virtù (vertù, virtute, virtude, vertute, vertude)
Sostantivo femminile, di altissima frequenza nelle opere di D., dove indica fondamentalmente una ‛ capacità naturale a operare ', sia nel senso di ‛ disposizione ' o ‛ idoneità ' a esplicare un'azione, sia in quello di ‛ potenza ' o ‛ energia ' esplicata.
Il sostantivo latino virtus, avvertito nella sua derivazione etimologica da vir (" Appellata est enim a viro virtus ", Cic. Tusc. II XVIII 43), indicava anzitutto la " potenza " o " forza " (vis) qual è espressa dalle capacità naturali del vir (" Vir nuncupatus, quia maior in eo vis est quam in feminis: unde et virtus nomen accepit; sive quod vi agat feminam... virtus maxima viri, mulieris minor, ut patiens viri esset ", Isidoro Etym. XI II 17-19), e, per quanto attiene le qualità morali, il " coraggio " e l'" eccellenza ". Analogamente, virtus designava ogni potenza o proprietà attiva dei corpi naturali e del cosmo (" Virtus est immensitas virium in labore et pondere corporis ", Isidoro Etym. XVIII XXII, e Papia vocabulista, sub v. virtus).
In tal senso virtus traduceva, in concorrenza con potentia, il greco δύναμις nella varietà dei suoi significati (v. POTENZA). Ma il termine, in particolare, designava la " potenzialità " che una sostanza ha di realizzarsi in atto, intendendo tale potenzialità come ‛ attività incipiente ' intrinseca e latente nella sostanza, ovvero la " capacità operativa " derivante da detta potenzialità e idonea a conseguire la perfezione dell'atto, e quindi ‛ attività esplicata ', ‛ potenza attiva ', ‛ forza '. Il termine, pertanto, individuava il principio di attività di una sostanza, la ‛ operazione propria ' di essa. Di qui, la nozione di v., oltre che l'energia interiore di una sostanza, passava a designare anche la capacità di esplicare tale energia " ad extra ", cioè la capacità di produrre effetti in un paziente, provocando in quest'ultimo un passaggio dalla potenza all'atto. In tal modo la nozione di virtus veniva disciplinata e adeguata ai principi della filosofia aristotelica.
La nozione di virtù in Dante. - È a questi principi che D. si riferisce in Cv IV XVI 7 nell'affermare, sulla base di Aristotele (Phys. VII 3, 246a 13 ss.), che la perfezione (cfr.) di ogni essere o natura particolare coincide con il raggiungimento della sua virtude propria, cioè con l'attuazione completa delle ‛ potenzialità proprie ' alla sua natura (Questa perfezione intende lo Filosofo nel settimo de la Fisica quando dice: " Ciascuna cosa è massimamente perfetta quando tocca e aggiugne [cioè tocca il finale compimento] la sua virtude propria, e allora è massimamente secondo sua natura [in conformità ai principi formali]; onde allora lo circulo si può dicere perfetto quando veramente è circulo ", cioè quando aggiugne la sua propria virtude; il termine ricorre ancora al § 8). Il compimento della v. coincide pertanto con l'attuazione delle ‛ proprietà essenziali ' presenti potenzialmente nella sostanza. Ma tale attuazione presuppone un processo al quale la stessa v. coopera in quanto ‛ principio intrinseco di moto e di azione ' (la vertù dee muovere le cose sempre al migliore, cioè al bene della perfezione formale, Cv I VIII 9): essa muove e orienta le operazioni idonee al conseguimento della perfezione dell'atto cui ogni essenza è per natura ordinata.
La v. pertanto è media tra la sostanza, di cui esprime le proprietà essenziali, e le operazioni mediante cui tali proprietà si attuano e di cui la stessa v. è principio attivo. Tra forma specifica da un lato e v. e operazione dall'altro sussiste un solido legame ontologico: se la prima è ragione dell'essenza (o ‛ principio formale '), la seconda è ragione di conoscenza di tale essenza, in quanto dagli atti operati si deduce il principio formale da cui deriva.
