CICALA, Visconte
Nacque a Genova nel 1504, primogenito di Carlo, forse. a sua volta, figlio di quel "Vesconte Cigala", anch'egli "domini Caroli", presente, in qualità di testimone, alla redazione di un testamento a Chio nel 1456 (cfr. The occupation of Chios by the Genoese ..., a cura di P.P. Argenti, Cambridge 1958, p. 769), il quale, poi, non è da escludere coincida, con quel Visconte Cicala che, con Domenico Centuriatore, assume, nel 1478, la conduzione delle miniere d'allume a Tolfa (cfr. I. Delumeau, L'alun de Rome..., Paris 1962, pp. 89, 95, 294).
Certo la famiglia dei C. appartienealla nobiltà genovese e gode d'un assodato prestigio politico ed economico: vari, infatti, nel corso dei secoli XII-XV, i Cicala consoli ambasciatori o ammiragli e parecchi quelli che figurano tra i "mercatores" gli armatori e i capitani di navi e tra gli interessati a cospicui contratti assicurativi. Mentre i fratelli preferiranno la carriera ecclesiastica - brillantissima per Giambattista, che diverrà cardinale, e tardiva e subordinata a quella di Giambattista nel caso di Nicolò cui, una volta morta la moglie, il fratello cardinale cede, il 13 sett. 1560, il vescovato di Mariano in Corsica (trattenendosi comunque metà dei frutti, il conferimento dei benefici e il regresso) -, il C. opta per i rischi del mare.
Giovanissimo milita agli ordini d'Andrea Doria combattendo, quindi, dapprima pei Francesi - e il Foglietta ricorda un suo fortunoso salvataggio a nuoto in occasione d'uno scontro per loro sfortunato - dopo, in seguito al voltafaccia del Doria, per la Spagna. Presente all'impresa di Barberia del 1530, cattura una nave carica di mercanzia; con due galee sottoposte al suo diretto comando partecipa poi alla spedizione su Tunisi del giugno-luglio 1535 e, seguito Carlo V in Sicilia, si stabilisce a Messina fissando in questa, scalo terminale ed intermedio di tante rotte, la base definitiva delle sue operazioni, di fatto piratesche, ma tuttavia legittimate dall'essere condotte a danno di imbarcazioni turche e barbaresche. Sorta di imprenditore in proprio, il C. offre a pagamento, inoltre, i suoi servigi all'Impero.
Lettere del viceré di Sicilia Ferrante Gonzaga precisano che, delle quattro navi pagate dal governo, due sono del C.; e il 30 genn. 1538 informa che queste fanno parte della piccola flotta di dieci galee inviata al sovrano di Tunisi Muley Hassan per aiutarlo a ricondurre all'obbedienza i ribelli. Si sa, altresì, che, per questo, il C. ricevette un acconto di 2.000 scudi d'oro. Il viceré, comunque, si lamenta delle eccessive pretese del C.: "domanda due cose impertinenti", cioè di "portare la sua bandiera come capitano delle sue galee" e d'"esser sottoposto soltanto al generale dell'armata di mare. Vuole, inoltre, che, uscendo in servizio dell'imperatore, la corte gli dia, a spese dell'imperatore, cinquanta archibugieri per galea, oltre al suo soldo ordinario". E si teme "cerchi un pretesto per lasciare il servizio cesareo". Ma il contrasto fu in qualche modo risolto, ché il C. partecipa alla presa, del 27 ott. 1538, di Castelnuovo, alle bocche di Cattaro; occasione nella quale non solo arraffa un cospicuo bottino, ma cattura pure la figlia d'un bey che poi, sedotto dalla sua eccezionale avvenenza e fattala battezzare col nome di Lucrezia, vorrà sposare.
Uomo dal carattere spigoloso, facile all'ira, ostinato nei risentimenti si mette in urto con Antonio Doria, dalla cui galea partono un paio di archibugiate che lo feriscono al collo. Il dissidio preoccupa Carlo V che sta organizzando la spedizione contro Barbarossa per la quale esige l'apporto d'entrambi, cui impone una specie di tregua annua. Ferrante Gonzaga che, con Andrea Doria (cugino di Antonio) s'è adoperato per la composizione, può assicurare, il 23 giugno 1540, che il C. "è qui", in Sicilia, "e obedisce". Temporaneamente firenata la reciproca violentissima avversione, entrambi pertanto partecipano alla conquista di Sfax.
