VIRUS (v. ultravirus, XXXIV, p. 644; App. II, 11, p. 1056)
Generalità. - Le conoscente acquisite in quest'ultimo decennio nel campo dei v. e delle malattie da essi provocate sono numerose e sempre in continua evoluzione. Se l'ultrafiltrabilità e la non visibilità al microscopio ottico, unitamente alla incoltivabilità sui comuni terreni, rappresentano sempre i caratteri fondamentali che valgono a definire questo gruppo di agenti patogeni, altri aspetti non meno essenziali ed altri elementi di sommo interesse hanno variamente concorso all'affermazione di nuovi concetti e di nuove idee sull'argomento.
Nuove constatazioni sono intervenute in favore della suddivisione dei v. in due grandi gruppi, chiamati microvirus o v. semplici i primi (comprendenti i v. delle piante ed alcuni v. animali di piccolissime dimensioni, fra cui il v. della poliomielite) e macrovirus o v. complessi i secondi (comprendenti la maggior parte dei v. animali).
L'analisi chimica ha rivelato la presenza nei microvirus di materiale proteico ad elevato peso molecolare. Questi v., in forma altamente purificata, si presentano come formazioni cristalline (simmetria molecolare su tre dimensioni) o paracristalline (simmetria molecolare su due dimensioni); essi, alla prova d'inattivazione con radiazioni ionizzanti, hanno mostrato che, secondo la nota teoria del bersaglio una sola ionizzazione, prodotta in qualsiasi punto della macromolecola, è capace di provocarne l'inattivazione; il che indica che tutta la particella virale è radiosensibile.
I macrovirus hanno una composizione chimica un po' più complessa e quelli fra essi di maggiori dimensioni rivelano anche l'esistenza di una particolare organizzazione strutturale (nuclei visibili al microscopio elettronico, membrana). In questi v. sono risultati presenti acidi nucleici, sotto le due forme desossiribonucleico (DNA), che è il tipico costituente di ogni nucleo cellulare, e ribonucleico (RNA); le due forme possono ritrovarsi sia separatamente sia in associazione. Nella maggior parte dei casi si riscontrano anche lipidi e fosfolipidi; nel v. vaccinico si nota la presenza di colesterolo, grassi neutri e zuccheri; nel v. influenzale, di fosfolipidi, colesterolo non esterificato e polisaccaridi.
I v. di questo gruppo, alla prova d'inattivazione con radiazioni ionizzanti, hanno rivelato che tale effetto si ottiene anche con una singola ionizzazione, ma solo se questa colpisce un bersaglio in un determinato punto della particella virale. E poiché la porzione radiosensibile può essere considerata come la parte geneticamente importante, questi v. rivelerebbero la presenza di strutture rappresentanti l'apparato genetico; ciò non accade nei microvirus.
Rapporto virus-cellula ospite. Moltiplicazione. - Il parassitismo obbligato dei v. fa sì che lo studio del meccanismo del processo di moltiplicazione, svolgendosi esso all'interno della cellula e soltanto in questa, interessi contemporaneamente e particelle di v. e cellula ospite. Conoscere come una particella virale agisca sulla superficie di una cellula sensibile, come penetri in essa, s'ingrani in detemminate operazioni metaboliche endocellulari, come si riproduca e come, infine, le particelle neoformate abbandonino la cellula infettata, è indiscutibilmente uno dei più interessanti problemi di virologia. Per la sua soluzione, le ricerche si sono essenzialmente rivolte verso due specie virali: il batteriofago (vedi oltre) ed il v. influenzale, che hanno fornito un paradigma generale riferibile anche agli altri virus.
Il ciclo di sviluppo di un v., per quanto complesso e non interamente chiarito, si svolge secondo una serie di processi ordinati nel tempo e correlati fra loro, che possono essere schematicamente raggruppati come segue:
1a fase: contatto virus-cellula sensibile e penetrazione del v. in questa. Indubbiamente questa fase si rivela di estrema importanza per lo svolgimento dell'intero fenomeno. Nel caso dell'influenza, la particella virale, accostatasi alla cellula sensibile (epitelío polmonare), si fissa per adsorbimento a determinate strutture presenti sulla superficie di questa (ricettori); successivamente, per intervento di un enzima, la neuramidasi, che idrolizza l'acido neuraminico presente nel ricettore, penetra nella cellula. Secontlo altri autori il v. penetrerebbe nella cellula per un semplice processo di viropessi (S. Fazekas de St. Groth) o di pinocitosi (F.K. Sanders).
2a fase: chiamata "fase intermedia di sviluppo" o "fase di eclisse" o "fase di latenza". Rappresenta la fase della moltiplicazione virale vera e propria; essa si svolge in poche ore ed è caratterizzata dal fatto che l'unità virale iniettante, strutturalmente composta da una parte nucleica centrale rivestita, a seconda dei varî tipi di v., da un determinato aggregato proteico lipoproteico, si scinde nei suoi varî componenti, e cioê parte nucleica e rivestimento proteico. La parte nucleica, che rappresenta quindi un'entità strutturalmente e biologicamente incompleta, venendo a stretto contatto con le substrutture della cellula ospite e ingranandosi nel metabolismo nucleo-protidico di questa, determinerebbe la formazione, probabilmente con un processo di autoduplicazione per induzione, di nuove unità virali, le quali sarebbero inizialmente simili al modello induttore, e quindi anch'esse incomplete (forme immature o mutilate o precursori del v.) e non evidenziabili quindi con i comuni mezzi d'indagine (fase di eclissi).
Successivamente queste neoformazioni virali formate dalla sola componente nucleica completerebbero la loro composizione con l'aggiunta di un rivestimento proteico, dando luogo così ad altrettante unità virali mature, strutturalmente, biologicamente ed immunologicamente simili a quelle di partenza.
3a fase: eliminazione delle particelle virali all'esterno della cellula e invasione di altre cellule. Nella cellula ospite lo sviluppo virale ha determinato rilevanti modificazioni chimiche ed enzimatiche, che hanno condotto a gravi alterazioni dell'intera cellula. Questa si lacera e dal suo interno fuoriescono le particelle virali neoformate, le quali possono invadere altre cellule e dare di nuovo inizio al processo di moltiplicazione virale.