In tal senso D. afferma in Pg XVIII 49-54 che ogni forma sustanzial, sia essa separata o unita alla materia, accoglie in sé specifica vertute (v. 51) - cioè una ‛ proprietà essenziale ' conforme all'essenza della specie cui quella forma appartiene (v. SPECIFICO) - che è al contempo ‛ capacità operativa ', ed è perciò conoscibile solo allorché opera, passando dalla potenza all'atto e producendo effetti (la qual [virtù] sanza operar non è sentita, / né si dimostra mai che per effetto, vv. 52-53; per il rapporto v. - operazioni vedi anche Cv I VIII 7 e 12, IV Le dolci rime 83, VI 13, XVIII 5, XXII 18, Rime LXXXIII 72, LXXXIX 14, Pg XVII 104, Pd XVIII 60). Se dunque ogni v. si attua e si conosce attraverso gli effetti provocati dalla sua operazione, ove si diano operazioni ed effetti tra loro diversi, bisognerà concludere che essi sono esplicazioni di v. o ‛ proprietà essenziali ' diverse, le quali dovranno, di conseguenza, derivare da forme specifiche differenti (Virtù diverse esser convegnon frutti / di princìpi formali, Pd II 70, e v. anche FORMALE; sostanza). Viceversa, se si postulasse una v. unica suddivisa in diversi individui di una stessa specie, la differenza non deriverebbe più da proprietà o qualità essenziali diverse, bensì soltanto da una diversa quantità o ‛ intensità ' operativa di tale v. (Se raro e denso ciò facesser tanto [cioè di diversificare la v. illuminante dei cieli], / una sola virtù sarebbe in tutti, / più o men distributa e altrettanto, Pd II 68). Nei corpi celesti, pertanto, la v. che piove unica e semplicissima da Dio, si ‛ diversifica ' e ‛ specifica ' a seconda della materia a cui conferisce forma e vita (Virtù diversa fa diversa lega / col prezïoso corpo ch'ella avviva, Pd II 139) e con cui costituisce un composto o sinolo (virtù mista, v. 143).
Più generalmente, in quanto principio di attività, la v. si pone come ‛ tendenza naturale ' di ogni essenza creata ad attuare la propria natura entro l'ordine universale. Essa è cioè v. ‛ informante ' e ‛ generativa ', in cui viene a effetto il potere virtuale della forma nativa (v. FORMA) ma in quanto ‛ prende norma ' e ‛ rimanda ' (rammenta) a Dio prima v. e primo motore (e da lui si rammenta / quella virtù ch'è forma per li nidi, Pd XVIII 111).
Ma perché questa tendenza naturale all'ordine universale e alla propria perfezione (cfr. la virtù di quella corda di Pd I 125) divenga acquisizione permanente, occorre la ripetizione costante delle operazioni conformi all'attuazione della propria natura. La v., in tal modo, da ‛ naturale ' si rende ‛ acquisita ' o ‛ abituale ', essa diviene habitus, seconda natura (v. ABITO) o atto secondo (v. ATTO), cioè acquisizione e disposizione permanente ad attuare, ove richiesto, la perfezione della forma, onde dicemo alcuno virtuoso, non solamente virtute operando, ma l'abito de la virtù avendo (Cv III XIII 8). Qui la v. diviene specificamente v. morale in quanto l'abito permanente ad attuare la v. e, con essa, la perfezione della natura umana è null'altro che la potenza di poter... svegliare la filosofia o sapienza e di ridurla all'atto de la speculazione §§ 5-7; cfr. Rime LXXXIII 79) in cui consiste la vera perfezione della nostra forma (ragione).
La virtù divina. - V. naturale, abituale o morale traggono tutte origine dal principio stesso della v., che è Dio. Dal momento che ogni potenza per essere ridotta all'atto richiede l'azione di un agente già in atto, ogni v. attuata o in via di attuazione presuppone la v. attuante di un agente superiore che, in tal modo, trae e assimila a sé il paziente.
Anche l'esplicazione della v. ricade dunque entro lo schema gerarchico degli agenti superiori e dei pazienti inferiori, delle cause e degli effetti. L'operare delle essenze è subordinato anch'esso all'ordine scalare dell'essere. Per tale ragione la v. delle realtà inferiori richiama e richiede la v. delle sostanze superiori, via via sino a Dio da cui ogni v. e ogni atto procede (cfr. il già citato Pd XVIII 111).