Rientrato il C. a Messina, alla fine del 1540 vi scoppia una zuffa tra lui con i suoi uomini e alcuni cavalieri gerosolimitani con cui aveva attaccato briga sulle acque di Beit, presso l'isola delle Cherchene, per la spartizione del carico d'un grippo turco catturato; un cavaliere rimane gravemente ferito e un nipote dei C. cade ucciso. Ci vorrà l'occasione d'un riparo di fortuna a Malta, ove il C. fu accolto e alloggiato con onore e la sua nave venne riparata, a far sbollire il suo odio nei confronti dell'Ordine, a ciò indotto anche dal fratello cardinale che a quella "religione" aveva accordato la sua "protettione".
Coinvolto nell'avventata e sfortunata spedizione su Algeri del settembre 1541, e quindi nella caccia ai disertori, il C. - come scrive il viceré il 20 giugno 1542 - vanta un credito di 8.000 ducati minacciando, in caso di mancato pagamento, l'abbandono del servizio. Minaccia ricorrente, ma anche destinata a rientrare. Tant'è vero che l'ambasciatore veneto Alvise Mocenigo, nella sua relazione del 1548, annovera tra le dieci galee, "tutte armate di sforciati" del costo di "scudi 500 per una al mese", le "doi del capitan Cicalla". Queste, nel 1548, fanno parte della flotta che accompagna Filippo, il futuro re, in Italia e di quella che, nel 1550, tenta, agli ordini d'Andrea Doria, l'impresa contro Dragut. E, col tempo, sembra incontri soddisfazione la richiesta, avanzata ancora nel 1538, d'imbarcare archibugieri spagnoli (ché, nel 1558, il suo "galeon" reca una "compagnia" di trentanove fanti), e così pure quella di relativa autonomia nei confronti dei viceré, sì che mantiene una propria bandiera ed è tenuto a rispettare solo gli ordini del comandante generale della flotta imperiale.
Si fa nel contempo sempre. più sistematica la sua personale guerra di corsa contro galere barbaresche e caramussali turchi, con colpi di mano rapinosi, razzie sulle coste. Non sempre la fortuna l'assiste ché pare abbia perso almeno due galee o perché catturate o perché naufragate e, inoltre, attorno al 1550, il suo galeone - nel quale, comunque, né egli né il suo aiutante Bernardo Lomellini sono, imbarcati - rientrante a Messina, al solito stipato di mercanzie trafugate e di infedeli in catene, viene assalito da Dragut e condotto a Gerba. In compenso amplia il suo giro d'affari, disloca in altri campi i frutti dei suoi lucrosi bottini e del redditizio commercio degli schiavi.
Sorta di commerciante all'ingrosso, ha un gran magazzino presso il porto di Messina e risulta proprietario d'una banca di cui affida la gestione a Pietro Lomellini - della stessa famiglia quindi di quel Bernardo che lo coadiuvava in mare -, il quale figura tra i membri della nobiltà messinese e i fondatori della Compagnia degli Azzurri.
Il lignaggio dei collaboratori, il fratello cardinale, i compiti di polizia marittima, il proclamato odio per gli infedeli, il prestigioso inserimento in veste di mercante e finanziere nell'intraprendente colonia genovese a Messina largamente lucrante del traffico di grano seta spezie, sono tutti fattori che concorrono ad aureolare l'attività dei C. di rispettabilità sancita dal titolo di cavaliere di S. Giacomo della Spada. Tanto più che, col passar degli anni, il corsaro si trasforma in armatore delegando ad altri la guida diretta delle operazioni propriamente piratesche, riassumendola solo quando queste rientrano in azioni promosse dal governo.
È il caso dell'impresa, voluta da Filippo II, per sbaragliare Dragut e occupare Tripoli affidata al borioso e inesperto Giannandrea Doria e al titubante viceré di Sicilia duca di Medinacoeli. Radunatasi la flotta nell'ottobre del 1559 a Messina - e il C. vi è presente colle sue due navi -, dopo un prolungato soggiorno a Malta si verifica nel febbraio-marzo del 1560, l'effimera e dispersiva (era meglio investire direttamente Tripoli) presa di Gerba. Di qui il C. è inviato, in Sicilia per rifornimenti e per imbarcarvi altra truppa. Nel frattempo la Porta, avvisata, invia Piyāle pascià colla flotta. II, terrore serpeggia nell'armata cristiana sì che, quando questi appare, c'è, l'11 maggio, una grottesca rotta; a tutti parve, osserva un testimone diretto, il corso Anton Francesco Cimi, "che una bella fuga valesse più di un buon combattimento", ché, come asserisce il commissario delle galee toscane Piero Machiavelli (figlio di Nicolò), "la paura occupò l'animo di tutti", non però quello dei C. se è da credere alle "relationi mandate in corte", cui fa riferimento il consigliere del Doria Plinio Tomacelli, asserenti che il C. in qualche modo reagì coll'artiglieria del suo galeone. E con questo - non però colla galea che pare perduta - riesce a sfuggire alla cattura riparando prima a Malta e raggiungendo di Il Messina. Si concludeva così la sua ultima avventura bellica in mare.
