virtù
Categoria-guida del lessico politico di M., la v. conosce una riformulazione del significato ricoperto storicamente nell’etica classico-cristiana in conseguenza della frattura epistemologica che in M. rompe il legame concettuale tra etica e politica, dando vita alla nozione di «autonomia», o di «assolutezza», della politica. Il primo tratto distintivo della v. in M. è rappresentato dalla perdita del tradizionale significato etico di questo concetto, non nel senso di una generale perdita di valori morali, bensì nei significati originali che la v. machiavelliana assume svincolandosi dai tradizionali quadri di riferimento etici: platonico, platonico-cristiano, aristotelico e tomistico.
Il concetto di v. in M. non risponde pertanto alle partizioni gerarchiche di Platone (Repubblica IV), Plotino (Enneadi I), Macrobio (Commentarium in somnium Scipionis I 8,5), né alle classificazioni aristoteliche (Etica Nicomachea) né infine a quelle allegorico-dottrinarie (derivanti dalla Psycomachia di Prudenzio). Non esistono per M. gradi di v. concepiti in modo gerarchico-piramidale, non è prevista nessuna ascesi morale o religiosa dal ‘basso’ verso l’‘alto’, né viene contemplata un’idea di v. come habitus. Inoltre, M. non fornisce un reticolato delle sue auctoritates, come ci ricorda Cesare Vasoli:
[in M.] solo assai raramente compaiono i nomi di Aristotele, di Platone e dello stesso grande divulgatore Cicerone, e non si trova alcun riferimento diretto a Epicuro o a Lucrezio, a Plotino ed ai neoplatonici, agli scettici, insomma alle litigiose scuole dei filosofi antichi (Machiavelli e la filosofia degli antichi, in Cultura e scrittura di Machiavelli, Atti del Convegno, Firenze-Pisa 27-30 ottobre 1997, 1998, p. 46).
Svincolandosi dalle griglie normative della filosofia, M. inaugura una sorta di eclettismo anomalo nell’uso degli archetipi che vengono contaminati e riformulati in modo spesso paradossale e ‘scandaloso’. In particolare, nel delineare la v. M. non si priva di consistenti appoggi o riflessi filosofici, come quello derivante dal capitolo sul tiranno della Politica di Aristotele (V 11, 1314b-1315a) che è alla base del ‘realismo politico’ tradizionale. Il fatto che la v. sia priva di referenti etici precostituiti non comporta l’idea di un M. amorale, pronto a teorizzare ogni perfida macchinazione. Per non cadere in questa fuorviante semplificazione bisogna ricordare che il rovesciamento machiavelliano dell’etica politica rispetto a quella dei suoi immediati predecessori, come Filippo Beroaldo (De optimo statu), Francesco Patrizi (De regno et regis institutione) o Giovanni Pontano (De Principe), si fonda sullo slittamento dei valori etici umanistici verso un realismo comportamentale, influenzato dalla pratica cancelleresca e dominato da una morale dell’azione immediata che non contempla più il dogma umanistico dell’organicità del comportamento umano.
Per disegnare un profilo della v. machiavelliana vale sempre quanto osservava Felix Gilbert:
nei suoi scritti la parola ha un significato molteplice; sostanzialmente essa era l’italianizzazione del latino virtus e denotava la qualità fondamentale che permette all’uomo di compiere azioni e opere grandi. [...] [M.] usa questo concetto per rispecchiare l’idea [...] che il successo politico non dipende dalla giustezza d’una causa o dall’uso dell’intelligenza, e che la vittoria può arridere contro ogni ragione a chi è ispirato da una volontà risoluta e tenace o da qualche indefinibile forza interiore (Machiavelli and Guicciardini. Politics and history in sixteenth-century Florence, 1965, trad. it. 1970, pp. 154-55).
Il ritorno al significato etimologico latino di virtus fu avviato da Francesco Petrarca che permise una riabilitazione dei valori ciceroniani e senecani della v. intesa come capacità peculiare del vir, ovvero dell’uomo in grado di perseguire un progetto con determinazione e coraggio; gli umanisti quattrocenteschi, dal canto loro, nel solco tracciato da Petrarca, portarono alle estreme conseguenze teoriche una siffatta riabilitazione delle capacità progettuali dell’uomo fino a giungere a un’esaltazione delle potenzialità mondane della v., come emerge dalla Famiglia di Leon Battista Alberti.