Da questo punto di vista il manifestarsi della v. è anzitutto ‛ discesa ' della v. del superiore sull'inferiore, è un ‛ procedere ' dalle cause agli effetti, dalle forme in atto alla materia predisposta e in potenza. Dice infatti D.: discender la virtude d'una cosa in altra non è altro che ridurre quella in sua similitudine; sì come ne li agenti naturali vedemo manifestamente che, discendendo la loro virtù ne le pazienti cose, recano quelle a loro similitudine tanto quanto possibili sono a venire (Cv III XIV 2). Qui v. è, a un tempo, " capacità operativa " ed " energia attivante " attraverso cui un ente in atto trasmette il proprio potere genetico a un paziente, sollecitandolo a passare dalla potenza all'atto. Ciò avviene grazie a un processo di ‛ riduzione ' (reditus) e di ‛ assimilazione ', commisurato alla ‛ capacità potenziale ' o ‛ disposizione ' del paziente (tanto quanto possibili sono a venire) a ricevere l'influenza. Analogo è l'esempio del sole che, discendendo lo raggio suo qua giù, reduce le cose a sua similitudine di lume, quanto esse per loro disposizione possono da la [sua] virtude lume ricevere (XIV 3). È questo, in senso cosmologico, il valore di v. come principio primordiale che si esplica in energia vivificante (cfr. vita e vertù di Rime LXXXIII 100). Essa è avvertita come manifestazione invisibile ma sensibile dell'essere, anima mundi in grado di muovere sé stessa e il mondo e di trasformarsi in potenze, facoltà, forme originarie che rendono la materia gravida e capace di produrre.
In quanto espressione di potenza cosmica, la v. diviene attributo eminentemente di Dio, causa prima e agente universale. La capacità ‛ causativa ', ‛ produttiva ' e ‛ creativa ' di Dio s'identifica infatti con la virtù divina. Dio, afferma D., è prima simplicissima e nobilissima vertude, che sola è intellettuale (Cv III VII 5), prima e nel tempo e nel grado, simplicissima in quanto assolutamente immista da materia, unica e omogenea, nobilissima in quanto dotata in grado supremo di energia attuante e di bontà; tale primalità ontologica, di cui la v. è espressione, è fondata sull'essenza puramente intellettuale e autocosciente di Dio (v. INTELLETTUALE, e Cv IV XX 10 somma e spirituale virtude).
Appunto perché anteriore al tempo e culmine della gerarchia delle cause, prima virtù (Pd XXVI 84) designa Dio (in Rime CII 49, Vertù è detta prima che tempo, / prima che moto [cioè anteriore alla creazione che iniziò col moto dei cieli: cfr. Cv III XV 15] o che sensibil luce, che è espressione sensibile della v. creante di Dio). In tal senso virtute o prima virtù è attributo appropriato al Padre, prima persona della Trinità, sommo atto e somma potenza da cui ogni perfezione deriva (If I 104, Pd XIII 80, e ancora Pg III 32).
Nella gerarchia degli esseri e delle cause, Dio è primo essere e prima causa che da nulla dipende e da cui tutto dipende. In forza della sua onnipotenza egli infonde v. a tutte le cause e gli esseri subordinati. Ma in quanto esplicazione di somma perfezione la virtù divina è anche infusione di divina bontade (cfr. anche Cv IV XXI 2); essa discende da Dio agli agenti subordinati secondo, un processo di graduale contrazione, limitazione e differenziazione, in modo tale che diversamente si riceve da parte degli esseri inferiori, a seconda cioè della loro disposizione a patirne l'azione (Cv III VII 2 e IV XX 10; in questo senso la somma sapienza, con divino artificio, virtù comparte a seconda dei gradi di realtà che essa informa, If XIX 12).
Quanto alla disposizione a patire la v. divina da parte delle essenze inferiori, D. afferma che ciascuna cosa riceve da quello discorrimento [cioè la ‛ discesa '] secondo lo modo de la sua vertù e de lo suo essere (Cv III VII 3), dove la v. del ricevente indica la ‛ capacità potenziale ' del proprio essere e l' ‛ attività incipiente ' che coopera con la v. divina per il conseguimento dell'atto.