Più movimentata, quanto meno dal 1555, di quella dei C. la vicenda della sua nave più temibile che i contemporanei solevano chiamare il "galeone del Cicala" o anche, quasi ad identificarla col proprietario, "galeon Cigalla", notissima per le sue periodiche scorribande - predisposte ed organizzate dal C. ma non da lui eseguite - in Levante per "robbare", come insistono indignate le autorità venete.
Mitizzato nei racconti delle vittime e nel confuso sommarsi degli avvistamenti sino ad asswnere una mole doppia della reale, il galeone è indubbiamente agile ed aggressivo: stazza quasi Oo botti, ha maneggevoli vele quadrate, vanta un'artiglieria bronzea di 22 pezzi (tra cui 4 "mezi canoni"), è in grado d'imbarcare 300 uomini d'equipaggio con scorte di viveri per tre mesi. Camuffato da innocuo mercantile - "siamo una nave d'Ancona" di proprietà d'un "gentiluomo fiorentino" dichiara con impudenza Bernardo Lomellini, capitano nel 1557, al capitano di Baffo - accosta le effettive imbarcazioni da trasporto e le aggredisce all'improvviso, prelevando il carico se queste sono cristiane e trattenendo come schiavi gli ebrei scovati a bordo e catturando merce naviglio e uomini nel caso siano turche. I molti greci presenti nell'equipaggio garantiscono - come rileva l'ammiraglio veneziano Cristoforo da Canal - un'efficiente rete informafiva, avendo "fermissime spie d'amici et parenti nelle terre" sottoposte a Venezia; "onde et delle partite che fanno gli navili da esse terre et delle mosse delle galie" venete preposte alla custodia "vivono sempre certi. Per il che possono poi sicurissimamente assalir quelli et guardarsi da quelle". Malgrado la assidua vigilanza e i rischi ricorrenti - nel maggio del 1558 il galeone è assalito da quattro galee e cinque galeotte "di Ochiali con la bastarda di Dragut" cui sfugge malconcio dopo una "battaglia" di reciproco cannoneggianiento; costante è la caccia delle galee veneziane; concordi turchi e veneziani, vincolati dal mutuo impegno che "non si possi dar recapito né vittuarie a' corsari" nel tentativo di sventare le complicità a terra pei rifornimenti - il galeone ogni anno scorrazza insidioso specie al largo di Cipro di Cerigo di Candia. Ingente spesso il bottino: alla fine del 1557 cattura un naviglio candiota di 200 botti; all'inizio del 1558 rimorchia, sino a Messina tre battelli francesi provenienti da Tripoli di Siria con "facoltà per più di cento mille ducati"; all'inizio del 1559, sorpreso da due sopracomiti veneti, Piero Sagredo e Andrea Pesaro, nell'atto di depredare due vascelli veneziani, si fa beffe di loro e sfugge trainandosi dietro una delle due imbarcazioni carica di seta, noce di galla e cenere. Furibondo Cristoforo da Canal si impegna sino allo spasimo per "tuorli modo di dover più, lungamente offender", con "molti segnalati Asanni", le "cose et sudditi" di Venezia; è per lui un cruccio ossessivo che il galeone continui protervo ad "infestar". Intollerabile che sia in grado di esibire - come asserisce il 3 dic. 1557 il capitano della guardia -di Candia, che s'illude, peraltro, d'averlo e malissimo trattato "con unn "batteria di camonate" sì che "gli caderà de l'animo di venire più in questi mari a danneggiare" - "una patente" del "viceré di Cicilia" del tutto regolare, "in buona forma". Offensiva l'arroganza del suo procedere: al Sagredo e al Pesaro che gli avevano ingiunto di restituire, all'inizio del 1559, "essa nostra nave con le robbe dei giudei", iI capitano Usodimare replica d'aver "ordine dalli miei maggiori dove si voglia che troverò robbe de infedeli..., de prenderli et ancora si fossero sopra vasselli ... di Venetia". Dopo la temporanea interruzione delle scorrerie per la partecipazione, con il C. a bordo, tra l'ottobre del 1559 e il maggio del 1560, alla maldestra spedizione contro Dragut, il galeone, nel settembre del 1560, s'aggira ancora minaccioso in Levante; lo segnala allarmato l'aghà di Malvasia protestando col provveditore