VISCONTI
. La grande fortuna raggiunta inaspettatamente alla fine del sec. XIII dalla famiglia V., fino allora modesta, fece presto sorgere delle leggende sulla sua origine, create dall'adulazione cortigiana, o promosse dagli stessi signori.
Questo castello di favole prese maggior consistenza, per la vanità dei rami collaterali rimasti a Milano, in quel terreno fertile di genealogie fantastiche che fu l'età spagnola. La leggenda cominciò attorno alla insegna viscontea della vipera che ingoia un rosso saraceno, la quale già da Bonvesin da Riva nel suo De Magnalibus urbis Mediolani (1288) viene fatta derivare da gesta eroiche di un Ottone V., durante una crociata. Essa ebbe largo sviluppo nelle cronache di Galvano Fiamma nella prima metà del sec. XIV: la vipera era il cimiero di un re saraceno ucciso da Ottone davanti alla porta di Gerusalemme; un suo antenato, Eriprando, miles millenarius, avrebbe ucciso in duello il nipote dell'imperatore Corrado II che assediava Milano (1037). La leggenda trecentesca risalì anche più addietro con fini non di sola vanità: nella lotta dei V. con la Chiesa milanese e il papato, si cercò di giustificare le usurpazioni dei beni arcivescovili, di cui era un centro importante la rocca di Angera (a 25 km. da Varese) facendo discendere i V. da una fantastica famiglia dei conti di Angera (discendente da Alione figlio del re Milio!) cui papa Gregorio Magno (nel 606!) avrebbe concesse le corti regie del comitato di Milano, Monza, Treviglio, ecc., e fra esse Angera. Essendo stato uno di questi conti, Galvano, con i suoi parenti, difensori di Milano contro il Barbarossa tradita dall'arcivescovo, o giustiziato o deportato in Germania, i pochi superstiti non si dissero più conti ma visconti: l'occupazione di Angera era quindi una rivendicazione legittima non un'usurpazione. Questa fantasia (che fu ancora sviluppata col far fondare Angleria da Anglo nipote di Enea) non meriterebbe neppure un cenno, se Gian Galeazzo V. non avesse chiesto e ottenuto dall'imperatnre Venceslao (1397) il riconoscimento di questa discendenza insieme con il titolo di conte di Angera e non avesse perciò dato al figlio Filippo il nome di Anglo: la genealogia, con le 43 generazioni dall'eroe Anglo a Galvano, è celebrata nell'orazione ufficiale per i funerali di Gian Galeazzo il 20 ottohre 1402. Due genealogisti del sec. XVII, G. A. Galluzzi e Bianchini cercarono di puntellare queste favole mescolando a documenti veri molte falsificazioni, e ricollegando i V. anche a re Desiderio. Risorti gli studî storici, G. Giulini già nel sec. XVIII rifiutò ogni fede alla leggenda, cercando invece di ricollegarli a un Valderico Visconte dell'863, ma è difficile ammettere che l'ufficio vicecomitale restasse fisso in una famiglia per quasi tre secoli in mezzo a tante catastrofi politiche.
Le origini storiche della famiglia si possono, come ipotesi, far risalire alla fine del sec. X quando l'arcivescovo Landolfo (978-98) costretto dall'avidità delle famiglie dei vassalli, concesse alle più prepotenti i feudi detti "caput plebis" ossia quella parte della decima delle varie pievi che era riservata all'arcivescovado, dando così origine al gruppo dei valvassori maggiori, o "capitanei". Attorno al feudo della decima del "caput plebis" si andò sviluppando un diritto di signoratico sulle terre e sugli abitanti della pieve stessa. Da una sentenza del 1157 risulta che la famiglia dei V. possedeva un terzo della decima della pieve di Marliano (ora Mariano), e, per il confronto con la situazione di altre famiglie di capitanei, è lecito concludere che la famiglia doveva aver ricevuto questo feudo nella distribuzione fatta da Landolfo. Col capitaniato di Marliano la famiglia V. entrava nella "militia sancti Ambrosii", ossia fra i feudatarî dell'arcivescovo. Un poco dopo, in epoca imprecisata, essa dové ottenere l'ufficio di visconte e renderlo ereditario: a questo era connesso il beneficio dei diritti fiscali sui pesi e le misure e la "curadia", tassa di mercato: di questi diritti i Visconti appaiono ancora in possesso nel 1215 e nel 1256, anno in cui li rivendicano di fronte al Comune. All'ufficio di visconte si ricollega l'insegna della biscia, sostituita a quella più antica della famiglia che, secondo una tradizione, sarebbe stata formata di 7 corone d'oro in campo d'argento. Il visconte aveva un posto d'onore accanto all'arcivescovo, e al pari del capitano-gonfaloniere, un vessillo: probabilmente esso riprodusse il serpe della basilica di S. Ambrogio, e non è improbabile che accompagnasse i crociati lombardi in Palestina nella spedizione del 1100, e che in detta occasione vi si aggiungesse il saraceno; questa consuetudine sorta nella milizia arcivescovile, tollerata dal Comune, si dovette estendere anche alla nuova milizia comunale.
