempio dell’empietà del mondo secolare.
Quanto si è dimostrata utile la storia di Costantino per rispondere alla questione fondamentale della vera identità dell’anglicanesimo, sulla corretta relazione tra Chiesa e Stato? Il fatto è che, nonostante i faziosi richiami alla sua memoria, essa ha resistito alla facile strumentalizzazione di ciascuna parte in causa nel dibattito. Quelli che hanno creduto, come i membri e gli eredi dell’Oxford movement, che il clero avrebbe dovuto governare la Chiesa hanno disapprovato il suo tentativo di intervento negli affari ecclesiastici, che andava ben oltre il proposito di rendere efficaci le decisioni episcopali. I devoti erastiani hanno dovuto ammettere che Costantino non trattò i vescovi come se fossero diversi dagli ufficiali statali a sua completa disposizione. Soprattutto, Costantino non è stato un modello facile da imitare per i monarchi inglesi. Questi non avrebbero mai osato pregare davanti alla corte, come Costantino fece, o scrivere lettere aperte esortando i sudditi a adottare la propria fede e a imparare dal suo esempio.
Si possono delineare altri due punti. Gli autori anglicani, come i loro contemporanei del continente, prendono in considerazione Costantino, riconoscono il suo contributo alla storia, e non mettono in discussione il suo diritto al titolo «il grande». Lo giudicano però secondo la loro ristretta nozione di ciò che è il cristianesimo; mancano sia dell’umiltà sia dell’immaginazione per imparare qualcosa dalla sua vita, e per comprendere che, quando si studia il passato, questo giudica tanto quanto è giudicato.
In secondo luogo, si è osservata in tutti gli autori che sono stati trattati una sopravvalutazione della forza della Chiesa e della debolezza del paganesimo nel periodo precedente alla conversione di Costantino. Come risultato, essi non si rendono conto che senza Costantino la fede non sarebbe potuta affatto sopravvivere. Non solo i cristiani nell’Impero erano (come comprende Gibbon) una piccola minoranza, ma la Chiesa era a base cittadina, e le città erano in fase di ritiro e declino, quelle occidentali già nel IV secolo, mentre quelle orientali furono devastate dalle invasioni persiane e arabe del VII secolo. Sarebbe potuta sopravvivere una fede minoritaria, concentrata nelle città? Fu l’adozione della fede da parte di Costantino e dei suoi successori, prima come religione della famiglia imperiale e dei suoi subordinati e poi come religione di Stato, ad assicurarne la sopravvivenza. Degli autori di cui si è discusso, soltanto John Henry Newman si avvicina a comprenderlo. Come scrive nel suo studio sull’arianesimo, «Costantino è il nostro benefattore, poiché noi, che viviamo ora, abbiamo ricevuto il dono del cristianesimo per mezzo dell’accresciuta influenza da lui concessa alla Chiesa».
1 Si veda O.P. Rafferty, Thomas Cranmer and the Royal Supremacy, in Heythrop Journal, 31 (1990), pp. 129-149.
2 Thomas Cranmer, Works, ed. by J.E. Cox, Cambridge 1846, II, p. 116.
3 Ivi, pp. 12-15.
4 Richard Hooker, Of the Laws of Ecclesiastical Polity, in The Folger Library Edition of the Works of Richard Hooker, I-III, Cambridge (MA) 1977-1981. I libri VII-VIII furono pubblicati postumi tra il 1648 e il 1662.
5 Eus., v.C. IV 24, in Eusebius, Werke, ed. F. Winkelmann, I/1, Berlin 1991, p. 128.
6 Richard Hooker, Of the Laws of Ecclesiastical Polity, cit., VIII, Appendice al cap. 6.
7 Ivi, VIII 8.