Il riferimento alla virtus in M., tuttavia, non va inteso come generica affermazione di una v. di matrice ciceroniana né va considerato come rinvio paganeggiante a una v. fonte incontrollata di energia. Si parla di virtus per distinguere la v. machiavelliana da quella penitenziale di Girolamo Savonarola e, più in generale, dalla v. cristiana fondata sulla humilitas, la cui potenza antipolitica è messa in risalto da M., per es. in Discorsi II ii 31-32: «La nostra religione ha glorificato più gli uomini umili e contemplativi che gli attivi. Ha dipoi posto il sommo bene nella umiltà [...]» (si veda a tale proposito L. Rizzi, Humilitas e ferinitas. Il contrasto tra la morale del cristiano e la virtù del politico in Machiavelli, in Disarmonia bruttezza e bizzarria nel Rinascimento, Atti del VII Convegno internazionale, Chianciano-Pienza 17-20 luglio 1995, a cura di L. Secchi Tarugi, 1998, pp. 155-71).
I significati più frequenti della v. machiavelliana coincidono con i concetti di capacità, abilità politica, valore militare, energia, prodezza. La v. appare come una categoria ‘plurale’ (cfr. J.-L. Fournel, Le parole del Principe, «Lettera internazionale», 2006, 90, p. 33: «D’altronde parole fondamentali dell’opera (Stato, ordine, principato, modo, virtù) non tollerano un significato univoco: non rispettare il sistema di riferimenti, la rete intricata che costantemente agisce nel testo, significherebbe tradirli») e ‘flessibile’ (cfr. Kahn 1993, p. 201: «In un mondo in cui una facoltà flessibile di giudizio è costitutiva della virtù, non è sorprendente che Machiavelli non ci offra alcuna definizione sostanziale delle sue condizioni»), che accoglie, modificandoli, significati già stratificati nelle diverse accezioni italiane e latine.
Inoltre, è bene sottolineare come la v. machiavelliana si manifesti solitamente in tre diverse forme. Un primo grado è relativo alla v. del principe, ovvero alla v. del capitano, e rappresenta il livello individuale della v. necessario per imprimere forza ed energia all’azione politica e militare. Una seconda forma è la v. del popolo, della moltitudine e dell’esercito, v. collettiva assolutamente imprescindibile per la vitalità di uno Stato e per il buon funzionamento della milizia (tra le singole individualità e gli organi collettivi dovrebbe esistere un rapporto di mutua fiducia basato su una corrispondenza ‘virtuosa’ e ‘affettuosa’). Infine un terzo aspetto è quello della v. degli «ordini», ossia la v. delle strutture istituzionali, la capacità di sopravvivenza e di resistenza delle istituzioni statali: la giovinezza dello Stato è garantita da un flusso virtuoso che si diffonde in modo triangolare fra il titolare del potere politico, il popolo e gli ordini.
Una questione dirimente è poi quella relativa alla possibilità di insegnare la v. attraverso la codificazione di modelli di comportamento coerentemente ispirati a una condotta ‘virtuosa’. La questione chiama in campo lo statuto di genere delle opere di M., dal momento che l’orizzonte d’attesa storico-sociologico dei lettori potrebbe incidere sul valore esemplificativo della v. e sul suo valore didascalico. Il presunto manuale del ‘perfetto principe’ machiavelliano non ha una fisionomia sociologica chiara e la prospettiva repubblicana prevalente nei Discorsi, unita alla militanza politica diretta di M., scoraggia l’individuazione di una precisa figura identitaria (Rinaldi 1993 parla di M. «autore senza destinatario») alla quale possa essere ricondotto l’ammaestramento della virtù. Non a caso l’Exhortatio ad capessendam Italiam che chiude il Principe è rivolta a un salvatore ignoto, a un introvabile principe che sia in grado di riscattare l’Italia. Né possiamo dire che M. illustri la v. politica della classe dirigente tardosignorile cui appartengono il primo dedicatario del Principe, Giuliano de’ Medici duca di Nemours, e il secondo Lorenzo di Piero de’ Medici. Con eguale difficoltà potremmo sostenere che M. destina le sue opere al «popolo» o al solo orizzonte elitario degli Orti Oricellari (come suggerirebbero le dediche a Zanobi Buondelmonti e a Cosimo Rucellai per i Discorsi e a Lorenzo di Filippo Strozzi per l’Arte della guerra). Dunque M. si inserisce in una prospettiva che trascende le diverse forme di governo possibili per proiettarsi in un discorso sui fondamenti antropologici della v. politica al di là dell’orizzonte sociale e storico in cui essa viene esercitata. Incontriamo sovrani ‘virtuosi’ come Teodorico, di cui M. parla in Istorie fiorentine I iv, o condottieri ‘virtuosi’ come Castruccio Castracani da Lucca. Una v. politica sradicata da precisi destinatari storici, eppure a essi ben collegata, pone problemi di metodo circa la possibilità di insegnare la v. secondo i principi della precettistica e quindi sottrae i testi politici machiavelliani, in particolare il Principe, dalla trattatistica ‘tradizionale’ fondata su vincoli normativi stringenti e replicabili.