di Cerigo Giovanni Mocenigo "che gli uomini di questa isola dessero favore a' corsari". Ritorna comunque entro i primi di novembre a Messina, se tale "Ciprian, patron della nave Tarabotta", che di lì è partito il 25, riferisce a Cristoforo da Canal "che il galione del Cigalla si attrovava carico di formento in quel porto ... et che si diceva per cosa certa che il capitano Visconte..., ... fatti scaricare detti formenti, voleva vender esso galione conoscendo non poterlo mandar più in corso per tema delle galee venitiane". L'informazione si rivela ben presto inesatta: ribollente di sdegno è lo stesso da Canal a scrivere al Senato, il 30 genn. 1561, come il "galion" abbia avuta "la sfacciatezza" d'entrare "nel porto d'Argostolli", fingendosi "nave ragusea" e "mostrando l'insegne di S. Biasio". L'episodio - così il da Canal - "mi traffisce sì fattamente l'animo che io, di verità, non so quando habbi mai altrettanto dolore sentito". Non basta: comandato questa volta dal ventitreenne Filippo Cicala, nipote del C. nonché figlio del vescovo di Mariana Nicolò e fratello di quello di Albenga Carlo (infinite e tutte buone le vie dell'arricchimento per la nobiltà genovese), il galeone ad Argostoli, nell'isola di Cefalonia, s'impadronisce d'un "caramussali", di proprietà turca ed ebrea, carico di vino, e quindi, "sopra capo Mattapàn", ferma "una navetta venetiana" e, in tal, caso più riguardoso, si limita al prelievo d'un "hebreo con un suo coletto di seda". Sono, però, le sue ultime malefatte. Incalzato dal da Canal il galeone si spinge sin sotto Cerigo, poi a Milo, quindi "sopra" l'isola di "Zia" incagliandosi in una, "secca" dalla quale si libera solo dopo quattro ore per puntare "verso il scoglio di Rafti", su cui, sballottato da un "horribil vento da scirocco con pioggia", finisce il 3 febbraio col cozzare violentemente fracassandosi. La furia, della tempesta unita all'inesperienza del troppo giovane capitano ("poco intendente delle, cose di mare" lo giudica il da Canal) operano quanto in tanti anni non sono riuscite a fare le cannonate delle galee inseguitrici. Il naufragio è disastroso: l'equipaggio si disperde, il grosso, circa centonovanta uomini, raggiungendo la costa della Morea ove i Turchi lo catturano, il resto, una settantina, si salva assieme al "non molto animoso" comandante salendo su di un "naviliotto carico di pietra da molino" prontamente bloccato dal da Canal. Il terribile galeone si riduce ad un misero relitto che spetta ai Turchi. Sprezzante il da Canal costata "che una mosca è stata da molti fino ad hora creduta un elefante". "Poteva valere" - aggiunge - circa 15 mila scudi "et è opinione che il signor Visconte se ne sia questo viaggio assicurato". Quanto ai prigionieri fa impiccare all'"antenna" della sua galea il più colpevole dei greci, condanna i sudditi veneti volontariamente imbarcatisi sul galeone a tre anni di "cathene", mentre non infierisce, impressionato dal fatto di avere di fronte un nipote del "card. Cigalla c'ha il titolo di S. Clemente" sul comandante, il quale "teme questa rettentione et di modo che non puòastenersi molte volte dalle lacrime". Non nega "d'aver tuolto in ogni luogo dove haveva potuto le robbe et persone de' infedeli" scusandosi col fatto "che portava rissoluta commissione di dover ciò fare dal signore Visconte ... suocio et di cui era il galione". S'aggrappa, quale ad "unico fondamento della sua liberatione", alla speranza "di esser addimandato ... dalla santità di nostro signore per mezzo. del cardinal suo barba". Il che puntualmente si verifica: il 30 maggio, pur condannando le "operationi di questi corsari", il papa, mosso dall'amore e dalla "pietà" pel cardinale di S. Clemente ne chiede il rilascio. Sollecito il Senato delibera, "in gratificatione sua", il 5 luglio, che Filippo Cicala "sia lasciato in libertà", purché "satisfatti prima li danni"; e, il 21 attenua di molto anche questa condizione, revocando la "piezaria" impostagli.