Coltura. - Uno dei mezzi più utili per lo studio dei v. è la coltura dei tessuti: nuovi metodi e nuove tecniche hanno consentito di compiere notevoli progressi anche in questo campo. Un metodo di coltura dei tessuti in vitro, che ha trovato un esteso impiego in questi ultimi anni, è quello delle "colture monostratificate": frammenti di determinati organi sono sottoposti a digestione con tripsina; si ottengono cellule isolate che, immesse in liquido nutritivo adatto (soluzione salina + aminoacidi + vitamine + siero) all'interno delle provette, si dispongono in un unico strato sulla parete di vetro e vi si moltiplicano, distaccandosi solo quando muoiono. Questo nuovo metodo permette una determinazione quantitativa della moltiplicazione virale, studî di genetica virale, ecc. Anche le colture di cellule neoplastiche hanno ricevuto un notevole impulso, sia per mettere a disposizione dei virologi un tipo di cellula avente particolari caratteristiche colturali, sia per ricerche specifiche nel campo dei tumori. Oggi ogni laboratorio di virologia ha colture di cellule "HeLa", cioè di cellule provenienti da un carcinoma dell'utero (He e La rappresentano le prime due lettere del nome e del cognome della paziente affetta da quel tumore). Le cellule neoplastiche offrono il vantaggio di una maggiore velocità di moltiplicazione.
Notevoli progressi ha consentito di ottenere nei metodi di coltura la tecnica della tripsinizzazione, mediante la quale è possibile ottenere la separazione delle cellule di un tessuto: servendosi, infatti, della digestione mediante tripsina, si possono ottenere ben isolate cellule renali di scimmia. Com'è noto, questo terreno di coltura ha trovato un'estesa utilizzazione nella preparazione del vaccino antipolio. Uno dei maggiori inconvenienti finora riscontrati per la produzione di un vaccino virale è rappresentato dalla difficoltà di poter disporre di una quantità notevole di antigene virale; per la poliomielite è stato possibile ottenere una sufficiente crescita del v. ricorrendo appunto a colture su cellule di rene, ottenute mediante tripsinizzazione.
Attraverso una serie di subcolture ripetute periodicamente, si possono ottenere colture continue, capaci cioè di mantenere una determinata crescita virale per un tempo indefinito.
È utile ricordare che molti v., moltiplicandosi all'interno della cellula, possono determinare in essa danni anatomici più o meno gravi (effetto citopatogeno).
Virus latenti. - È ormai sufficientemente provato che un v., penetrato nel tessuto dell'ospite, possa, mediante il costituirsi di uno stato di equilibrio tra protoplasma vivente ed elemento virale, determinare un'infezione latente, alla quale manca qualsiasi espressione morbosa o funzionale che nell'organismo divenga rivelatrice d'infezione (F. magrassi). Secondo Haudoroy, il v. latente e l'organismo ospite vivono insieme in buon accordo: l'uno invade l'altro senza suscitare reazioni apparenti. I v. latenti non provocano perciò alcun segno clinico di malattia nell'ospite che essi parassitano, ma possono, in certi casi, essere solo provvisoriamente latenti e risvegliarsi sotto l'azione di cause diverse naturali, note o ignote. Il concetto di v. latente non va confuso con quello di "periodo d'incubazione": com'è noto, l'incubazione può essere in alcuni casi (epatite da v.) particolarmente prolungata, ma non si può parlare d'infezione latente. Il problema delle infezioni latenti riveste particolare interesse, in ordine non soltanto alla patologia, ma anche al meccanismo attraverso il quale degli organismi obbligatoriamente intracellulari riescono a sopravvivere per lungo tempo nell'organismo ospite. Nella patologia umana, esempî d'infezione virale latente sono dati dall'herpes simplex, dagli adenovirus, dai virus ECHO e, sotto certi aspetti, dal v. dell'epatite da siero. Per resistere allo stato latente un v. deve produrre pochi o nessun danno alle cellule dell'ospite, e deve possedere un meccanismo che gli permetta di passare da cellula a cellula e di sfuggire alle difese immunitarie dell'ospite. Si possono distinguere tre gruppi di infezioni latenti: quelle in cui non vi è sviluppo di anticorpi (epatite serica umana); quelle in cui gli anticorpi esistono, ma sono inefficaci (alcune infezioni da grossi v.); quelle, infine, in cui si ha sviluppo di anticorpi attivi, ma questi non vengono a contatto con il v. (ad es. herpes simplex, adenovirus). In quest'ultimo caso è verosimile che il v. passi da cellula a cellula senza esporsi all'azione degli anticorpi; ciò può avvenire perché le cellule sono strettamente ammassate o perché esistono ponti citoplasmatici intercellulari. Un'altra possibilità è che il v. venga trasmesso, attraverso la mitosi, alle cellule discendenti da quella originariamente infettata; è noto che il v. erpetico e gli adenovirus si moltiplicano nel nucleo cellulare. La conoscenza delle infezioni latenti è importante per l'impiego di vaccini antivirali (coltura su tessuti) e per le emotrasfusioni.
Virus batterici (batteriofagi, fagi). - F. W. Twort e poco più tardi F. D'Herelle, più di quarant'anni fa, scoprirono l'esistenza di esseri ultramicroscopici, che essi interpretarono come v. parassiti dei batterî, in sostanza simili ai v. animali e vegetali. Questi v., detti batteriofagi (v. batteriofago; VI, p. 389; App. II,1, p. 413), sono divenuti il materiale sperimentale di elezione per lo studio delle proprietà generali dei v. e delle loro relazioni con le cellule ospiti; ciò è stato reso possibile dall'estrema semplicità dei batterî, dalla facilità e dalla rapidità della loro coltura, nonché dal fatto che le tecniche di studio dei batteriofagi permettono ricerche quantitative accurate di fenomeni biologici assai complessi.
La struttura delle particelle fagiche appare in certi casi tanto complicata da giustificare quasi una descrizione in termini di anatomia, sia pure submicroscopica. Nel batteriofago che attacca l'Escherichia coli si distinguono varie "razze" e "sottospecie". Nel gruppo di quelle che si indicano con la lettera T si distinguono ancora dei sottogruppi indicati con numeri: T1, T2, T3, T4, T5. I fagi pari della serie T, ad esempio, presentano una testa poliedrica delle dimensioni di 95 × 65 mμ, costituita da una membrana proteica dello spessore di circa 5 mμ e di un nucleo di acido desossiribonucleinico (DNA) altamente polimerizzato. La testa è munita di un'appendice assai complessa (coda), che consiste di un filamento interno di circa 12 mμ di spessore avvolto da un involucro tubolare costituito di due parti ben differenziabili. La parte più prossima alla testa mostra proprietà contrattili, mentre la parte distale è costituita da una piastra esagonale dai cui vertici si distaccano sei fibrille di circa 6 mμ di spessore, che svolgono una parte essenziale nell'adsorbimento alla cellula ospite. Nel complesso la coda, che ha uno spessore totale di 25 mμ e una lunghezza di 125 mμ , costituisce un organo di fissazione alle cellule ospiti; grazie alle sue proprietà contrattili essa funge da iniettore del DNA fagico. Non tutti i fagi finora studiati mostrano una così grande complessità; accanto ai fagi pari della serie T esistono batteriofagi piccolissimi, come ad esempio il colifago ϕX174, caratterizzati da un'estrema semplicità, e che sembra non posseggano coda affatto.