Non possiamo sostenere che M. prospetti coerentemente nelle sue opere il ritratto del ‘perfetto politico virtuoso’ anche perché in M. la v. non sfocia nell’individuazione di un carattere ‘virtuoso’ (Mans field 1966, p. 45: «per M. la virtù non consiste nell’avere un carattere virtuoso, come per Aristotele»), non dà luogo a un profilo comportamentale coerente, non si traduce cioè in una serie di v. o qualità da poter elogiare e da poter imitare. In M. incontriamo una serie di ‘elogi di uomini virtuosi’ (come il caso scabroso di Agatocle, in Principe viii, o quello più ortodosso di Manlio Torquato, in Discorsi III xxii, ma anche quello di Teodorico in Istorie fiorentine I iv o di Michele di Lando in Istorie fiorentine III xvi-xvii), ma non un ‘elogio della v.’ in quanto tale, come categoria morale imitabile e riproducibile. Questo perché non esiste un modello unico di v. e la pluralità di questo concetto non consente l’applicazione di quadri normativi omogenei e riproducibili. I ‘virtuosi’ elogiati da M. sono personaggi talvolta molto distanti tra loro, accomunati dal possedere una grande ‘capacità’ politica o militare, ma senza legami di fratellanza tali da costituire una griglia normativa fissa e schematica. Possiamo dilatare le prerogative minime del virtuoso machiavelliano dicendo con Giorgio Inglese che la capacità peculiare è la «capacità di previsione» (2006, p. 63), e con Quentin Skinner che il principe machiavelliano è guidato dalla «necessità e non dalla giustizia come virtù cardinale» (2002, trad. it. 2006, p. 191) come avviene nei trattatisti politici quattrocenteschi. Ma oltre non possiamo andare.
A conferma della costellazione machiavelliana di singole identità virtuose, difficilmente ‘imitabili’, vi sono poi delle particolari accezioni che caricano la v. di significati totalizzanti non riconducibili a schemi morali, ma a una sorta di dimensione irrazionale e insondabile. È il caso della v. «istraordinaria» (Discorsi III xxi) detta a volte v. «eccessiva» (Discorsi II ii, III xix, xxi, xxii) o v. «rara» ed «estrema» (Discorsi II ii). In queste accezioni la v. viene a configurarsi come una specie di ipervirtù, spiazzante per il nemico e inattesa per la «fortuna» che trova in essa una fonte di resistenza pervicace.