Quanto al C. si preoccupa, forse anche perché già informato del naufragio del suo galeone, d'acquistare una galea predata ai barbareschi dalla flotta sicula posta in un primo momento in vendita a Messina. Ma la vendita di questa e di un'altra, cui aspirava Luigi Osorio, viene bloccata, dietro pressione d'Antonio Doria (costante nella. sua ostilità al C.), dal viceré il quale dispone debbano rimanere entrambe di proprietà regia. I due mancati acquirenti si adontano e decidono di protestare direttamente con Filippo II. Il C., portando con sé il secondogenito Scipione, salpa da Messina il 18 marzo e, congiuntosi a Trapani colla goletta (questa recava pure personaggi di riguardo) dell'Osorio, punta verso la Spagna. Ma, appena fuori Trapani, di faccia a Marettimo entrambe le navi - quella del C. e quella dell'Osorio - vengono assalite da fuste inviate da Dragut e, dopo accanita resistenza, catturate e rimorchiate a Tripoli. Mentre il gran maestro gerosolimitano La Valette riesce rapidamente a riscattare i prigionieri più cospicui (tra cui la baronessa d'Aierba, moglie di don Pedro Urries, uno dei caduti nello sfortunato tentativo di difesa), il C. si rivela troppo ghiotta preda per essere facilmente rilasciato.
In un primo tempo pare siail papa stesso a prendersi a cuore la questione: il 30 maggio confida all'ambasciatore veneto Girolamo Soranzo di provare compassione per il cardinale di S. Clemente, così provato dalla "perdita" del "fratello et ... nipote ... in mano de' turchi, per causa delli quali convien hora pagare 10 mila scudi con gran danno della casa sua". Ed il 1° agosto ritorna sull'argomento: "andiamo pensando - sussurra al Soranzo - di far qualche bene al ... capitanio Visconte qual'è pregione de' turchi et è così valoroso nel mare c'ha pochi pari. Ma non bisogna che continui a robbare come ha incominciato, perchéDio conduce spesso gli huomeni di mal affare a questa fine". Intenzione di buona volontà troppo blanda e ulteriormente intiepidita dalle riserve sulla figura del C. quando invece sarebbe stato opportuno stanziare immediatamente una somma enorme sì da suggestionare Dragut. Il quale, in mancanza d'una pronta offerta d'un riscatto allettante, preferì annunciare trionfante al sultano la cattura del C. e del figlio e spedirglieli in dono.
Giunti a Costantinopoli il 17 sett. 1561, Scipione è destinato al Serraglio mentre lo sventurato C. viene, incarcerato, alle Sette Torri. Proseguono fiacche e scoordinate le pressioni pel rilascio, rispetto alle quali Venezia si mantiene volutamente estranea.
Un sondaggio, poco convinto, parte da Genova: "venne già molti giorni - avvisa, il 14 nov. 1562, iI bailo Daniele Barbarigo - in questa città", a Costantinopoli, "un scioto", uno di Chio cioè, "chiamato Nicolò Petrochino, il qual, se ben dette voce di esser venuto per il riscatto" del C., "però si è inteso da poi che è venuto a posta per trattar la pace" tra Genovesi e Turchi. E all'inizio del 1564, il rappresentante francese a Costantinopoli Antoine de Petremol informa che "les gens de l'ambassadeur de Ferdinand se vantent publiquement que, devant qu'il soit le mois d'avril, Cigalle et plusieurs autres scigneurs, qui sont icy esclaves, seront délivrez au nom de l'empereur". Ma si tratta, appunto, di vanterie senza esito. Come non ne ha la promessa del C. "au bassa" di sborsargli "cinq mil escuz" una volta liberato; "le bassa, qui a esté trompé de dom Alvaro, dom Sanches et Beringuier, pour ne tomber deux fois en mesme faulte, ne le veult faire délivrer qu'il n'aye premier touché deniers". Né c'è verso di smuovere l'ostinazione d'entrambi. Lo stesso Petremol s'è impegnato a lungo per "négocier la liberté" del C. lusingato dal pascià "avec bonne espérance de l'avoir", affiancato, dall'autunno del 1563, da Vincenzo Giustiniani inviato espressamente dalla Francia per questo. Ma la missione si risolve in un fallimento, che attesta, d'altro canto, il discredito in cui è tenuta dalla Porta la Francia indebolita dai dissensi interni; dopo mesi di permanenza, - osserva il Petremol seccatissimo del prolungato soggiorno del collega che "demeure icy inutile et sur mes bras" il pascià, lungi dal fornire una risposta precisa alle sue continue richieste, divaga con genericità tipo "Dieu est grand, Dieu, le fera, Dieu le donnera". Alfine, messo alle strette dal Giustiniani e dal Petremol, esasperati da tanto tergiversare, deve dichiarare, per ordine del sultano, in forma inequivocabile, nel novembre del 1564, "que ... ne pouvoit dellivrer un si insigne et grande corsaire ... qui avoit faict infinis maux et dommages non seulement aux turcs, mais aussy à quelque-uns de la chréstienté".