Dal punto di vista chimico le particelle fagiche sono essenzialmente costituite da proteine e DNA; tuttavia sarebbe semplicistico affermare che esse sono delle nucleoproteine in vista della loro complessità strutturale e lel fatto che la frazione proteica appare differenziabile in tipi diversi, svolgenti funzioni indipendenti nel complesso ciclo riproduttivo e capaci di provocare la formazione di anticorpi specifici. Nelle particelle fagiche meglio studiate è stata ormai definitivamente esclusa la presenza di acido ribonucleico (RNA); tuttavia le cellule invase da batteriofagi sintetizzano RNA fago-specifico che funge da mediatore nella sintesi delle proteine fagiche.
Il DNA può essere separato dalle particelle fagiche mediante procedimenti assai semplici; ad esempio lo shock osmotico permette di ottenerlo in forma relativamente pura, mentre le calotte proteiche svuotate mantengono la loro struttura poliedrica. Questi "ghosts" si prestano bene per lo studio dell'interazione tra le strutture preposte all'adsorbimento ed all'iniezione del DNA e le relative cellule ospiti.
Il DNA è presente nelle particelle fagiche in unità molecolari di elevatissimo peso. Mediante la tecnica dell'autoradiografia molecolare è possibile misurare la grandezza dei frammenti di DNA che fuoriescono dalle particelle dei fagi pari della serie T in seguito allo shock osmotico; queste macromolecole mostrano un peso molecolare di almeno 50 milioni, ma è oggi ormai certo che in questi fagi è presente un'unica molecola di DNA del peso di circa 120 milioni.
Le particelle fagiche contengono più di un tipo di proteine; nei fagi pari della serie T finora ne sono state individuate almeno sei. Una di esse costituisce la calotta della testa, un'altra è presente in piccole quantità frammiste al DNA, una terza, con proprietà contrattili, è presente nell'involucro della parte prossimale della coda e una quarta ne costituisce lo stilo interno; almeno altre due costituiscono la piastra basale e le fibrille: esse sono coinvolte nei processi di adsorbimento alle cellule ospiti e nella reazione d'immunizzazione mediante immunsieri. Tutte queste proteine sono ben differenziabili da quelle del corrispondente ospite batterico.
In complesso la funzione delle proteine presenti nelle particelle fagiche appare essenzialmente connessa con la conservazione del DNA al di fuori della cellula ospite e con i meccanismi di adsorbimento e di iniezione del DNA nelle cellule ospiti.
È stato ormai assodato che la riproduzione del DNA fagico si compie indipendentemente dalla sintesi delle proteine destinate a formare la membrana della testa e le strutture della coda; la loro sintesi può infatti essere selettivamente inibita mediante l'uso del cloramfenicolo, aggiunto in momenti ben determinati del ciclo riproduttivo. Si verifica allora un accumulo intracellulare di DNA fagico, mentre la rimozione del cloramfenicolo provoca una rapida sintesi delle proteine fagiche e la progressiva maturazione di particelle complete, con l'utilizzazione di tutto il DNA presente, anche di quello che si era accumulato durante il periodo dell'inibizione.
Il processo di formazione delle particelle complete (maturazione) è ancora uno dei capitoli più oscuri della biologia dei batteriofagi. E. Kellenberger ha osservato, mediante la tecnica delle sezioni ultrasottili per la microscopia elettronica combinata con uno studio parallelo del ciclo litico, che nelle cellule di Escherichia coli infettate da fago T2 si estrinsecano delle formazioni poliedriche costituite da DNA condensato, che costituiscono il nucleo intorno al quale si organizzano le proteine della testa a formare una membrana progressivamente più completa. La caratteristica forma poliedrica della testa può trovare spiegazioni semplici quanto ingegnose, che giustificano anche l'estrema regolarità della forma e delle dimensioni delle teste fagiche.
L'adsorbimento dei fagi alle cellule batteriche e l'iniezione del DNA fagico sono seguite da una serie di eventi che conducono ad una integrazione profonda del DNA fagico nell'intimo meccanismo riproduttivo dell'ospite. Proprio sulla base del tipo d'integrazione che consegue all'infezione i batteriofagi possono essere distinti in "virulenti" o "temperati", a seconda che le cellule infette indirizzino totalmente la loro attività metabolica verso la sintesi massiva di strutture fagiche, oppure che si stabilisca una sorta di equilibrio riproduttivo che prende il nome di lisogenicità. Si dicono lisogene quelle cellule batteriche che sono spontaneamente capaci di produrre particelle batteriofagiche.
I fagi virulenti possono essere distinti in almeno due categorie. La prima è rappresentata tipicamente dai fagi pari della serie T, capaci di sopprimere la moltiplicazione delle cellule ospiti fin dai primi momenti dell'invasione; le cellule mostrano prestissimo chiari segni di danno irreversibile, consistenti soprattutto in una completa disintegrazione dei corpi nucleari. La seconda categoria comprende tipi che non ledono così immediatamente le cellule ospiti, le cui formazioni nucleari sono osservabili apparentemente integre fino ad uno stadio molto avanzato della moltiplicazione fagica. Sembra quindi che alcuni batteriofagi siano in possesso di proprietà parassitarie più spiccate, forse in relazione alla complessità e alla perfezione del loro apparato infettante.
Comunque la virulenza dei batteriofagi deve essenzialmente consistere nell'attitudine posseduta dal loro DNA a sostenere vantaggiosamente, nei confronti delle strutture genetiche dell'ospite, la competizione nell'utilizzare i prodotti di basso peso molecolare indispensabili alla sua riproduzione. Questi prodotti del metabolismo cellulare vengono utilizzati per la sintesi del DNA fagico, il quale sostituisce il DNA dell'ospite nel suo ruolo di coordinatore. Il DNA assume un ruolo determinante anche nella sintesi delle proteine, mentre la cellula finisce per fornire unicamente il macchinario biochimico necessario alla sintesi dei nucleotidi e degli amminoacidi. Non conosciamo ancora le ragioni del montaggio selettivo posseduto dal DNA fagico nella competizione con il DNA della cellula ospite; tuttavia è noto che, perché la competizione stessa si sviluppi, è necessario che il materiale genetico del fago resti indipendente da quello dell'ospite e che non si stabilisca tra essi alcuna sorta di legame capace d'impedire o d'intralciare il cambiamento nei rapporti quantitativi tra i due tipi di struttura. È proprio questa la base teorica più semplice per comprendere il significato della lisogenicità, la quale appunto deriva dallo stabilirsi di un legame tra le strutture genetiche del fago e dell'ospite, con un conseguente equilibrio riproduttivo.