In alcuni passaggi machiavelliani si ravvisa, tuttavia, il tentativo di offrire una sponda normativa alla v., quasi a correggere l’eccessiva flessibilità di questo termine che corre il rischio di apparire modellato unicamente sulla dỳnamis. Si tratta di un correttivo introdotto da M. in alcuni casi per porre un limite al relativismo morale (limite evidentemente ignorato o aggirato dai fautori dell’antimachiavellismo). È il caso della grande v. di Agatocle ridimensionata dalla sua efferatezza in Principe viii, o di Camillo ‘buono’ e ‘virtuoso’ che spegne l’invidia con le sue doti morali in Discorsi III xxx. Nel primo esempio M., descrivendo i modi attraverso i quali «Agatocle siciliano, non solo di privata ma di infima e abietta fortuna, divenne re di Siracusa» (Principe viii 4), ci presenta un uomo che «accompagnò le sua sceleratezze con tanta virtù di animo e di corpo che voltosi alla milizia, per li gradi di quella pervenne a essere pretore di Siracusa» (§ 5). La v. di Agatocle consiste nella straordinaria capacità di entrare e uscire dai pericoli con una rara grandezza d’animo. Ma M. calibra il suo giudizio osservando che la sua efferata crudeltà non consente che Agatocle «sia in fra gli eccellentissimi uomini celebrato». In questo caso la v. machiavelliana sembra perdere il suo valore assoluto di tecnica e di abilità e trova un limite di tipo morale, una barriera, oltrepassata la quale viene intaccata la gloria di un pur abile personaggio. Scrive infatti M. di Agatocle: «Non si può chiamare virtù ammazzare e’ suoi cittadini, tradire gli amici, essere sanza fede, sanza piatà, sanza religione: e’ quali modi possono fare acquistare imperio ma non gloria» (Principe viii 10). Il nesso tra gloria e limiti morali invalicabili ricorre anche in Discorsi III xl 5: «io non intendo quella fraude essere gloriosa che ti fa rompere la fede e i patti fatti» e in Arte della guerra I 65: «dico che Pompeo e Cesare [...] acquistarono fama come valenti uomini, non come buoni; e quegli che erano vivuti avanti a loro, acquistarono gloria come valenti e buoni». Sembrerebbe esserci un perimetro morale non superabile da chi voglia accedere alla gloria, termine ultimo, superiore alla fama, che conferisce valore metastorico e memorabile a un principe o a un capitano virtuoso.
L’altro caso che possiamo menzionare è in Discorsi III xxx ed è relativo alla figura di Camillo. La v. è in questo caso abbinata alla «bontà», in una fondamentale dittologia sinonimica, come modalità auspicabile per spegnere il rischio dell’invidia quando ci si appresta a esercitare autorità in una repubblica:
Notasi per questo testo, quello che faccia uno uomo buono e savio, e di quanto bene sia cagione, e quanto utile e’ possa fare alla sua patria, quando, mediante la sua bontà e virtù, egli ha spenta l’invidia (§ 11).
Camillo dimostrò nei suoi tre mandati dittatoriali di aver sempre governato con attenzione al bene pubblico, senza la ricerca della propria utilità, facendo sì che gli uomini non temessero la sua grandezza e non soffrissero di essere inferiori a lui. La v. è qui associata alla magnanimità e si fonda sulla non ostentazione della propria capacità, sulla possibilità di una persuasione benefica in grado di inibire l’invidia.
Vi è tuttavia un particolare tipo di v. modellizzante, concepita come coerentemente ‘imitabile’: è l’«antiqua virtù» presente nelle antiche storie di cui ci parla M. nel proemio del primo libro dei Discorsi. Si tratta di una v. storicamente individuabile, facente capo a un nucleo di principi coerenti e in qualche modo riproducibili:
Considerando adunque quanto onore si attribuisca all’antiquità, e come molte volte, lasciando andare infiniti altri esempli, un frammento d’una antiqua statua sia suto comperato gran prezzo [...] e veggiendo, da l’altro canto, le virtuosissime operazioni che le storie ci mostrono [...] essere più presto ammirate che imitate; anzi, in tanto da ciascuno in ogni minima cosa fuggite, che di quella antiqua virtù non ci è rimasto alcun segno; non posso fare insieme che non me ne meravigli e dolga (Discorsi I proemio 3).