La ‛ discesa ' della v. divina si realizza infine come discesa di luce. Dio primo agente imprime la sua virtù negli esseri sia per modo di diritto raggio sia per modo di splendore reverberato (Cv III XIV 4). A seconda del grado di partecipazione alla luce-bontà-v. di Dio, gli esseri sortiscono la loro collocazione nell'ordine universale. Le intelligenze, derivando la luce-v. immediatamente (per modo di diritto raggio) da Dio, si pongono come mediatrici di essa e perciò la riflettono sulle realtà inferiori che la ricevono per modo di splendore reverberato. La scala degli esseri si dispone così dall'essere più partecipe fino a quello meno partecipe della v. e bontà divina.
Ciò che deriva sanza mezzo da tale v. e bontà, libero è tutto in quanto libertà è piena conformità all'intenzione di Dio. Difatti gli enti creati immediatamente da Dio sono più conformi all'intenzione dell'agente universale ed esplicano nel grado più alto la simiglianza con lui (cioè la più perfetta attuazione del loro essere) senza la mediazione della virtute de le cose nove, cioè l'influenza delle cause seconde o cieli (Pd VII 72). Di qui l'eccellenza di tutto ciò che subisce sanza mezzo la divina virtù in quanto da essa è direttamente attratto a sua similitudine (Cv III XV 6; da tale diretta discesa dipende l'assimilazione alla natura angelica: VII 7, XIV 9 e ancora Cv III Amor che ne la mente 37, ripreso in V 2 e XIV 2 [prima occorrenza]).
Inoltre, poiché tale discesa è manifestazione della sovrabbondante v. e bontà di Dio, ove un essere abbia attuato in sommo grado la simiglianza con lui, è fatto segno di un dono gratuito di v. divina oltre 'l dimando di nostra natura, cioè eccedente la capacità naturale del ricevente (Cv III Amor che ne la mente 28, VI 10 [dov'è detto che Dio soperchia il ricevente in dono e in beneficio di vertù], XIII 9; per contrasto, in Cv II VII 9 è detto del difetto di vertù da parte del pensiero di origine umana rispetto a quello di origine divina).
In tal senso ogni manifestazione di v. nel mondo ultraterreno è segno dell'energia sovrabbondante di Dio che potenzia di sé ogni v. creata e la rinnova. Essa è potenza superaddita da cui l'uomo si sente - nei propri poteri naturali - agito (If XII 91 virtù per cu' io movo / li passi; Pg VII 24 virtù del ciel mi mosse), integrato (Pg I 68 de l'alto scende virtù che m'aiuta; Pd XXX 57 me sormontar di sopr'a mia virtute) e rafforzato (Pg III 98 non sanza virtù che da ciel vegna / cerchi di soverchiar questa parete, dove il soverchiar richiama il necessario dono e beneficio di v. ‛ sovrabbondante ' da parte di Dio: v. SUPERILLUSTRANS). Analogamente, il venir meno della luce solare come segno di luce divina provoca in Pg XVII 73 lo scemare della v. ‛ forza organica ' (possa de le gambe) di Dante.
Nei beati la v. divina si manifesta come moto e luce (Pd XVIII 119, XXI 85) e, nella figurazione di Cristo " sol invictus ", è potere radiante di luce e di bene (benigna vertù, XXIII 85) che informa gli spiriti splendenti e sovrasta con la sua possanza ogni capacità umana (XXIII 36). Essa, inoltre, è segno dell'onnipotenza di Dio la cui giustizia rimane occulta alla ragione (Pg III 32). Di qui la pregnante gravità di bestemmiare la virtù divina (If V 36) da parte dei lussuriosi, che quella v. non seguirono come ‛ tendenza naturale al bene ' e della quale, ora, avvertono il ‛ potere ' soverchiante. Attraverso la metafora di Apollo, divina virtù (Pd I 22) diviene sinonimo di ‛ potenza ispiratrice ' che s'impossessa dell'ingegno poetico, trasformandolo e dotandolo di poteri oltre natura. In Pd XXXII 81 la grazia salvifica di Dio si manifesta come potere giustificante (virtute), conferito dal rito della circoncisione ai fanciulli.