N. D. Zinder e J. Lederberg hanno scoperto il fenomeno cosiddetto della trasduzione, che consiste nell'inclusione, all'atto della maturazione, di frammenti di materiale genetico batterico nell'involucro proteico delle particelle fagiche. Questi frammenti vengono iniettati in altre cellule insieme al DNA virale, e sono portatori di nu0ve proprietà genetiche.
In alcuni casi è possibile dimostrare che qualunque parte del cromosoma batterico ha una certa probabilità di essere trasdotta, proprio come se la disgregazione del nucleo batterico, in conseguenza della moltiplicazione fagica, permetta ad ogni tipo di frammento di rimanere per caso inserito nell'involucro proteico di una particella matura. Inoltre M.L. Morse, e J. Lederberg hanno dimostrato che il colifago temperato lambda è capace di trasdurre soltanto una zona specifica del cromosoma batterico, cui il cromosoma fagico è normalmente connesso nello stato di lisogenicità. Questa zona, che controlla la fermentazione del galattosio, non è semplicemente incorporata nelle particelle mature del fago lambda, ma è divenuta parte integrante del cromosoma fagico in seguito ad un fenomeno di crossing-over.
Lo studio delle conseguenze della presenza di materiale genetico fagico nelle cellule lisogene ha condotto a scoperte del più alto interesse. È stato dimostrato ad esempio che alcuni batteriofagi temperati del Corynebacterium dyphteriae sono eapaci di conferire a cellule non tossinogeniche da essi invase la proprietà di formare la tossina difterica. Questo tipo di fenomeno, detto conversione, è stato osservato anche in altri microrganismi per svariati caratteri e va interpretato come la conseguenza della presenza nelle cellule lisogene del materiale genetico del fago, il quale, sotto questo aspetto, si dimostra funzionalmente capace di aggiungersi al materiale genetico dell'ospite.
Nel complesso gli studî sulla lisogenicità hanno operato un cambiamento nel nostro modo di concepire i batteriofagi. Oggi non conosciamo ancora la loro origine evolutiva; se essi rappresentano i lontani discendenti di parassiti intracellulari ormai profondamente integrati nei relativi ospiti e divenuti a volte dei simbionti; oppure se essi sono l'espressione di una primitiva tendenza del materiale genico degli schizomiceti ad essere trasferito da cellula a cellula in modo parcellare, non solo secondo le modalità note dei fenomeni d'induzione, ma anche e soprattutto attraverso la mediazione di particelle submicroscopiche, altamente specializzate, talvolta dotate di proprietà parassitarie. Quel che appare certo è che in effetti i batteriofagi si comportano come autentici gameti submicroscopici. Del resto gli schizomiceti, per lungo tempo considerati organismi del tutto privi di sessualità, si sono rivelati sotto questo aspetto ben più complessi: il fenomeno dell'induzione, la ricombinazione, la lisogenicità sono altrettanti meccanismi che assicurano ai batterî i grandi vantaggi evolutivi della sessualità e forse i batteriofagi sono i protagonisti più importanti di questo fondamentale aspetto della vita microbica.
Virus di recente individuazione e virosi corrispondenti. - Adenovirus. - Negli anni 1953-54 un gruppo di nuovi agenti virali fu isolato da svariato materiale; tali agenti furono denominati con nomi differenti, a seconda della sede di provenienza. Quelli isolati dalle adenoidi furono chiamati con le lettere AD (Adenoidal Degenerating V.); quelli provenienti dall'apparato respiratorio RI (Respiratory Illness V.) oppure ARD (Acute Respiratory Disease V.), oppure, se provenienti anche dalla congiuntiva, APC (Adenoidal-Pharyngeal-Conjunctival V.). Nel 1956 questi v. furono compresi in un'unica famiglia e si convenne di denominarli Adenovirus (J. F. Enders), volendo ricordare appunto il tessuto adenoideo, dal quale essi furono per la prima volta isolati e per il quale si dimostravano maggiormente patogeni.
Questi nuovi v., di cui si conoscono finora 23 tipi sierologici, sono di forma quasi sferica, con diametro compreso tra 80 e 120 mμ; sono resistenti all'etere, termolabili, possiedono un antigene deviante il complemento comune a tutto il gruppo, non sono patogeni per i comuni animali da esperimento e sono insensibili a tutti gli antibiotici. Si moltiplicano nelle colture in vitro determinando gravi danni nelle cellule dove si sviluppano (effetto citopatogeno) e formazione d'inclusioni nucleari. Le particelle di v. risultano composte da un corpo centrale di circa 20-40 mμ formato di acido desossiribonucleico (DNA) e da un rivestimento proteico; osservate nei preparati in sezione le particelle assumono una disposizione ordinata pa racri stal li na.
Gli Adenovirus (A.) sono molto diffusi ed è possibile isolarli da secrezioni e da tessuti faringei, adenoidei, tonsillari e congiuntivali, sia di persone affette da malattie acute dell'apparato respiratorio, sia di persone apparentemente sane (portatori). Gli A., infatti, trovano l'ambiente optimum sia per la moltiplicazione (malattia) sia per lo stato di latenza (portatore) nelle formazioni linfatiche delle prime vie aeree e della congiuntiva.
Le persone più colpite sono i bambini ed i giovani; le forme cliniche che gli A. determinano sono diverse: 1) febbre faringo-congiuntivale che si contrae frequentemente nelle piscine e che è caratterizzata da febbre, faringite, congiuntivite e tumefazione delle linfoghiandole cervicali; 2) malattia respiratoria acuta, che somiglia molto, clinicamente, all'influenza; 3) cheratocongiuntivite epidemica, caratterizzata da una grave cheratite con opacità corneali subepiteliali di forma rotondeggiante; 4) tonsillo-faringite abatterica, malattia di breve durata, caratterizzata da iperemia delle tonsille e del palato molle, che si ricoprono di un essudato grigiastro non confluente; 5) polmonite da A., che rientra nel gruppo delle polmoniti atipiche da v. La diagnosi di queste svariate forme cliniche può essere solo sospettata, dovendosi, nella quasi totalità dei casi, attendere l'accertamento di laboratorio, che si attua mediante l'isolamento del v., in coltura, seminando gargarizzato o essudato tonsillare o faringeo o congiuntivale e mediante le prove sierologiche (deviazione del complemento). La terapia è solo sintomatica; gli antibiotici servono non contro gli A., ma per combattere eventuali infezioni batteriche secondarie.