Il 12 dic. 1564 il C. muore in carcere: "è passato ad altra vita", informa secco il bailo Vettor Bragadin; di lui più pietoso e diffuso il Petremol scrive che "le pauvre ... mourrut ... en prison tant a cause de sa vieilleisse que des gouttes qui le travailloient". Alla notizia dei contemporanei si sovrappone in seguito la più colorita versione del Costo: il C. sarebbe morto stroncato dal dolore per l'adesione del figlio Scipione all'islamismo; sarebbe stato, comunque, lo stesso Scipione ad ottenere dal magnanimo Solimano che il padre avesse esequie solenni "nella chiesa di S. Francesco di Pera".
Dalla moglie, Lucrezia, il C. ebbe almeno due figlie ("già passate di questa a maggior vita", dirà la vecchia madre nel 1598) e tre figli: Filippo, Scipione, il famoso rinnegato, Carlo.
Carlo fu beneficiario d'una pensione spagnola, cavaliere di S. Giacomo della Spada, sposo, nel 1587, alla nobile e ricca messinese Beatrice del Giudice, due volte governatore, nel 1597-98 e nel 1008-09, dell'Arciconfraternita degli Azzurri, investito, con gran privilegio reale del 19 luglio 1630, del principato calabro di Tiriolo (ove, in suo onore, fu costituito un nuovo paese o "casale" che da lui prese il nome: cfr. F. De Nobili, Come fu fondato un paese in Calabria nel '600, in Brutium, XXXIX [1960], 3, pp. 4 ss.); nel corso della sua lunga esistenza, fu geloso custode del prestigio della sua famiglia, amante del fasto e non alieno da inquiete e tortuose ambizioni di grandezza e da rischiosi intrighi per appagarle (intrighi strettamente connessi con la biografia del fratello Scipione, non però interrotti dalla morte del famoso fratello nel 1606: il Senato veneto, il 7 dic. 1630, informa, ad es., l'ambasciatore presso l'imperatore Sebastiano Venier che Carlo è partito per Constantinopoli "per trattar ... d'ottener per il figliuolo alcuno de' que' principati feudatari del Turco di Valachia o di Moldavia ... a sodisfattione principalmente dei parenti di donna principale della Boemia destinata in moglie del medesimo figliuolo suo e cfr. Archivio di Stato di Venezia, Senato. Corti, reg. 1, c. 91r).