Mentre l’antichità viene onorata e imitata nella scultura e nelle arti, non ugualmente accade per la storia antica che è ammirata, ma non imitata, a tal punto che della v. dei regni e delle repubbliche antiche non è rimasta traccia. La v. degli antichi è negletta, estinta, espressione di una storia onorata, ma non imitata. L’antica v. potrebbe essere risuscitata se solo si prestasse, verso le storie antiche, la stessa attenzione che si riserva alle altre manifestazioni dell’antico. L’idea del valore esemplare della storia non è di certo un’invenzione di M.: occorre citare almeno Polibio, Historiae I 1; Livio, Ab urbe condita I Praefatio; Cicerone, De oratore II 9. Del resto il tema era diffuso nel dibattito quattrocentesco, in particolare in Coluccio Salutati e in Leonardo Bruni. Già nel Modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati del 1503 il Segretario fiorentino scrive: «Io ho sentito dire che le istorie sono la maestra delle actioni nostre, et maxime de’ principi, et il mondo fu sempre ad un modo abitato da uomini che hanno avute sempre le medexime passioni». Probabilmente, come suggerisce Corrado Vivanti (1997, p. 898 nota 12), l’idea dell’immutabilità della natura umana, intesa come immutabilità delle ‘passioni’, perviene a M. da Lucrezio, un autore con il quale il Segretario ha molta dimestichezza fin dalla trascrizione giovanile del De rerum natura. L’antica v. sarebbe dunque una v. imitabile poiché le ‘passioni’ che regolano i comportamenti umani, mutatis mutandis, sono sempre le stesse. Per «antiqua virtù» si potrebbe intendere la disciplina, la lotta e la fatica per lo stato e per il bene comune, sia da parte dei sovrani che dei capitani come dei semplici cittadini, sia nella forma monarchica sia in quella repubblicana. L’antica v. militare è insieme dỳnamis e aretè: è tecnica, forza e v. morale. Una sola tecnica, una sola forza e una sola v. morale. Essa rinvia non a una pluralità di modelli, ma a un solo modello antico da far risuscitare attraverso la lezione che si ricava dallo studio della storia romana.
In Discorsi II xvii 33 leggiamo:
Quanto alla terza cosa detta da costoro, che non si possa venire alle mani e che la guerra si condurrà tutta in su l’artiglierie, dico questa opinione essere al tutto falsa, e così fia sempre tenuta da coloro che secondo l’antica virtù vorranno adoperare gli eserciti loro.
E in chiusura di capitolo:
Conchiuggo pertanto, venendo al fine di questo discorso, l’artiglieria essere utile in uno esercito quando vi sia mescolata l’antica virtù, ma, sanza quella, contro a uno esercito virtuoso è inutilissima (§ 45).
Il modello della «antica virtù» militare fondata sullo scontro fisico diretto, con un’esaltazione del ruolo della fanteria a detrimento della cavalleria, si contrappone al recente e dilagante uso delle armi da fuoco considerate da M. insufficienti se non corroborate dall’antica capacità militare. Le artiglierie offuscano l’«antica virtù», come sostiene a più riprese M., anche se con esse bisogna fare i conti. Al di là degli aspetti particolari, per cui → artiglieria, ciò che a noi interessa sottolineare è la recisa rivendicazione da parte di M. di un modello di v. militare fondata sulla forza del corpo e non sulla forza delle armi da fuoco, considerate una inefficace scorciatoia. In Arte della guerra III 149 M. cerca però una conciliazione tra la nuova realtà delle artiglierie e la v. antica facendo dire a Fabrizio Colonna: «Tanto che io vi conchiudo questo: che l’artiglierie, secondo l’opinione mia, non impediscono che non si possono usare gli antichi modi e mostrare l’antica virtù».
In cosa consistono gli «antichi modi» e l’«antica virtù»? Per prima cosa M. intende contestare la pratica delle armi mercenarie in uso nel suo tempo. Mancando un vincolo di solidarietà affettuosa tra il capitano e i suoi soldati, e sostituendo il vincolo virtuoso con la dipendenza dal denaro si crea un esercito incline al tradimento. E poi l’«antica virtù» è anche la prerogativa tecnica dell’esercito romano e la sua disposizione in battaglia. Ma soprattutto essa rimanda a un’ipotesi di società che prevede un vincolo stretto tra cittadino e soldato, ponendo alla base un grande rinnovamento politico con una radicata esigenza di attaccamento e di fedeltà alla patria e con un forte senso del bene pubblico. L’«antica virtù» si iscrive dunque in una dimensione etico-politica. Considerato il valore quasi esclusivamente letterario e politico dell’Arte della guerra l’«antica virtù» assume un significato ancor più esemplare appunto perché destinato a parlare alle classi dirigenti dell’Italia traumatizzata dalla fine dell’indipendenza, e non tanto ai tecnici dell’arte militare.