Virus Echo. - Sotto questa denominazione (Enteric cytopathogenic human orphan) è compreso un'altro gruppo di v., che sono stati isolati dall'intestino dell'uomo e che, insieme con il v. polio ed i v. Coxsackie, con i quali hanno stretti caratteri in comune, fanno parte della grande famiglia degli Enterovirus. L'attributo "orfani" è stato dato a questi virus perché inizialmente non si sapeva di quali malattie fossero gli agenti eziologici. Si tratta di v. piccoli (diametro 20-30 mμ), resistenti all'etere, capaci di produrre effetto citopatogeno sulle cellule renali di scimmia coltivate in vitro; attualmente se ne conoscono 28 tipi; essi determinano nell'uomo la formazione di anticorpi svelabili con le reazioni di deviazione del complemento, di neutralizzazione e d'inibizione dell'emoagglutinazione.
I v. Echo sono molto diffusi soprattutto nei bambini fino a 4 anni; poi si ritrovano con minore frequenza, fino a riscontrarsi raramente al di sopra dei 15 anni. Le condizioni ambientali disagiate e la stagione estiva sono fattori determinanti un'incidenza maggiore. Vie d'ingresso e di eliminazione sono il tubo digerente e le vie aeree superiori; localizzazioni si possono avere anche nelle meningi (meningite asettica). Si ritrovano sia nei malati sia in persone sane (portatori). Le malattie provocate dai v. Echo hanno generalmente carattere squisitamente epidemico, con elevata contagiosità ma con decorso rapido e quasi sempre benigno. Possono osservarsi varie forme cliniche: affezioni febbrili estive clinicamente non differenziabili, diarrea estiva del lattante e del bambino, meningite asettica, meningo-neurassite, encefalite acuta. La diagnosi eziologica è possibile solo mediante l'ausilio del laboratorio: isolamento del v. dalle feci o dal liquor o dal gargarizzato; ricerca nel siero del paziente degli anticorpi neutralizzanti o di quelli fissanti il complemento: questo esame va eseguito due volte, prima nel periodo acuto di malattia e poi in corso di convalescenza; si può anche ricorrere alla prova d'inibizione della reazione di emoagglutinazione. La terapia antibiotica non agisce sull'agente virale.
Virus Coxsackie. - Isolati per la prima volta nel 1948 da G. Dalldorf e G. M. Sickles da due pazienti residenti nella città di Coxsackie sul fiume Hudson negli S. U. A. (donde la denominazione attuale), questi v. rappresentano m gruppo eterogeneo, che può essere suddiviso in un numero di agenti differenti, i quali hanno in comune la proprietà di essere tutti elettivamente e facilmente patogeni per il topino neonato e non per quello adulto; in grado minore sono anche patogeni per i criceti, furetti e merioni neonati. Gli animali adulti sono quasi insensibili, ma con il cortisone si riesce ad aumentarne la recettività.
I v. Coksackie si possono dividere in due grandi gruppi, A e B, il primo dei quali comprende 24 tipi sierologici ed il secondo 5. Si tratta di v. molto piccoli (10-20 mμ di diametro), resistenti all'etere e al riscaldamento a 60 °C per almeno 30 minuti; si conservano bene a basse temperature (− 20°, − 70°) e in glicerina; sono invece prontamente inattivati dall'acido cloridrico e dalla formalina. Si possono coltivare su cellule in vitro e, al pari del v. polio e dei v. Echo, producono effetto citopatogeno.
Sperimentalmente i v. del gruppo A si differenziano da quelli del gruppo B perché, mentre i primi, nel topo neonato, producono miositi molto diffuse, eventualmente con paralisi flaccide, senza altre lesioni visibili, quelli del gruppo B determinano una miosite, che ha una distribuzione più focale, una pannicolite, che interessa specialmente lo strato grasso dei cuscinetti interscapolari, ed infine encefalite e paralisi di tipo spastico.
I v. Coxsackie penetrano attraverso il cavo orale e si eliminano principalmente con le feci; possono riscontrarsi in persone sia malate sia sane (portatori); data la resistenza verso l'ambiente estemo, il contagio indiretto è anche molto importante. Nell'uomo determinano diverse forme cliniche, di cui le più importanti sono: 1) Herpangina: è dovuta a v. del gruppo A ed è caratterizzata da una sintomatologia dolorosa a carico della gola, con disfagia e lesioni che interessano i pilastri, le tonsille e la lingua. L'esito è sempre favorevole. 2) Mialgia o pleurodinia epidemica o malattia di Bornholm (dal nome dell'isola dove si verificò un'epidemia): è dovuta a v. del gruppo B ed è caratterizzata da dolori muscolari intensi e spasmodici, a variabile localizzazione. L'esito è quasi sempre favorevole. 3) Miocardite neonatale: è dovuta anch'essa a v. del gruppo B ed è caratterizzata da un interessamento predominante del miocardio ma anche del sistema nervoso centrale del fegato e dell'apparato intestinale; l'esito è prevalentemente mortale. 4) Meningite asettica: può essere provocata da v. di entrambi i gruppi; prevale il carattere epidemico e la sintomatologia è quella dell'interessamento meningeo; il v. può essere isolato anche dal liquor; l'esito è quasi sempre favorevole, senza postumi. Accanto a queste forme cliniche, se ne riscontrano altre, meno frequenti, le quali difficilmente sono riportabili al quadro di una cosackiosi, dato che presentano una sintomatologia molto generica (malattia minore, linfoadenite acuta, malattia esantematica, ecc.). Interessanti sono i rapporti tra v. cosackie e v. polio, appartenenti entrambi, insieme con i v. Echo, alla famiglia degli Enterovirus.
L'accertamento di laboratorio, indispensabile per una diagnosi eziologica, si esegue mediante l'isolamento del v. dalle feci o dal liquor (inoculazione in topini neonati, coltura su cellule) e mediante la reazione di neutralizzazione o di fissazione del complemento, da eseguirsi due volte, a malattia in atto e nella convalescenza.
Virus morbilloso. - Importanti acquisizioni sono state ottenute di recente anche a proposito di questo v., da quando cioè si è riusciti ad ottenerlo in coltura pura e a trasmetterlo ad animali da esperimento. L'isolamento del v. si attua dal gargarizzato e dal sangue, nel periodo prodromico ed in quello precedente l'esantema; il materiale viene seminato su tessuti coltivati in vitro; la semina su embrione di pollo ha dato risultati discutibili. Il v. determina effetto citopatogeno: formazione di cellule giganti multinucleate. Sono risultati sensibili all'infezione sperimentale le scimmie del genere Macacus e il topino e l'hamster lattanti. Interessante è l'esistenza di notevoli affinità sierologiche tra il v. morbilloso e il v. del cimurro.