Queste furono le probabili origini della famiglia Visconti e della sua posizione nella città al sorgere del Comune; e ad essa forse veramente appartenne quell'Eriprando Visconte del 1037, di cui un'interpolazione posteriore nella cronaca di Landolfo certo inventò l'assurda qualifica di miles millenarius, se non proprio anche il duello eroico. Un Ottone figlio di un Eriprando Visconte è ricordato nel 1065 con un Anselmo Visconte; questi nel 1067 si recò a Roma presso il papa per l'arcivescovo: mentre un Ottone Visconte ci appare nel 1105 avversario dell'arcivescovo Grossolano; egli è certo lo stesso che nel 1111 sacrificò la sua vita per salvare l'imperatore Enrico V dalla furia dei Romani.
Un Guido di Ottone e un Pietro di Eriprando Visconte nel 1123 rinunciavano al vescovo di Cremona, le corti di Fornovo, Bariano e Mozzanica; lo stesso Guido riceveva però nel 1134 dall'abate di S. Gallo l'investitura della corte di Massino (Novara) la quale apparteneva a questo ramo della famiglia ancora nel sec. XV; un altro ramo appare agl'inizî del sec. XIII in possesso della corte di Oleggio e di Invorio (Novara) forse ottenute anch'esse nel secolo antecedente. La famiglia viscontea si era dunque presto divisa in varî rami con feudi lontani da Milano. Il ramo però dal quale venne la dinastia signorile dovette rimanere in città con feudi a essa vicini, a Pogliano, Saronno, Cornaredo, pur conservando i contatti con i rami affini. Il suo primo ascendente noto è Uberto Visconti, di cui sappiamo solo che era morto nel 1248, quando tre suoi figli Azzone, Andreotto e Obizzo alienarono delle terre a Cornaredo. Di questi, Azzone fu canonico alla metropolitana e poi vescovo di Ventimiglia dal 1251 al 1262; Obizzo è console di giustizia a Milano nel 1236, e ricordato fra i capitani e valvassori nel 1258-59. Figlio di Andreott0 o di Obizzo è Tebaldo, che nel 1255 era rettore delle valli Levantina e di Blenio per lo zio Azzone, e fu il padre di Matteo; Ottone l'arcivescovo era prozio di questo e quindi si deve credere fratello di Obizzo e Andreotto e figlio del capostipite Uberto. Queste sono le poche notizie sicure sugli ascendenti dei signori di Milano, le quali ci mostrano una famiglia antica di capitani, ma ridotta a un grado secondario per la dispersione in rami numerosi e lontani.
La sua ascesa fu dovuta a una fortuna toccata a uno dei suoi membri. A Milano fin dal sec. X, pur senza precise concessioni imperiali, l'arcivescovo esercitava il massimo potere, perché disponeva con le famiglie dei suoi capitani e valvassori di una forza effettiva, mentre per mezzo dell'autorità metropolitana assicurava alla città un predominio su tutta la regione. Ora la famiglia V., non preparata all'ascesa da una preminente posizione nella città, arriva alla signoria solo attraverso la dignità arcivescovile ottenuta da Ottone nel 1262, che i della Torre volevano assicurare invece alla loro famiglia perché fosse il necessario complemento della loro autorità, ottenuta quali capi della parte popolare nella lotta contro il partito nobile, ossia contro i capitani e valvassori. Con questi sta l'arcivescovo, seguendoli anche nell'esilio, dato che sono quasi tutti suoi feudatarî e formano la sua base politica. Quando Ottone riesce per il fortunato colpo di mano di Desio (1277) a catturare i capi dei Torriani, e il popolo milanese, stanco della lunga lotta, gli apre le porte e lo riconosce signore, egli cerca di fissare nella sua famiglia la signoria (che è fondata nell'unione del partito nobile con l'autorità arcivescovile come su un saggio governo) facendo eleggere nel 1287 capitano del popolo il pronipote Matteo e lentamente ritraendosi dal governo. Ma la base non era ancora salda e non bastò, contro l'ostilità delle città lombarde che favorivano i Torriani, la legittimazione del vicariato imperiale concess0 dall'imperatore Adolfo a Matteo nel 1294; dal 1302 al 1310 egli con i suoi resta in esilio, e può solo rientrare e riprendere il potere e poi il Vicariato alla venuta dell'imperatore Enrico VII. Ma alla morte di questo si scatena contro Matteo la reazione guelfa e papale che lo induce dopo anni di lotta a cedere il potere al figlio Galeazzo, pochi mesi prima di morire nel 1322. Matteo ebbe un solo fratello, Uberto, podestà a Vercelli e Como fra il 1290 e il 1295, da cui vennero altri rami cadetti. Delle sue varie figlie Caterina fu sposata ad Alboino della Scala (1298) per assicurarsi l'alleanza di questa famiglia; dei numerosi maschi, Galeazzo I gli successe nel potere e nella dura lotta con i guelfi e il papa, finché venne spodestato e carcerato da Lodovico il Bavaro (1327) e l'anno dopo liberato morì; Marco condottiero valoroso, ma irrequieto e geloso dei fratelli, morì ucciso nel 1329; Luchino e Giovanni tennero la signoria dal 1339 al 1354 dopo la morte di Azzone figlio di Galeazzo I che l'aveva ricuperata nel 1329.
