VISCONTI DI OLEGGIO (Visconti da Oleggio), Giovanni
Nacque molto probabilmente nel 1304 da Filippo Visconti di Oleggio Castello e da madre ignota. Il padre apparteneva a un ramo minore della progenie dell’arcivescovo Ottone; i due erano comproprietari di Oleggio, castrum parvissimi valoris (così Azarii, 1926-1939, p. 56) posto sulla sponda occidentale del Ticino, tra Arona e Gozzano.
Dopo la morte del padre (in uno scontro col guelfo novarese Manfredo detto Bota da Gattico, che incendiò e distrusse il castello: ibid., p. 56) il di Oleggio fu accolto come domicello tra i familiares di Giovanni Visconti, al quale rimase costantemente grato e fedele. E grazie ai buoni rapporti instaurati dal presule con il pontefice Giovanni XXII, il giovane Visconti di Oleggio ottenne diversi benefici ecclesiastici in Lombardia.
Il 26 marzo 1331 egli compare in ultima posizione tra i canonici ordinari della cattedrale milanese. Un anno più tardi, nel dicembre 1332, una lettera di Giovanni XXII gli assicurò il godimento degli introiti della prepositura di Pontirolo, appartenuta sino a quella data allo stesso vescovo Giovanni Visconti. L’Azario ricorda inoltre che in giovane età, probabilmente nello stesso 1332, egli ottenne la carica di cimiliarca della Chiesa milanese, che conservò sino all’età di trentadue anni.
Ma contemporaneamente il di Oleggio svolse un ruolo di primo piano in occasione della conquista viscontea di Novara. Giovanni Visconti (vescovo della città dal 1° agosto 1331) ve lo aveva inviato nell’autunno del 1331, per avviare il processo di riorganizzazione anche finanziaria della Chiesa novarese, divenuta sede vacante per la morte del vescovo Uguccione, e ancor prima di esser riuscito a cacciare i Tornielli, vicari imperiali (giugno 1332). Quando Giovanni Visconti rientrò in Milano, la città fu affidata al di Oleggio. Nel 1334-35 operò sul territorio dell’Ossola e dell’Isola d’Orta con il titolo di vicarius generalis, ma nel novembre 1335 non compare più con la qualifica di vicarius episcopale, e risulta nella documentazione degli anni successivi con vari titoli (dominus generalis, podestà, 1° ottobre 1336, e poi 1337). In quest’anno avviò la riforma degli statuti, cui provvide poi il successore, il comasco Pagano Avogadro nel 1338.
In quegli stessi anni sposò Antonia Benzoni, figlia di Sozzino, di autorevole famiglia cremasca di tradizione guelfa.
L’espressione usata dal cronista Pietro Azario per indicare questo matrimonio (ipsum uxoravit) è espressiva della totale dipendenza del di Oleggio da Giovanni Visconti. Il matrimonio non fu senza conseguenze per i Benzoni, poi perseguitati da Bernabò Visconti.
La carriera di Visconti di Oleggio proseguì nei primi mesi del 1339 con la podesteria di Cremona, ove pure attuò una revisione degli statuti comunali. Ma già nel maggio dello stesso anno era podestà a Brescia, donde condusse una trattativa con Guido Gonzaga, signore di Mantova, che aveva imprigionato l’abate del monastero di S. Pietro in Monte a Serle in Valsabbia (accusato di tramare per la cessione del cenobio a Mastino II della Scala, signore di Verona).
Di Oleggio stava dunque acquisendo professionalità ed esperienza di governo, da vero grand commis d’état dei Visconti: nel 1340 su richiesta di Luchino trattò con successo la cessione di Asti, ottenendone il controllo (dai Monferrato) e divenendone podestà. E l’anno successivo (estate 1341) dimostrò buone doti anche in campo militare, al comando di un reparto di cavalieri che combatté in Toscana, in appoggio ai Pisani, contro Firenze e Verona scaligera (2 ottobre 1341). Per qualche anno non si hanno notizie su di lui, ma dal 1345 alla fine del 1347 tornò come podestà a Brescia, per conto di Giovanni Visconti ormai arcivescovo di Milano. Tra i suoi provvedimenti di quegli anni, si può segnalare la conferma della carta di franchigia e delle esenzioni fiscali del comune di Monticelli d’Oglio (sentenza del 13 giugno 1346).