La possibilità di coltivare agevolmente il v. del morbillo ha dischiuso le porte all'allestimento di un vaccino preventivo. In America è in avanzata fase sperimentale un vaccino preparato dal Enders e coll., utilizzando un ceppo attenuato.
Virus delle piante e degli insetti. - Virus delle piante. - La nomenclatura più corrente consiste nell'usare come nome dei varî v. un sintomo tipico presente sull'ospite nel quale il v. stesso fu trovato originariamente, es. v. del mosaico del tabacco (TMV). I sintomi sono molto varî e sogliono essere raggruppati arbitrariamente nelle seguenti categorie: screziatura ed altre anomalie dei fiori; anomalie dei frutti; mosaici; maculature ad anello; maculature lineari; giallumi o ingiallimenti nelle foghe; necrosi; nanismi; malformazioni; tumori o neoplasie. Si conoscono v. latenti che non causano sintomi nel portatore originario, ma li provocano se trasferiti su altri ospiti. V. latenti sono nella patata King Edward nella cuscuta e nella barbabietola. I v. delle piante sono nucleoproteine con acido esclusivamente ribonucleico (RNA) in percentuali dal 5 al 40%. Al microscopio elettronico (× 30.000 e più) si presentano sotto forma di bastoncini rigidi, di filamenti o di sfere (poliedri a più forti ingrandimenti). Le dimensioni dei bastoncini vanno da 55 a 1250 mμ e i poliedri da 17 a 30 mμ, eccezionalmente più. La struttura del v. del mosaico del tabacco è la seguente: il bastoncino è lungo in media 300 mμ e largo 15 mμ; nell'interno è cavo. Questo canale è fasciato da una lunga catena di RNA ad avvolgimento elicoidale e questa è racchiusa in un involucro di molecole proteiche che costituisce il bastoncino all'esterno. Si conosce il peso molecolare e si è calcolato il numero delle molecole e dei residui, ma è ancora sconosciuta la seguenza delle molecole proteiche nel bastoncino. Lavorando sopra piante indicatrici (vedi avanti) l'esame al m. e. può essere effettuato per i v. a bastoncino e a filamento con quantità minime disperse in acqua (0,01 cm3). Tali preparati possono essere ottenuti triturando i tessuti della pianta oppure operando in modo da far trasudare goccioline di linfa; talora anche ponendo su una goccia d'acqua dei frammenti di foglia. In ogni caso raccogliendo gocce di acqua o di linfa si può esaminare il v. Sono stati isolati 400 differenti mutanti di TMV da piante di tabacco e di pomodoro; si conoscono mutanti del mosaico del cetriolo, del mosaico della patata, del mosaico della canna da zucchero. Alcuni v. presentano una grande tendenza a dare mutanti, altri ne danno un numero limitato. Due v., quello della rosetta del pesco e quello dell'accortecciamento fogliare della patata, non danno mutanti. I ceppi mutanti del v. del mosaico del tabacco si differenziano per la gravità dei sintomi che inducono negli ospiti. Il ceppo genitore determina una malattia di media gravità, non dando luogo a malformazioni o distorsioni delle foglie, a striature degli steli o dei frutti, come fanno i ceppi mutanti. La purificazione dei v. è fatta mediante precipitazione chimica o con metodi di migrazione differenziale quale cromatografia (migrazione differenziale in un mezzo assorbente), ultracentrifugazione (migrazione differenziale in un campo centrifugo), elettroforesi (migrazione differenziale in un campo elettrico). I v. delle piante sono trasmessi per inoculazione o per sfregamento a mezzo di attrezzi o a mezzo della mano dell'uomo; attraverso il terreno; per seme; attraverso il polline; per propagazione vegetativa delle piante; per innesto; attraverso gli insetti o altri animali. I v. trasmessi dagli insetti sono distinti in due gruppi: v. non persistenti, che vengono rapidamente distrutti nell'insetto dopo pochi minuti; v. persistenti, conservati virulenti dall'insetto per giorni. La virulenza o infettività del v. sembra essere fondamentalmente legata al RNA. Questo, liberato dall'involucro proteico ed introdotto nelle piante (tabacco), ha dato origine a v. completo e alla malattia. I mezzi attualmente a disposizione per la diagnosi delle virosi delle piante sono: sierodiagnosi; pregermogliazione; inoculazione o innesto su piante indicatrici, cioè su piante che reagiscono molto visibilmente all'introduzione del v. e ne permettono una rapida moltiplicazione, esami al m. e. Nell'ospite si hanno inclusioni intracellulari (corpi X); modificazioni degli inclusi della cellula; sviluppo di tessuti anormali; galle interne; necrosi. In relazione ai tessuti nei quali i v. si muovono, si hanno v. limitati al parenchima; v. limitati al floema; v. presenti sia nel parenchima sia nel floema; v. limitati allo xilema. Degli effetti del v. sul metabolismo delle piante si ricordano l'azione sulla clorofilla, le alterazioni del contenuto in carboidrati delle foglie e le variazioni nel rapporto carboidrati: azoto; l'effetto sulla respirazione e su altre attività enzimatiche.
Virus degli insetti. - Sono descritti tre gruppi di virosi delle forme larvali: virosi poliedriche suddivise in nucleari e citoplasmatiche; virosi granulari; virosi non formanti inclusioni intracellulari. In aggiunta sono da considerarsi poche altre virosi che attaccano gli insetti adulti, e la virosi che provoca la paralisi dell'ape. Le virosi poliedriche in cui il v. si moltiplica nel nucleo sono caratterizzate dalla presenza di cristalli poliedrici nei tessuti; i cristalli racchiudono il v. sotto forma di bastoncini, avvolti in due membrane. I poliedri sono completamente solubili in alcali deboli. L'acido nucleico del v. è un acido desossiribonucleico (DNA). Sintomi caratteristici della malattia sono la rottura della cuticola e la liquefazione del contenuto del corpo dell'insetto. Nelle virosi poliedriche in cui il v. si moltiplica nel citoplasma, i cristalli poliedrici sono solo parzialmente solubili in alcali deboli; ne rimane una struttura a forma di favo e i v. sono sferici, a granuli composti ravvolti in una membrana. L'acido nucleico è acido ribonucleico (RNA). Sintomo della malattia un essiccamento progressivo fino a mummificazione. Nelle virosi granulari, la moltiplicazione del v. è nel nucleo, con un gran numero di granuli molto piccoli, al limite della visibilità del microscopio ottico. I granuli sono solubili in alcali deboli e nell'interno il v. ha forma di bastoncino ravvolto in una capsula. I sintomi della malattia sono simili a quelli del morbo poliedrico nucleare. Le virosi con v. liberi senza inclusioni intracellulari sono due. I v. si aggregano entro il corpo grasso. Nella Tipula paludosa, il v. ha forma sferica e il sintomo caratteristico è dato da un pigmento violetto nel corpo grasso sì che la larva infetta appare colorata.