La continuazione della dinastia signorile non venne da questi varî figli di Matteo, perché Marco non pare fosse sposato, Giovanni, arcivescovo, non ebbe che un naturale Leonardo, Galeazzo aveva avuto da Beatrice d'Este solo Azzone (che lasciò solo una figlia naturale) e Riccarda sposata a Tommaso marchese di Saluzzo; e i figli di Luchino, naturali come Bruzio e Borso, o legittimi come Luchino Novello, dovettero andare in esilio. Da Stefano, il più oscuro dei figli di Matteo, morto nel 1327 forse violentemente, sposato nel 1318 con Valentina Doria, nacquero i tre figli Matteo Il Galeazzo II e Bernabò che dovevano continuare la dinastia. Di Matteo II (morto nel 1355) non rimasero che due femmine; Galeazzo II (morto a Pavia nel 1378) da Bianca di Savoia ebbe un solo maschio, il celebre Gian Galeazzo e tre femmine di cui l'ultima Violante (morta nel 1386) sposò, in prime nozze, nel 1368, Lionello, figlio di re Edoardo III d'Inghilterra, che morì dopo tre mesi, in seconde nozze, il marchese di Monferrato, ucciso nel 1378, e finalmente un figlio di Bernabò Visconti, che morì carcerato a Trezzo. Bernabò ebbe da Regina della Scala ben 17 figli fra cui 11 femmine, delle quali tre sposate ai duchi di Baviera, una a Leopoldo d'Austria, una al margravio di Turingia e una a Pietro Lusignano re di Cipro; Agnese sposata a Francesco Gonzaga signore di Mantova finì decapitata nel 1391 per adulterio; Caterina sposata al cugino Gian Galeazzo, sopravvisse al marito e fu reggente per il figlio Giovanni Maria. Di figlie naturali, Bernabò ne ebbe almeno 11, e due di queste, Donnina e Elisabetta, egli sposò ai due condottieri Giovanni Acuto e Corrado Lando. Dei 5 maschi legittimi alcuni finirono prigioni, altri cercarono invano di suscitare nemici allo zio usurpatore, ma finirono miseramente in esilio. Da Ettore, uno dei molti naturali, morto nella difesa di Monza ribellata contro Filippo Maria nel 1413, discese una linea estintasi nel sec. XVIII in donne o religiosi, e un'altra da Sagromoro. La dinastia signorile continuò con Gian Galeazzo successo al padre Galeazzo II nel 1378, divenuto unico signore dello stato nel 1385 con la cattura dello zio Bernabò e creato nel 1395 duca di Milano dall'imperatore Venceslao. Dei figli avuti dalla prima moglie Isabella, figlia di Giovanni II re di Francia, sopravvisse solo Valentina, sposata a Luigi d'Orleans; dalla seconda, Caterina, figlia di Bernabò, ebbe Giovanni Maria. Successo al padre nel 1402 sotto la tutela della madre fino al 1407, dominato dalla prepotenza dei suoi condottieri e specie di Facino Cane, odiato per le sue crudeltà fu ucciso il 16 maggio 1412 e non lasciò eredi. Gli successe il fratello Filippo Maria (14I2-1447) che ricostituì lo stato e tentò invano in continue lotte con Firenze e Venezia di ristabilire l'antica supremazia sull'Italia settentrionale e centrale: dalle due mogli, Beatrice di Tenda (vedova di Facino Cane e fatta giustiziare nel 1418 come rea d'adulterio) e Maria di Savoia figlia di Amedeo VIII, sposata nel 1428, non ebbe figli; due figlie naturali gli nacquero da Agnese del Maino; la prima morta fanciulla, la seconda, Bianca Maria, sposata nel 1441, a Cremona, a Francesco Sforza; essa diede una qualche base alle ambizioni di questo grande condottiero, che abilmente usando le armi e più l'arte politica e assicuratosi l'appoggio di Firenze contro Venezia, poté farsi riconoscere duca dai Milanesi nel 1450, e nel 1454 dai varî stati italiani nella pace di Lodi.