La virtù celeste. - La v. divina, in quanto attuazione d'infinita bontà, è in primo luogo conferimento di essere alle creature e, in secondo luogo, mantenimento in essere delle stesse. Tale duplice azione, creante e assistente, è svolta, ove non si dia intervento immediato di Dio, dalle cause seconde, cioè i cieli. Essi distribuiscono e partiscono la bontà e v. di Dio sul mondo sublunare attuando la potenza della materia. La v. dei cieli s'identifica così con l'operare delle cause seconde che attuano e perfezionano le creature terrene conferendo loro la ‛ forma ' o ‛ natura specifica ' e, con essa, la v. che da quella ‛ forma ' consegue.
Il disegno provvidenziale di Dio, come fine universale al bene, si traduce anzitutto in virtute motrice e perfezionatrice dei cieli (Lo ben che tutto il regno che tu scandi / volge e contenta, fa esser virtute / sua provedenza in questi corpi grandi, Pd VIII 98). Il passaggio da cielo a cielo del moto e della v. come pienezza di essere e capacità d'influire (II 127) avviene per l'azione emanante (spiri) delle Intelligenze (beati motor) in un rapporto di artefice a strumento (come dal fabbro l'arte del martello, vv. 128-129; Vertute, al suo fattor sempre sottana, ricorda D. in Rime CVI 27). Le Intelligenze, infatti, valendosi della loro stessa virtù motrice (o vertù del motore del cielo, Cv IV XXI 5), influiscono sulla natura passiva dei cieli non per contatto materiale ma per tatto di vertù, cioè per influenza od operazione intellettiva (intendendo), che è incorporea e spirituale (II V 18). per le V. come gerarchia delle intelligenze angeliche (§ 6, Pd XXVIII 122), vedi GERARCHIA ANGELICA.
La v. di ogni cielo è proporzionata alla nobiltà dei suoi movitori (Cv II VI 10, e cfr. VIII 4 per gli effetti terreni che ne conseguono) e all'ampiezza della loro sfera, proprio in quanto dalla minore o maggiore informazione della loro materia dipende la minore o maggiore pienezza del loro essere e della loro influenza (Pd XXVIII 65 e 73). Nella v., quindi, i corpi celesti trovano una regola intrinseca del loro ordinamento. Infatti, quanto più ampia è l'orbita descritta da una sfera celeste, tanto più essa è veloce, ma quanto è più veloce tanto più opera, e quanto più opera tanto più attua la propria forma o natura, e poiché la v. è manifestazione operante della forma, quanto più nobile o perfetto è l'essere di questa forma, tanto maggiore sarà la sua v. (Cv II III 15, dov'è detto che le stelle più veloci del cielo Stellato sono più piene di vertù; e cfr. Pd XVIII 58-63 per l'effetto della maggiore ampiezza e perfezione dei cieli sulle anime dei beati).
Ma dal momento che il moto è tendenza naturale alla perfezione e al bene, tale tendenza si risolve in ‛ amore ', e la perfezione conseguita in ‛ sapienza ' (cfr. Pd XXVIII 70-72). Da tutto ciò la maggiore nobiltà del Primo Mobile (v.) che, posto in immediato contatto con la mente divina, per essa avverte la massima appetizione o ‛ amore ' il quale si attua in movimento e in virtù operante e influente (Pd XXVII 111). Questa v. è di tale energia (II 113) da poter influire su tutti gli enti subordinati, ha cioè in sé un potere causale pari all'esplicazione di tutti gli effetti conseguenti; per questa ragione in essa l'esser di tutto suo contento giace (v. 114), cioè è posto il fondamento ontologico (l'esser... giace) di ogni grado di realtà contenuto entro la sfera del cielo cristallino. Da questa superiore energia causale consegue la capacità del Primo Mobile di regolare il moto diurno dei cieli per il quale essi ricevono [e mandano] qua giù la vertude di tutte le loro parti (Cv II XIV 15 e 16).
La v. celeste è così a un tempo perfezione di essere derivata dal cielo superiore e potere operante impresso nel cielo inferiore e che si esercita, per gradi, fino al mondo sublunare.