Genetica. - L'organismo modello per lo studio della genetica dei v. è, come già accennato, il batteriofago. La fisiologia dello sviluppo del fago è sata accuratamente studiata e sono state messe a punto tecniche quantitative d'indagine. È stato possibile ottenere un notevole numero di "marcatori" genetici (cioè di differenze fra ceppi dovute a mutazione), che formano il materiale indispensabile per l'analisi genetica. La possibilità di eseguire incroci tra particelle fagiche (mediante infezione di un batterio con due o più fagi marcati geneticamente) è stata dimostrata in numerosi fagi, e le acquisizioni sulle conoscenze genetiche intorno a questi organismi sono oggi notevolmente ampliate. Assai più lacunose sono le conoscenze per altri tipi di virus.
L'iniezione del materiale fagico entro la cellula batterica comporta, come dimostrato da A.D. Hershey, l'ingresso di DNA (acido desossiribonucleico) fagico, mentre non entrerebbero proteine o altre sostanze, se non in tracce. Ciò ha confermato l'importanza del DNA come vettore della specificità ereditaria.
Il DNA entrato nel batterio si riproduce numerose volte, finché si sono formate varie centinaia di copie del DNA originale. A un certo tempo dall'inizio dell'infezione le particelle fagiche maturano, cioè il DNA si riveste di un involucro e prende di nuovo l'aspetto che ha il fago extracellulare. Inizia quindi la lisi cellulare che libera le particelle fagiche mature. Se le particelle che iniziano l'infezione sono più di una, e sono marcate geneticamente in modo opportuno (per almeno due marcatori) è possibile trovare ricombinanti nella progenie fagica ottenuta dalla lisi batterica (A.D. Hershey e R. Rotman). Vi sono molti cicli di raddoppiamento del DNA iniziale, prima della lisi, e quindi vi sono molte occasioni di scambio genetico; in media si è stimato che vi sono cinque "cicli d'incrocio" dorante lo sviluppo intrabatterico, per i fagi T2 e T4 (N. visconti e M. Delbrück), assai meno per altri fagi. Si osserva ricombinazione anche fra tre tipi fagici che infettino la stessa cellula.
Malgrado le complicazioni create dalla complessità del ciclo di sviluppo intrabatterico del fago è possibile calcolare le frequenze di ricombinazione fra marcatori vicini. La costruzione di mappe genetiche ha dimostrato, nei fagi meglio studiati, l'esistenza di un solo cromosoma. La ricombinazione fra marcatori genetici deve quindi avvenire con un processo di scambio, che può essere simile a quello osservato negli organismi superiori (crossing-over). Vi sono però differenze rispetto a quanto noto per gli organismi superiori; particolarmente importante il fatto che nella ricombinazione fagica non si formano coppie di cromosmi scambiati complementari fra loro.
Studî mediante autoradiografia con P32 hanno mostrato che la riproduzione del cromosoma fagico avverrebbe secondo un modello conservativo; cioè il cromosoma che si riproduce rimane intatto almeno per una larga parte (C. Levinthal). Lo scambio genetico avverrebbe all'atto della riproduzione cromosomica, in quanto un cromosoma nuovo che si sta formando potrebbe venir copiato in parte da un cromosoma di un tipo fagico. in parte da un cromosoma di un altro tipo ("copy-choice" ed altri simili meccanismi di scambio genetico).
La teoria della struttura "fine" del gene ha ricevuto importanti contributi dal lavoro di S. Benzer. Un tipo di mutante (r = rapid lysis) dei fagi T2 e T4 si presta particolarmente all'analisi genetica, per la facilità di selezionare tipi mutanti e ricombinanti. Più di duemila mutazioni r indipendenti sono state esaminate. Incrociate fra loro, mutazioni indipendenti possono ricombinare, formando con frequenza caratteristica il tipo normale non mutato (r+). Alcune mutazioni r però non ricombinano con altre, cioè all'incrocio non danno fago normale. Se una mutazione ra non ricombina con rb ed rc, ma rb ed rc ricombinano fra loro, è verosimile pensare che la mutazione ra sia dovuta alla scomparsa di un tratto abbastanza esteso di cromosoma, tale da includere sia la mutazione rb che rc. Si parla in tal caso di delezione. A conforto di questa interpretazione è il fatto che le mutazioni di questo tipo sono solitamente irreversibili. L'analisi topologica dei rapporti reciproci di numerose delezioni di diversa locazione ed estensione ha consentito di dimostrare che la struttura del cromosoma è lineare (unidimensionale).
La frequenza di ricombinazione fra due marcatori è, come nella classica teoria cromosomica dell'eredità, misura della distanza sul cromosoma tra i "loci" cambiati per opera delle mutazioni rispettive. La più piccola distanza tra marcatori osservata corrisponde, in termini di struttura del DNA di cui il cromosoma fagico è costituito, ad una o poche paia di nucleotidi.
Il gene come "unità di ricombinazione" (recone) è quindi estremamente piccolo. Il gene considerato come "unità di azione" (cistrone) è invece un tratto più lungo di cromosoma, corrispondente a parecchie centinaia di paia di nucleotidi ed è probabilmente responsabile della produzione di una molecola proteica o parte di essa.
Nel fago sono stati osservati fenomeni di "eterozigosi", cioè si trovano particelle capaci di segregare per uno o più marcatori (il cui significato è tuttora incerto); ed anche di "miscuglio fenotipico". Con quest'ultima definizione s'intende il fatto che da un incrocio batteriofagico (in particolare per marcatori h, i quali determinano la struttura della proteina che forma l'involucro del fago) si possono formare particelle fagiche il cui involucro non corrisponde al contenuto genetico, cioè al cromosoma in esso contenuto. Ciò è dovuto oresumibilmente al fatto che cromosomi diversi per il gene h, riproducendosi nello stesso batterio formano ciascuno il tipo d'involucro proteico, che sono capaci di formare; ma l'associazione fra cromosomi ed involucri neoformati avviene successivamente ed a caso, durante il processo di maturazione.
Da ricordare infine le variazioni indotte dall'ospite (S.E. Luria, ed altri), per cui un fago può avere proprietà di crescita sui diversi ospiti che sono determinate dall'ultimo ospite in cui esso è cresciuto. Queste alterazioni durano per un solo passaggio, cioè non vi è memoria della storia precedente del fago.