Filippo, pur egli beneficiario d'una pensione spagnola, vantaggiosamente accasato alla ricca nobildonna Caterina Zappata, più volte senatore (a lui e agli altri cinque componenti il "senato ... di Messina" il Costanzo dedica, l'11 nov. 1604, la Prima parte dell'historia siciliana..., Venetia 1604), governatore della Tavola pecuniaria e degli Azzurri, tra i fondatori, nel 1595, dell'Ordine equestre della Stella (costituito proprio dietro lo stimolo di fronteggiare le incursioni di Scipione, ammiraglio turco), morì a Messina il 3 genn. 1611. Questo fu il più affezionato alla memoria patema: chiamò Visconte un suo figlio (forse quel "Visconte Cigala correo mayor deste reyno" di cui in L'archivio dei visitatori generali di Sicilia, Roma 1977, p.167) e volle ricordare il padre - così in'una descrizione di Messina del primo '600 - nella chiesa di S. Domenico, con una cappella "marinorea" ove campeggiava la "statoa" dei "capitan Visconte Cigala" con alla base un "epitafio intagliato in tavola di marmo" (si trattava d'un vero e proprio monumento funebre, che andrà distrutto in un incendio. del 1848, donde deriva l'erronea asserzione il C. sia morto a Messina, dopo essere stato riscattato) rivendicante, non senza un tono implicitamente polemico, i meriti della sua "militia" a Vantaggio della Spagna, la fierezza per cui "maluit dignitatis suae quam fortunae haereditatem pervenire". Il che - in forma contorta - stava a significare che la Spagna non gli era stata certo adeguatamente riconoscente.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Senato. Dispacci Cipro, filza 1, lett. del 29 novembre, 5 e 6 dic. 1557; Ibid., Senato. Lettere dei provv. da terra e da mar, filze 728, passim;823, lett. del 17 genn. 1558;1195, lett. del 12, 13, 24 genn. 1558 m. v.; 1196, passim nelle lett. tra l'ottobre 1560 e il maggio 1561; Ibid., Senato. Deliberazioni Roma ordinaria, reg. I, cc. 39v-49r, passim (filza 1, alle date 20 e 27 marzo, 28 giugno, 26 e 29 luglio 1561); Ibid., Senato. Arch. proprio Roma, 16, lett. del 31 maggio, 14 e 21 giugno, 5 luglio, 2 ag. 1561; Ibid., Senato. Deliberazioni Costantinopoli, reg. 1, c. 65v; Ibid., Senato. Dispacci Costantinopoli, filze 3C, lett. del 9 apr., 10 luglio, 19 sett. 1561 e 14 nov. 1562; 4D, lett. del 27 apr. 1563 e 16 dic. 1564 (lett. quasi tutte in cifra. Per la decifrazione: Decifrazione, III, pp. 83, 126, 225; IV; pp. 46-48); Venezia, Civico Museo Correr, Fondo Donà dalle Rose, 23: L. Donà, ... Memorie ... nell'ambascieria mia di Costantinopoli ... 1595, c. 148v; G. Bonfadio, Annalium Genuensium ... libri..., a c. di A. Sambuca, Brixiae 1797, pp. 109 s.; Cronaca sic. del sec. XVI..., a c. di V. Epifanio-A. Galli, Palermo 1902, pp. 194, 209; Zckeriyyazade, Ferah Cerbe Fetihnamesi (lettera aurea sulla battaglia marittima di Gerba), a cura di O. S. Gökyay, Istanbul 1975, p. 98; A. F. Cirni, Successi della armata ... destinata all'impresa di Tripoli..., Vinegia 1560, ff. 9r, 36v; Narrazioni e docc. sulla storia del Regno di Napoli..., a c. di F. Palermo, in Arch. stor. it., IX(1846), p. 130; Négociations de la France dans le Levant..., a c. di E. Charrière, II, Paris 1850, pp. 673 s., 709, 758-766 passim; Calendar of letters ... State papers relating to the negotiations between England and Spain ..., VI, 2, a c. di P. de Gayangos, London 1895, p. 381; Rel. des ambassadeurs vénitiens, a c. di F. Gaeta, Paris 1969, p. 161; Rel. di amb. ven. al Senato, a c. di L. 