I cieli si presentano così come un insieme organico che articola e distribuisce al proprio interno la v. che deriva da Dio, disponendola a influire sulla materia come un sigillo sulla cera. E poiché quanto meglio è disposta la causa ad agire e la materia a patire, tanto migliore è il risultato dell'azione informante, così, ove i cieli fossero in congiunzione tale da esercitare il massimo potere di cui è capace il loro essere (virtù supprema, Pd XIII 74) e la materia fosse disposta ad ‛ accogliere ' o patire pienamente l'effetto di tale potere, allora la luce del suggel, cioè la v.-bontà-luce di Dio, trasparirebbe tutta nella pienezza degli effetti naturali. Viceversa questa stessa ‛ pienezza di essere ' e ‛ capacità operativa ' (virtù, Pd X 17) - se venisse meno la provvidenziale obliquità dell'eclittica che determina l'armonico influsso dei pianeti - sarebbe in gran parte in vano, in quanto non avrebbe modo di esercitarsi pienamente sulla potenza della materia, lasciandola quasi del tutto inattiva (morta).
La virtù nel mondo sublunare. - L'influsso dei cieli sul mondo sublunare si configura pertanto come azione mediata del potere creante e assistente di Dio il quale, impartendo loro la propria v., li rende strumenti di differenziazione e specificazione.
In tal senso la v. celeste è v. creata, in quanto cioè sorta dall'atto creativo di Dio (creata fu la virtù informante / in queste stelle, Pd VII 137) che ha reso in tal modo i cieli atti a ‛ generare ' e a ‛ dotare di forme specifiche ' (v. informante) i corpi semplici e i corpi misti del mondo sublunare (i quali appunto da creata virtù sono informati, v. 135).
In quanto informante, la v. dei cieli agisce come ‛ potere genetico e costitutivo di forme ' entro la materia predisposta dell'organismo umano, degli elementi, dei ‛ luoghi naturali ' e dei corpi composti (piante, erbe, pietre, ecc.). Si tratta qui dell'ultimo grado di specificazione, differenziazione e contrazione della v. divina che, attraverso la v. dei cieli, conferisce alle realtà terrene pienezza di essere e capacità di provocare effetti " ad extra " .
È questo il caso del ‛ luogo naturale ' che, in quanto principio attivo di generazione (v. VIRTUARE), accresce vigore e potenza a ogni corpo in esso generato (onde vedemo la calamita sempre da la parte de la sua generazione [cioè le miniere] ricevere vertù, Cv III III 3, e cfr. Rime CXIII 8). Qui vigore e potenza è anzitutto efficacia operativa indotta dalla v. celeste sul luogo naturale e, in particolare, dalla potenza fecondatrice della luce. L'influenza celeste, ricorda D., si realizza attraverso un'emanazione di luce sulle realtà inferiori, in quanto li raggi di ciascuno cielo sono la via per la quale discende la loro vertude in queste cose di qua giù (Cv II VI 9, e Rime LXXXVII 12). È infatti la luce delle stelle e degli astri (soprattutto il sole; cfr. la metafora di Pd XI 57, e v. SOLE) quella che informa di sé le piante (Rime C 41) traendole all'esistenza, o che insemina la terra con diverse virtù (cioè diversi principi formali) capaci di generare e informare diverse legna (Pg XXVIII 114). Piante e acque del Paradiso terrestre godono invece dei poteri superadditi dell'inseminazione della luce divina (Pg XXVIII 110, dove la v. che impregna l'aura è a sua volta energia fecondatrice derivata che irradia dalla pianta, e v. 127), che di tali poteri si serve anche a fini di pena (XXIII 62). In ogni caso, propria virtù della fronda è proprietà sostanziale ed energia vitale che ‛ mantiene in essere ' la pianta e le dà potere di resistere agli assalti (Pd XXVI 87).
Di qui inoltre l'importanza di conoscere la vertù de l'erbe (Cv IV IX 13, due volte), cioè d'indagare le proprietà essenziali onde indirizzarne le capacità operative a ottenere effetti predeterminati e sananti (Rime CI 20).
Nel caso delle pietre, esse patiscono l'azione della virtude proveniente da corpo nobilissimo celestiale (Cv IV XX 10, seconda occ.) restituendola - ove la materia non sia mal disposta (nel qual caso vertù celestiale ricever non può, XX 7) - con effetti di pari efficacia. In tal senso la gemma è preziosa in quanto attrae su di sé vertù di stella (Rime LXXXIX 14) e, così pure, la ‛ donna pietra ' che assorbe e contrae in sé i poteri della luce solare (Rime CII 21) li risolve in effetti di beltà difficilmente sanabili (CI 19 e cfr. CXIII 8).