Seguì un triennio (1348-51) come collateralis (termine che nel lessico politico trecentesco indica chi affianca, in stretta contiguità, il signore) e come vicario nei domini viscontei piemontesi (in particolare ad Asti il 24 gennaio 1351). Lo aveva designato a queste cariche Luchino, poi scomparso nel 1349.
Giovanni Visconti di Oleggio passò poi a Bologna il 14 aprile 1351, nelle vesti dapprima di capitano del popolo, e poi di capitaneus et locumtenens generalis della città. In questa seconda carica successe a Bernabò Visconti, nipote dell’arcivescovo Giovanni, che l’anno precedente aveva acquistato la città dai Pepoli, proclamandosi subito dominus generalis e istituendo per il controllo politico e militare di città e distretto (oltre al vicarius domini generalis, che presiedeva il consiglio degli Anziani) la nuova carica, posta al di sopra delle magistrature comunali, e affidata dapprima a Galeazzo e poi appunto a Bernabò Visconti. Il di Oleggio sedò innanzitutto alcune rivolte in città; successivamente (luglio 1351), lasciando come suo vicario in Bologna il marchese Uberto Pallavicino svolse poi alcune spedizioni militari in Toscana (Peretola presso Firenze, Scarperia nel Mugello – invano assediata). I pesanti oneri finanziari della spedizione ricaddero ovviamente sulla città e sul territorio di Bologna, ridotti alla fame secondo il racconto di Azario (Azarii, 1926-1939, pp. 54 s.).
Nei mesi successivi (novembre 1351-maggio 1352) il di Oleggio ebbe un ruolo formale nelle modifiche costituzionali richieste da Giovanni Visconti: ordinò al vicario generale di convocare il consiglio degli Anziani per revocare il consiglio dei Quattromila in carica (ovvero il consiglio generale del comune di Bologna, per quanto raramente convocato, solo per la acclamazione dei nuovi signori) ed eleggerne uno nuovo.
I nuovi consiglieri persero il diritto di accesso alle cariche pubbliche più remunerate, che l’arcivescovo riservò ai suoi fedeli e più stretti collaboratori, di provenienza milanese, e la decisione aumentò inevitabilmente la tensione antiviscontea in città.
Della riforma statutaria, che già aveva sollecitato nelle altre città da lui governate, il luogotenente Visconti di Oleggio si occupò invece in prima persona (1352) designando con il podestà e con il vicario generale una commissione di cinque esperti di diritto, tra cui Pietro Lambertini, molto legato ai milanesi. Il nuovo testo, ovviamente favorevole alla signoria viscontea, fu approvato dall’arcivescovo il 7 settembre, ed entrò in vigore a fine ottobre; peraltro, lo stesso Giovanni Visconti per primo lo disattese, in specie per la durata delle cariche pubbliche e per il sindacato per gli ufficiali del Comune a fine mandato.
Negli anni successivi, Visconti di Oleggio continuò a imporre con durezza gli oneri fiscali per il mantenimento dell’esercito visconteo, sinché nel giugno 1354 al malcontento fiscale si aggiunse l’insofferenza per un ordine di mobilitazione ai cives di due porte della città, per conquistare Modena. Due importanti famiglie aristocratiche (i Bentivoglio e i Garisendi) si posero a capo del movimento di opposizione; il luogotenente inviò i suoi armati, e lo scontro causò numerose vittime. Nel frattempo la guerra contro Modena non ebbe successo, e pertanto nell’agosto l’esercito visconteo rientrò in città.
Sopravvenne in quei mesi la morte di Giovanni Visconti, e Bologna – accerchiata dalle truppe di una lega antiviscontea formata da Venezia, dai Gonzaga di Mantova, gli Este di Ferrara e da Cangrande II della Scala – si trovò in una condizione critica, che sfociò (11 ottobre 1354) in una delibera del consiglio degli Anziani, pilotata dal Lambertini, di accettare Matteo II Visconti, nipote dell’arcivescovo, come signore. Per il di Oleggio la situazione divenne difficile: Matteo II era infatti animato da forte risentimento contro di lui, e nella trattativa coi rappresentanti del comune per la definizione delle relazioni con la città (in materia di fisco, di credito, di Università, ecc.) impose che il luogotenente generale Giovanni Visconti di Oleggio mettesse per iscritto i nomi di tutti i prigionieri, con la causa dell’incarcerazione. Gli affiancò inoltre Galeazzo Pio in veste di capitano, con l’obiettivo di sostituirlo, e inviò un giudice perché inquisisse (sulla base di denunce segrete) riguardo alle malefatte dei funzionari del di Oleggio.