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Costo, Compendio dell'ist. del Regno di Napoli, III, Venetia 1613, p. 146; A. Morosini, Hist. ven., in Dell'ist. delle cose ven., VI, Venezia 1718, p. 158; F. Mugnos, Teatro delle fam. nobili ... di Sicilia..., I, Palermo 1647, pp. 275 s.;L. Chalcondylas, L'histoire... avec la continuation ... di T. Artus, Paris 1650, pp. 644, 854; G. Sagredo, Memorie ist. de' monarchi ottomani, Venetia 1677, pp. 751s.; G. Bosio, ... Ist. della... Rel. ... di San Giovanni Gierosolimitano, III, Napoli 1684:, pp. 194, 196, 446; A. Bulifon, Giornali di Napoli, a cura di N. Cortese, Napoli 1932, p. 158; P. de Brantôme, Mémoires..., VI, Leyde 1699, pp. 44, 60; F. Aprile, Della cron. univ. della Sicilia ..., Palermo 1725, p. 298; G. Diedo, Storia ... di Venezia ..., II, Venezia 1751, pp. 180-181 (sul nipote del C., Filippo); C. D. Gallo, Gli annali ... di Messina, a c. di A. Vayola, III, Messina 1881, pp. 13 s.;I. von Hammer-Purgstall, Hist. de l'Empire ottoman..., Paris 1836-1837, VI, pp. 189, 196; VIII, p. 400; C. Varese, Storia ... di Genova..., V, Venezia 1841, pp. 322, 337; J. W. Zinkeisen, Gesch. des osmanischen Reiches, II, Gotha 1854, pp. 918 s.; G. E. Di Blasi, Storia ... di Sicilia, III, Palermo 1864, pp. 63, 103; V. Palizzolo Gravina, Il blasone di Sicilia, Palermo 1871-1875, p. 148; S. Salomone Marino, De'... uominid'arme sic., nel sec. XVI, in Arch. stor. sic., n. s., IV (1879), p. 300; L. Amabile, Fra' T. Campanella, I, Napoli 1882, pp. 135 s.; F. D. Guerrazzi, Vita di Andrea Doria, II, Milano 1882, pp. 336, 337; B. Candida Gonzaga, Mem. delle fam. nob. delle prov. mer. d'Italia, VI, Napoli 1883, pp. 80 s.; J. B. Jurien de la Gravière, Les corsaires barbaresques, Paris 1887, pp. 284, 349 s.; A. Guglielmotti, Storia della marina pontificia, Roma 1887-1892, IV, p. 344; VII, p. 108; C. Manfroni, Storia della marina it., III, Roma 1897, pp. 411, 419; [I. Rinieri], Clemente VIII e... Cicala..., in La Civ. catt., s. 16, IX (1897), pp. 689-703; A. De Lorenzo, Nostra Signora della Consolazione protettrice ... di Reggio, Roma 1902, pp. 643 74, 211 s.; G. Capasso, Il governo di... Ferrante Gonzaga in Sicilia..., in Arch. stor. sic., n. s., XXXI (1906), pp. 39 n. 5, 40, 56, 407-408 n., 409 s., 411; G. Oliva, Sinan-Bassà..., in Arch. stor. messinese, VIII(1907). pp. 272-291, 293; IX (1908) pp. 80, 191, 194, 201; N. Iorga, Gesch. des osmanischen Reiches, III, Gotha 1910, p. 183; E. Rossi, Storia della marina dell'Ordine di S. Giovanni, Roma 1926, pp. 45, ss n. 3; V. Spreti, Enc. stor. nob. it., II, Milano 1929, p. 459; I cavalieri gerosolimitani e Tripoli ... dall'opera di G. Bosio..., adi S. Aurigemma, Intra 1937, pp. 61, 62, 64; A. Bombaci. Le fonti turche della battaglia delle Gerbe, in Riv. degli studi or., XIX (1940-1941), p. 233; Storia marittima dell'Italia, I, Milano 1942, pp. 786. 793; M. Longhena, Le imprese controTripoli e ... Gerba, in Atti e mem. dell'Acc. di agricoltura scienze e lettere di Verona, CXXXIV (1957-1958), p. 121 (ove il C. è detto, erroneamente, "napoletano"); F. Seneca, Il dogeL. Donà, Padova 1959, p. 294; G. Valente, Vita di Occhiali, Milano 1960, pp. 45 s., 67; A. Tenenti, C. da' Canal..., Paris 1962, pp. 48, 59 s. nn. 104 e 108, 152, 167 s. nn. 1-4; R Braudel, La Méditerranée... à l'époque de Philippe II, II, Paris 1966, pp. 198, 290, 314 n. 3, 316 n. 8 (nell'indice dei nomi della trad. it., Torino 1976, il C., confuso con altri, ha, erroneamente, il nome di Domenico; per lui valgono i rinvii alle pp. 1048, 1079 n., 1082 n.); J. F. Guilmartin jr., Gunpowder and galleys ..., Cambridge 1974, p. 133; The Encyclopedia Of Islam ..., II, p. 33; Encyclopédie de l'Islam ..., I, p. 875.
Per la famiglia del C.:A. M. G. Scorza, Le fam. nob. genovesi, Genova 1924, pp. 74 s. Pel figlioCarlo: V. Vitale, Diplomatici e consoli ... di Genova, Genova 1934, p. 248; I. Mazzoleni, Fonti per lastoria della Calabria ... nell'Arch. di Stato di Napoli, Napoli 1968, pp. 112, 127, 229, Sulla presenza messinese dei Cicala, specie di Filippo: G. Galluppi, Nobiliario ... di Messina, Napoli 1877, ad vocem.