Quanto all'elemento dell'aria, su di esso si esercitano elettivamente i ‛ poteri ' demoniaci, come operazioni conseguenti alla sua mala natura (per la virtù che sua natura diede, Pg V 114). Per la v. del fuoco, cfr. Rime XC 43.
Virtù e potenze dell'uomo. - Effetto privilegiato della divina sapienza è l'uomo, nel quale la divina virtute si manifesta congiungendo tre nature in una forma, mediante un armonico e mirabile complesso di vertudi (Cv III VIII 1). Tali v. o " facoltà " o " potenze ", che organizzano il corpo umano e lo rendono atto ad assumere la propria forma definitiva, sono derivazione della v. divina sia direttamente per l'infusione di Dio sia mediatamente per l'azione della natura universale (i cieli) che integra e perfeziona quella del generante prossimo.
I cieli, infatti, sono causa della ‛ generazione sostanziale ' dell'uomo (Cv II XIII 5) alla cui composizione seminale cooperano assieme al generante prossimo con un influsso combinato di virtù. Tali v. sono: la vertù del cielo o vertù celestiale che, presente nello sperma, è veicolo di calore naturale (v. CALORE) e coopera alla produzione dell'anima in vita (IV XXI 4 e II XIII 5); la vertù de li elementi legati, cioè la forza operativa della ‛ complessione ' o insieme delle qualità attive dei quattro elementi che costituiscono le ‛ proprietà essenziali ' del seme; e la vertù de l'anima generativa (IV XXI 14), cioè la potenza attiva germinale presente nello sperma e derivata dal cuore del generante per successive depurazioni del sangue (Pg XXV 37-45, e 59 la virtù ch'è dal cor del generante). Quest'ultima v. è la cosiddetta vertù formativa (Cv IV XXI 4, due volte) che, secondo il dettato del Convivio, prepara li organi del feto alla v. celeste, e secondo il Purgatorio (XXV 41 virtute informativa), opera direttamente alla formazione del feto (vv. 49-72) e in tal senso è detta virtute attiva (v. 52).
La capacità attiva e informativa di questa v. si manifesta come forza germinale del seme che suscita, orienta e regola lo sviluppo dell'embrione, articolandone dapprima la materia e dotandolo della forma o anima vegetativa (Pg XXV 52-53) e, successivamente, della sensitiva (vv. 55-56).
Peraltro, il potere germinale della v. formativa è tale che, venuto meno il corpo, essa può operare a mo' di luce, organizzando e conformando in ‛ corpo aereo ' le potenze più alte dell'anima, recate in cielo nello stato di ‛ incipiente potenzialità ' (in virtute) dopo la morte (vv. 80, 89 e 91-108).
Giunta a compimento la sua operazione, interviene infine la vertù del motore del cielo (Cv IV XXI 5), cioè l'azione causale di Dio attraverso il motor primo (Pg XXV 70-75), che infonde l'anima razionale o intelletto possibile (cfr.) il quale esercita anch'esso - come vertude intellettuale (Cv IV XXI 7) - un'azione che attrae e assimila a sé le potenze dell'anima vegetativa e sensitiva (per tutto quanto precede, v. ancora ANIMA; forma; formativo; seme).
Le potenze dell'anima sono dunque pienamente attuate solo dalla v. infusa da Dio, che è loro fonte e causa suprema. È infatti con l'infusione del soffio vitale di Dio (spira) che sorge nell'uomo spirito novo, di vertù repleto (Pg XXV 72), cioè la vertude intellettuale possibile o intellettuale vertude (Cv IV XXI 7 e 8), intesa come potenza spirituale e germinale che contiene in sé ‛ virtualmente ' e ‛ potenzialmente attivate ' le ‛ ragioni seminali ' o forme eterne di conoscenza (in senso analogo la mente di Domenico fu repleto di viva vertute, Pd XII 59; mentre all'influenza celeste nella generazione è dovuta la celebrazione dei Gemelli da parte di D. nella cui luce piena di essere e di potere operante [o lume pregno / di gran virtù, Pd XXII 113] egli riconosce il principio informante del suo ingegno e integratore delle sue capacità o potenze dell'anima, v. 122). Anche in questo caso, è dall'armonia e dal potere delle v. agenti e dalla più o meno perfetta disposizione della materia a patirne gli effetti, che dipende la possibilità per l'anima di esser posta più o meno perfettamente in atto, e di conseguire in tal modo perfezione di essere e nobiltà conforme alla propria natura (Cv IV XXI 7-8 e 10, XX 7-8 e 10).