Ma egli seppe abilmente approfittare della situazione che si venne a creare. Quando il Visconti impose una tassazione straordinaria (pur rateizzata) di 8000 lire di bolognini, in un periodo di grave carestia (L. Sighinolfi, 1905, pp. 343 s.), e per giunta si verificò uno scandalo amministrativo per il mancato sindacato del podestà Ottorino Burri (1353-febbraio 1355; designato ancora da Giovanni Visconti), il di Oleggio si alleò con la fazione dei Maltraversi, contraria ai signori di Milano, e conquistò il 17 aprile 1355 il potere in Bologna senza spargimento di sangue, grazie a una conoscenza approfondita dei punti nodali della difesa della città.
Auto-nominatosi signore della città e del territorio che aveva sino ad allora governato come luogotenente, il di Oleggio iniziò a combattere contro i Visconti, per un quinquennio che fu forse il più difficile della storia di Bologna in tutto il secolo (Braidi, 2002, p. XXV). Furono anni di terrore, causato dalle costanti incursioni degli eserciti viscontei guidati da Bernabò, che sconvolsero l’intero territorio. Sul versante interno, poi, il di Oleggio si contrappose ai Pepoli, accusati di complotto, e costretti a trasferirsi a Milano; ma nel contempo dovette inoltre sventare e reprimere alcune congiure nobiliari.
Ovviamente il giudizio sulla signoria del di Oleggio da parte dei cronisti bolognesi e dello stesso Azario, che apertamente lo accusò di tirannia e di crudeltà, è totalmente negativo, e sottolinea l’odio della popolazione nei suoi confronti. Nei fatti, se si osserva attentamente il comportamento di governo del di Oleggio, appare possibile moderare il giudizio.
Nei primi mesi, dopo aver nominato tre suoi fedeli ufficiali alle cariche di podestà, tesoriere e presidente del Consiglio degli Anziani, egli concesse una amnistia generale nei confronti dei prigionieri del Comune, e dimezzò il dazio della macina, che peraltro due mesi dopo dovette ripristinare per le ingenti necessità di guerra. Inoltre propose che la sorveglianza dei castelli del territorio bolognese fosse affidata a dei cittadini, nominati dal Consiglio dei Quattromila. Furono provvedimenti in fondo necessari, al fine di evitare qualsiasi rottura politica interna, ed erano abilmente giocati sul desiderio di autogoverno dei Bolognesi. Inoltre, quando alla metà del 1355 si seppe che Bernabò Visconti stava marciando su Bologna, si provvide subito all’acquisto del sale e a fortificare meglio la città, che nel corso delle guerre ebbe gravi danni alle sue fortificazioni e al sistema dei canali e delle chiuse per derivare acqua dal Reno e dal Savena, indispensabile alla vita quotidiana.
Inoltre un risultato importante, anche se non servì a lenire le difficoltà in cui si dibattevano i cittadini, fu la pubblicazione degli statuti del Comune di Bologna, la cui redazione avvenne tra il novembre 1357, su ordine del Consiglio dei Quattrocento, e il 1358, quando lo stesso Consiglio ne decretò la pubblicazione con una riformagione del 14 settembre. Il testo, per quanto riguarda gli organi del governo, ricalca quasi completamente i precedenti Statuti del 1352 di Giovanni Visconti, anche perché ben sei statutari parteciparono alle due stesure. Per tutto il resto le rubriche presentano ben poche variazioni, come appare dallo studio di Valeria Braidi, che ne ha curato la pubblicazione nel 2002 in sinossi.
In rapporto alla politica estera, va notato che già a partire dal 1355 Giovanni Visconti di Oleggio aveva avvicinato un celebre maestro di diritto, Nicola Spinelli da Giovinazzo, del quale aveva incrementato lo stipendio, passandolo da 300 a 500 fiorini annui, e inviandolo poi come suo nunzio presso il cardinale Egidio Albornoz. Lo Spinelli inaugurò con questa ambasceria la sua importante attività diplomatica, e nel 1357 fu mandato ad Avignone per aprire le trattative con il papato, con il pretesto di chiedere la revoca dell’interdetto su Bologna, lanciato per i tumulti organizzati dai Bolognesi contro il cardinal Bertrando del Poggetto ventitrè anni prima.