Lisogenesi. - Mentre la ricerca tra il 1940 ed il 1950 ha insistito soprattutto sui fagi virulenti, capaci cioè soltanto di distruggere il batterio ospite per lisi successiva allo sviluppo intracellulare del fago (sviluppo vegetativo), in tempi più recenti si è verificato un notevole interesse per i fagi lisogeni o temperati, capaci di crescere per così dire in simbiosi col batterio (allo stato di "profago"). In un ceppo di batterî lisogeni tutte le cellule sono portatrici di fago ma non ne dimostrano solitamente la presenza; solo di rado qualche cellula va spontaneamente incontro a lisi e libera fago. Molti fagi lisogeni sono inducibili (A. Lwoff) cioè determinano la lisi della cellula portatrice se questa è trattata con opportune dosi di agenti fisici o chimici detti inducenti. Fra gli agenti inducenti particolarmente importanti i raggi ultravioletti, e molti altri agenti mutageni. L'induzione si manifesta anche quando un batterio di sesso maschile (v. batterio: Genetica, in questa App.) portatore di fago lisogeno viene incrociato con una femmina che non porta questo fago (induzione zigotica; E. Wollman e F. Jacob).
La presenza di un profago determina immunità del batterio ospite verso questo fago, sebbene il batterio lisogeno possegga i recettori di superficie necessarî per l'assorbimento del fago.
Vi è una particella di profago per ogni nucleo batterico ed essa ha stretta connessione col cromosoma batterico. Infatti, in incroci opportunamente condotti, ed anche in trasduzione, il profago si comporta come un marcatore batterico qualunque (J. Lederberg e E.M. Lederberg, Wollman), a parte il fenomeno dell'induzione zigotica. Ogni fago esaminato ha una posizione particolare sul cromosoma di E. coli. sebbene alcuni fagi possano occupare più di una sede (G. Bertani). La natura esatta dei rapporti tra profago e cromosoma batterico non è ben nota.
Per quanto riguarda i fenomeni di trasduzione e di conversione, v. batterio: Genetica, in questa Appendice.
Virus animali e vegetali. - Le possibilità di studio genetico dei v. animali sono assai limitate dalle condizioni tecniche del lavoro. Queste ultime sono recentemente state assai migliorate dalla dimostrazione della possibilità di ottenere aree litiche simili a quelle fagiche anche con v. animali grazie all'uso delle colture in monostrato di tessuti animali (R. D. Dulbecco). Sono stati descritti fenomeni di ricombinazione genetica in alcuni v., in particolare quello dell'influenza, limitatamente a due gruppi di marcatori (P. E. Lind e F. M. Burnet); sono stati anche osservati eterozigoti instabili. e casi di "miscuglio fenotipico), (T. Gotlieb e G. K. Hirst). Ricerche del genere hanno il particolare interesse di riferirsi a materiale genetico diverso da quello analizzato in tutti gli altri studî genetici, in quanto per molti v. animali così come per tutti i v. vegetali il materiale genetico è acido ribonucleico (RNA) anziché desossiribonucleico (DNA).
Fenomeni di ricombinazione sono stati pure osservati nel v. vaccinico e ceppi affini (J.F. Fenner). Sono stati descritti anche fenomeni simili alla "trasformazione" (v. batterio: Genetica, in questa App.) in esperimenti con miscele di v. del fibroma e del mixoma dei conigli.
Ancora assai poco sviluppata è la ricerca genetica nei v. vegetali, in parte in conseguenza di difficoltà tecniche. Sono comunque noti fenomeni che si possono ricondurre a mutazione: è stata dimostrata l'azione degli agenti mutageni. È stato anche descritto qualche fenomeno che potrebbe interpretarsi come ricombinazione.
Bibl.: Trattati e lavori generali: F. d'Hérelle, Le bacteriophage, son rôle dans l'immunité, Parigi 1921; F. C. Bawen, Plant viruses and virus diseases, Waltham, Mass., 1950; K. M. Smith, Recent advances in the study of plant viruses, Londra 1951; S. E. Luria, General virology, New York e Londra 1953; E. Köhler e M. Klinkowski, Viruskrankheiten, in Handbuch der Pflanzenkrankheiten, a cura di Soraver, II (i), Berlino e Amburgo 1954; E. R. F. Matthews, Plant virus serology, Londra 1957; K. M. Smith, A textbook of plant virus diseases, ivi 1957; C. Hallauer e K. F. Meyer, Handbuch der Virusforschung, Vienna 1958; M. Klinkowski, Pflanzliche Virologie, Berlino 1958; E. Berger e J. L. Melnick, Progress in medical virology, New York 1959; F. M. Burnet e W. M. Stanley (redattori), The viruses, 2 voll., New York e Londra 1959; M. Pollard (redattore), Perspectives in virology. A Symposium, New York 1959; T.M. Rivers, Viral and Rickettsial infections in man, Filadelfia 1959; F. M. Burnet, Principles of animal virology, New York e Londra 1960; H. M. Smith e M. A. Lauffer, Advances in virus research, New York 1960.
Lavori speciali citati nel testo: F. W. Twort, An investigation on the nature of ultramiscroscopic viruses, in Lancet (2), CLXXXIX (1915), pp. 1241-1243; F. d'Hérelle, Sur un microbe invisible antagoniste des bacilles dysentériques, in C. R. Ac. des Sciences, Paris, CLXV (1917), pp. 373-375; O. T. Avery, C. M. Mac Leod e M. Mac Carty, Studies on the chemical nature of the substance inducing transformation of pneumococcal types, in J. Exper. Medic., LXXIX (1944), pp. 137-158; A. D. Hershey e M. Chase, Independent function of viral protein and nucleic acid in growth of bacteriphage, in Journ. Gen. Physiol., XXXVI (1952), pp. 39-56; N.D. Zinder e J. Lederberg, Genetic exchange in Salmonella, in Journ. of Bacteriol., LXIV (1952), pp. 679-699; J. D. Watson e F. H. C. Crick, Genetical implications of the structure of deoxyribonucleic acid, in Nature, CLXXI (1953), pp. 964-996; id., The structure of DNA, in Cold Spring Harbor Symp. Quant. Biol., XVIII (1953), p. 123; S. Benzer, The elementary units of heredity, in W. D. McElroy e B. Glass (redattori), The chemical basis of heredity, Baltimora 1957; M. Ageno, Some remarks on the shape of viruses, in Nuovo Cimento, serie X, XVIII, suppl. 2 (1960), pp. 166-175.