Contro i diritti della duchessa Bianca Maria, essendo ridotti a condizione insignificante i discendenti, anche legittimi, di Bernabò, non poteva vantare vere pretese per allora inefficaci che il figlio di Valentina Visconti, Carlo d'Orléans; solo quando il figlio di Carlo diverrà re di Francia (Luigi XII) queste pretese diverranno formidabili e orienteranno verso Milano la tendenza all'espansione della Francia. Bianca Maria, l'ultima duchessa Visconti, era donna colta e si dovette a lei, se umanisti celebri, quali Francesco Filelfo e Costantino Lascaris ebbero parte nell'educazione dei suoi figli. Era donna energica e alla morte del marito, nel 1466, tenne con fermezza il governo fino al ritorno dalla Francia del primogenito Galeazzo Maria: venuta poi in dissenso col figlio, si ritirò a Cremona che le apparteneva, ma morì quasi subito a Melegnano il 26 ottobre 1468 a 46 anni: al solito si parlò di veleno, ma nulla giustifica tali sospetti.
Finisce così con Filippo Maria e Bianca Maria la linea regnante di questa famiglia che mostrò speciali attitudini politiche nell'abilità e fermezza usate nel piegare lentamente le resistenze interne alla signoria, nella costruzione di una solida amministrazione dello stato, nella cura della giustizia. Ma oltre a questa preoccupazione di bene organizzare il proprio dominio, i V. si immedesimarono perfettamente con l'antica aspirazione di Milano di esercitare una supremazia su larga parte d'Italia, come suggerivano le tradizioni imperiali ed ecclesiastiche e più la mirabile posizione geografica e la vitalità economica per le quali la città sentiva di essere come il cuore della vita italiana, il suo centro strategico. E questo infatti apparve chiaro nell'età della conquista straniera, perché chi teneva Milano, dominava l'Italia. I V. facendo loro questa tendenza milanese all'espansione divennero, dalla metà del '300, con l'acquisto di Bologna e Genova, il centro della vita politica italiana, che per circa un secolo (salvo i 20 anni dopo la morte di G. Galeazzo) fu soprattutto un succedersi di leghe antiviscontee per frenare questa espansione, che in qualche momento parve preludere a una specie di unità nazionale. Questa resistenza italiana divenne vittoriosa solo quando nel '400 vi si unì Venezia, che inchiodò sull'Adda le ambizioni viscontee e milanesi.
Estinto questo ramo altri continuarono più modestamente il nome dei V. e furono i seguenti: da Gaspero, fratello di Ottone arcivescovo, discese una linea che si estinse nel 1722, ed ebbe dagli Sforza i feudi di Besnate e Crenna. Ad essa appartenne Lodrisio, nipote di Gaspero, che insidiò più volte la signoria dei cugini: nel 1322 allontanò Galeazzo I da Milano accordandosi con i guelfi; nel 1327 contribuì a farlo deporre e arrestare dall'imperatore Ludovico e nel 1339, messa insieme la Compagnia di S. Giorgio, invase il Milanese ma fu vinto e catturato a Parabiago. Liberato nel 1349 da Giovanni, morì nel 1364. Da un fratello di Lodrisio, Gaspero, discese Gaspero Visconti, successore di S. Carlo nell'arcivescovato di Milano (1585-95). Da Uberto fratello di Matteo I discese un'altra linea che servì i V. e gli Sforza e poi gli Spagnoli nelle armi e nelle magistrature: ad essa apparteneva quella Margherita, moglie di Francesco Pusterla, fatta giustiziare da Luchino Visconti: un ramo di tale linea finì a Milano nel 1794, un altro stabilitosi a Bari, al seguito di Isabella d'Aragona vedova di Gian Galeazzo Sforza (morto nel 1494), vi si estinse nel 1694. Appartiene a questa linea la famiglia dei V., marchesi, poi duchi, di Modrone, ancora esistente a Milano.
Bibl.: Si vedano le storie generali di Milano del Giulini, Verri, Rosmini, Cusani, Galli, Visconti (1937). Muir, A History of Milan under the Visconti, Londra 1924. Sulla famiglia: P. Litta, Famiglie celebri italiane, Milano 1825-1828, fasc. 9°; Calvi, Il patriziato milanese, Milano 1875. Nel Litta sono indicate le fonti ed opere antiche sui V., molte delle quali sono piene di errori e di falsi. Sulle origini, G. Biscaro, I maggiori dei V. signori di Milano, studio completato e riveduto in Ancora dei maggiori dei V., signori di Milano, in Archivio storico lombardo, XXXI (1911), e XXXIV (1912). Per studî minori si vedano i varî volumi di indici dell'Archivio storico lombardo e E. Galli, Sulle origini araldiche della biscia viscontea, ibid., 1919, fasc. 3°.