Probabilmente tra il 1357 ed il 1358 il dominus di Bologna attribuì la carica di vicarius generalis al giovane giurista Giovanni di Minuccio, o di Siena, e nella primavera 1358 lo inviò come rappresentante di Bologna alle trattative di pace organizzate dal legato pontificio Androino de la Roche tra la lega antiviscontea (di cui Bologna faceva parte) e Bernabò Visconti (che egli aveva sconfitto a Piumazzo il 12 luglio 1357; un successo peraltro non decisivo). A fianco del vicario generale agiva anche Nicola Spinelli.
I due giuristi, con ogni probabilità già tra 1358 ed il 1359, suggerirono a di Oleggio di trattare con la Chiesa la cessione di Bologna, piuttosto che resistere a Bernabò, ed essere poi costretto a consegnarla comunque, alla fine, ai Visconti, con il pericolo di essere ucciso.
Azario riporta il discorso tenuto da Giovanni di Minuccio al dominus, che alla fine del 1358 aveva dopo lunghe trattative ottenuto da Avignone il vicariato pontificio su Bologna, per convincerlo a cedere all’Albornoz la città (Azarii, 1926-1939, p. 138), che era già stata di proprietà della stessa Chiesa. Egli avrebbe avuto dal cardinale una indubbia ricompensa.
Giovanni Visconti di Oleggio nei primi mesi del 1360 si convinse, e inviò i due giuristi a trattare con Egidio Albornoz; l’accordo ben presto fu raggiunto. Il di Oleggio cedette al pontefice Bologna e il suo territorio, e ricevette dalla Chiesa il vicariato perpetuo sulla città di Fermo e sulla sua contea, a cui si aggiunsero i versamenti di 12.000 fiorini all’anno sino alla sua morte. Non solo, al di Oleggio sarebbe spettato anche il rettorato della Marca. Inoltre egli avrebbe ricevuto 80.000 ducati per saldare le paghe dei suoi soldati, e il Comune di Bologna gli avrebbe consegnato tutti i crediti a lui dovuti e non ancora riscossi. L’assoluzione dalla scomunica riguardava non solo la sua persona, ma anche quella dei suoi famigliari. L’Albornoz alla fine si impegnava a proteggerlo contro le vendette dei Visconti, e garantiva ai suoi nipoti e parenti terre e cariche ufficiali nel dominio della Chiesa (Sighinolfi, 1905, pp. 306-311).
Il 1° aprile il di Oleggio abbandonò Bologna, e raggiunse Fermo. Nella città marchigiana non si limitò a svolgere le semplici funzioni di vicario, ma dette vita ad un ampio programma di sviluppo edilizio, con restauri e nuove fortificazioni murarie per la difesa.
Nell’area del Girfalco, la possente struttura difensiva sull’alto del colle, egli realizzò un’opera che fu definita come inespugnabile. Inoltre, inserì entro le mura di Fermo il borgo di Santa Caterina e ristrutturò il porto, utilizzando investimenti provenienti dai banchieri fermani.
L’8 febbraio del 1364 egli fece testamento (De Minicis, 1870, p. 120), e ordinò di essere sepolto nella chiesa maggiore di S. Maria in Castello. Erede universale fu la moglie Antonia, che, dopo la sua morte, avvenuta l’8 ottobre 1366, fece erigere il celebre monumento funerario, un sepolcro funebre a pulpito, splendida opera firmata da Tura da Imola. Oggi è possibile ammirarlo nell’atrio della cattedrale, ove fu posto verso la fine del Settecento per i lavori di ristrutturazione della stessa.
Nel fornire le caratteristiche fisiche e intellettuali del giovane Visconti di Oleggio, Azario sottolinea che egli non era solo grandis corpore et formosus, ma anche probus et astutus, qualità che risultavano essenziali soprattutto per un uomo politico (Azarii, 1926-1939, p. 45). In effetti il di Oleggio fu un ‘uomo politico’ a tutto tondo, provvisto di doti non comuni, sia sul piano amministrativo, che militare e diplomatico, capacità che egli seppe affinare nel corso del tempo. È possibile infatti affermare che di Oleggio riuscì abilmente, anche tramite accordi spregiudicati con gli avversari, ad emanciparsi dalla iniziale ‘soggezione’ ai Visconti, mostrandosi in grado di ‘costruirsi’ un potere personale, che ebbe breve durata. Perduta di fatto tale posizione di rilievo, per sfuggire alle difficoltà economiche e alle avversità politiche, nell’ultima fase della sua vita, trovò tuttavia un favorevole accordo con la Chiesa, che gli assicurò un ulteriore significativo incarico di governo, pur in posizione subordinata.
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