Nell’ottica disincantata dell’Arte della guerra, quando l’urgenza politica e l’ansia di intervento pratico lasciano il posto a riflessioni più pacate e malinconiche, ma anche più strutturate e organiche (evidenti del resto nella scelta della forma dialogica e nella destinazione a stampa dell’opera), il richiamo all’«antica virtù» assume un valore utopistico, proiettato nell’immaginario puro, senza più le ricadute pratiche e operative della scrittura politica tradizionale (Principe, Discorsi e i cosiddetti Scritti politici minori). L’utopia dell’antica v. è però ancora una volta una risposta non precettistica e non normativa, che esclude la possibilità di una vera imitatio per l’astrattezza degli schemi di combattimento prefigurati dal Segretario nei libri II e III dell’Arte, e per la mancanza di senso della realtà riguardo alla rivoluzione delle armi da fuoco. L’unico modello di v. imitabile è dunque tale solo in apparenza, proiettato in uno spazio utopistico regolato da una sorta di immaginazione operativa che riproduce i vecchi meccanismi teorici del Principe e dei Discorsi sublimando però le aporie, le contraddizioni e i dilemmi tipici di quella scrittura in una sorta di meditatio mortis sulla perfezione perduta della virtù.
Di particolare rilievo è, a questo proposito, la riflessione politica di M. sulle ragioni dell’eclissi della v. nell’Italia del suo tempo. La teoresi machiavelliana sulle cause strutturali del depauperamento della ‘capacità’ politica e militare degli italiani ha uno sbocco bifido, da un lato in Principe xxv e dall’altro nel proemio del V libro delle Istorie fiorentine. Il rapporto virtù-fortuna, ereditato dal dibattito quattrocentesco che aveva conosciuto a Firenze una specifica vitalità, viene proposto in una nuova accezione in Principe xxv con la celebre metafora del fiume e degli argini, in realtà già presente nel capitolo “Di Fortuna”, vv. 151-59, seppure con differenze. Attraverso questa immagine M., paragonando la devastante irruzione dei ‘barbari’ all’inondazione dei fiumi, sostiene – con vibrata recriminazione contro le classi dirigenti dell’Italia quattrocentesca – che la «potenza» della fortuna-fiume dilaga «dove non è ordinata virtù a resisterle», ovvero dove non sono stati preposti «ripari» e «argini» nei «tempi quieti». In questo passaggio del Principe M. ritiene che «la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che etiam lei ne lasci governare l’altra metà, o presso, a noi» configurando una teoria dell’equa spartizione tra ‘dominio della capacità’ e ‘dominio della sorte’. La riflessione machiavelliana parte dalla volontà istintiva di sconfessare l’antica «opinione che le cose del mondo sieno [...] governate da la fortuna e da Dio» (cfr., per es., Cicerone, Tusculanae disputationes v 9-25: vitam regit fortuna, non sapientia, «la fortuna guida la vita, non la sapienza»), con la volontà di reagire anche a una ‘morale della rinuncia’ serpeggiante nella tradizione popolare fiorentina. Da questa ‘reazione’ scaturisce l’affermazione di un potenziale di v. colpevolmente non sfruttato da chi era preposto alla salvaguardia dell’indipendenza italiana, secondo un rapporto elastico tra v. e fortuna riscontrabile anche in Discorsi II xxx 32: «dove gli uomini hanno poca virtù, la fortuna mostra assai la potenza sua; e perché la è varia, variano le repubbliche e gli stati spesso».
Uno sbocco completamente diverso è invece contenuto nel proemio del V libro delle Istorie fiorentine, concepito circa dieci anni dopo, fuori dalle urgenze militanti proprie dell’opuscolo. Il V libro delle Istorie analizza la politica estera fiorentina tra il 1434 e il 1440 segnando una svolta nella narrazione storica fino a quel punto condotta da Machiavelli. L’autore abbandona la dimensione municipale per innalzarsi a un livello italiano più generale, con il pretesto di seguire la politica estera di Firenze, e tralascia simultaneamente anche il criterio della ‘lotta di classe’ per l’analisi dei contrasti e dei movimenti storici optando per diversi criteri interpretativi. Nel proemio del V libro M. prospetta un movimento della v. degli Stati che segue un andamento circolare transitando dal «bene» al «male» e dal «male» al «bene» dal momento che la v. «partorisce quiete, la quiete ozio, l’ozio disordine, il disordine rovina; e similmente dalla rovina nasce l’ordine, dall’ordine virtù, da questa gloria e buona fortuna» (§ 2), secondo una specie di ‘teoria dei cicli storici’ in qualche modo imparentata con l’anakỳklosis di Polibio e risalente, in ogni caso, alla teoria della ‘traslazione in cerchio’ che descrive il moto degli eventi delineata da Aristotele in Fisica IV 14, 223b. La presenza di movimenti esterni alla volontà dell’uomo e degli stati in grado di dislocare la v. attraverso meccanismi di ‘dispersione’ e ‘spegnimento’ non compare per la prima volta in questa sede (si pensi al capitolo “Di Fortuna”, al proemio di Discorsi II o al II libro dell’Arte della guerra), ma trova nel proemio del V libro delle Istorie una configurazione teorica esplicita. La questione della pertinenza o meno di questo passaggio alla teoria della translatio imperii, filtrata dal De fortuna Romanorum di Plutarco e dai Punica di Appiano Alessandrino o risalente al libro di Daniele, per la quale la v. – seguendo un disegno imperscrutabile – transita da una realtà storico-geografica all’altra in parallelo al movimento di ascesa e caduta degli Stati, è tema spinosissimo perché inserisce il ruolo della v. all’interno di un disegno superiore di tipo siderale, esterno alla volontà degli uomini. Questa prospettiva ha divaricato le posizioni degli studiosi: da un lato Gennaro Sasso fermamente contrario (1993, p. 51 nota 9); dall’altro Vivanti (1997, p. 999 nota 7, e 2005, p. 754 nota 5) che ha rilanciato il nesso fra ‘teoria della traslazione della v.’ e ‘teoria della successione degli imperi’ di origine greca (supportato anche da Cervelli 1998).
Bibliografia: F. Gilbert, On Machiavelli’s idea of virtu, «Renaissance news», 1951, 4, pp. 53-56; G. Sasso, Niccolò Machiavelli. Storia del suo pensiero politico, Napoli 1958, Bologna 1980; H.C. Mansfield, Machiavelli’s virtue, Chicago-London 1966, 19962; N. Wood, Machiavelli’s concept of virtù reconsidered, «Polit ical studies», 1967, 15, 2, pp. 159-72; R. Price, The senses of virtù in Machiavelli, «European studies review», 1973, 3, pp. 315-45; J.G.A. Pocock, The machiavellian moment. Florentine political thought and the atlantic republican tradition, Princeton 1975 (trad. it. in 2 voll., Bologna 1980); F. Adorno, Fortuna e virtù in Machiavelli e in Aristotele. Una barba del Machiavelli, «Atti dell’Accademia pontaniana», n.s., 1980, 29, pp. 325-39; V. Kahn, Virtù and the example of Agathocles in Machiavelli’s Prince, in Machiavelli and the discourse of literature, ed. A.R. Ascoli, V. Kahn, Ithaca-London 1993, pp. 195-217; R. Rinaldi, Niccolò Machiavelli, autore senza destinatario, in Storia della civiltà letteraria italiana, diretta da G. Barberi Squarotti, 2° vol., Umanesimo e Rinascimento, t. 2, Torino 1993, pp. 1345-1403; G. Sasso, Niccolò Machiavelli, 2° vol., La storiografia, Bologna 1993; C. Vivanti, introduzione e commento a N. Machiavelli, Opere, 1° vol., Torino 1997; I. Cervelli, Machiavelli e la successione degli imperi universali, «Rinascimento», 1998, 38, pp. 27-79; L. Gerbier, Temps historique et virtù politique chez Machiavelli, «Chroniques italiennes», 1998, 53, pp. 61-75; Q. Skinner, Visions of politics, 2° vol., Renaissance virtues, Cambridge 2002 (trad. it. Bologna 2006); D. Taranto, Le virtù della politica. Civismo e prudenza tra Machiavelli e gli antichi, Napoli 2003; C. Vivanti, introduzione e commento a N. Machiavelli, Opere, 3° vol., Torino 2005; G. Inglese, Per Machiavelli. L’arte dello stato, la cognizione delle storie, Roma 2006; A. Capata, Il lessico dell’esclusione. Tipologie di virtù in Machiavelli, Manziana 2008; P. Vincieri, Machiavelli. Il divenire e la virtù, Genova 2011.