Le v. in tal modo acquisite divengono la struttura stessa dell'anima (la quale dibrancasi per le vertuti vegetativa, sensitiva e razionale, Cv IV XXIII 3) e i poteri attraverso cui si esplica, cioè " operazioni " e " facoltà " .
D. specifica che l'anima attua la sua perfezione attraverso l'esercizio di tali v., e cioè la vertude sua propria corrispondente alla v. animale (vegetativa e sensitiva), l'intellettuale corrispondente alla v. razionale o intelletto possibile in quanto capace di subire l'illuminazione e progredire verso il proprio atto, e la divina in quanto perfetta attuazione delle forme universali che l'intelletto possibile adduce con sé ‛ potenzialmente ' (Cv IV XXI 9, per cui cfr. Liber de causis prop. 3, e Alb. Magno Nat. et orig. animae II 2).
Anche se " facoltà " o " potenze " dell'anima, dette v. si esercitano mediante il corpo, divengono cioè v. ‛ organiche ' perché legate alla funzione di un organo del corpo. Tale è ad esempio la virtù organica della fantasia (cfr.) che è la vertù da la quale l'intelletto trae quello ch'el vede (Cv III IV 9; qui, di nuovo, il termine v. designa non soltanto la " potenza " o " facoltà " in quanto capacità organica ma anche l'operazione da essa esercitata, la forza o energia che da essa promana). Così l'imaginazione è in grado di dare vertù all'amore (Vn II 7; v. anche IMAGINAZIONE) o di subirla in proporzione alla v. dell'imagine (II 9). Così pure la facoltà appetitiva, o desiderio, può esercitare tanta vertude da ‛ uccidere ' e ‛ distruggere ' ogni immagine prodotta dalla memoria (XV 2, seconda occ.). Analogamente, la sensibile virtude, corrispondente alla parte del cerebro dinanzi (‛ senso comune '), è quella che riceve le impressioni dei sensi esterni (Cv III IX 9). In III IX 10 virtù visiva, secondo la teoria platonica, è intesa come vera e propria energia che promana dagli occhi e suscita l'oggetto visibile. In II XII 24 l'effetto della musica è attribuito a un'attrazione degli spiriti umani e della virtù di tutti verso l'udito.
Ogni potere organico si manifesta quindi in operazioni e v., che hanno la funzione di ‛ mantenere in essere ' il composto umano. Ogni diminuzione di v. è pertanto diminuzione, in qualche misura, di capacità vitale che ha come limite la disgregazione e la morte, mentre ogni potenziamento si traduce in accrescimento e pienezza di essere. Di qui la correlazione di v. con ‛ salute ', ‛ potenza ', ‛ valore ', e l'opposizione con ‛ disgregazione ', ‛ morte ', ‛ confondere ', ‛ dileguarsi ', ‛ mancare ', ‛ spegnere '. In tale accezione v. può passare a designare l'intiero complesso delle potenze e delle facoltà razionali e organiche che definiscono lo stato di essere dell'uomo.
In Cv III IX 16 D. parla di vertù disgregata della vista, poi ‛ riunita ' e risanata tanto da essere reintegrata nel primo buono stato. Così, una v. di potere soverchiante può ottundere e diminuire quella visiva (Pg VIII 36; sempre con riferimento alla v. degli occhi, vedi Pd XIV 82, e Pg XVII 54) o integrarla per concederle poteri superiori a quelli umani (Pd XXXIII 25).
Analogamente, la virtude stanca può essere ricostituita o per effetto di un superiore potere vivificante (If II 130) e divenire da tramortita ‛ ravvivata ' (Pg XXXIII 129), o per effetto naturale, cioè per il rinvenire della v. vitale mista al sangue, che dal cuore torna alle membra (XXXI 91). L'anima stessa, infine, può venire assorbita dall'operazione preponderante di una v. tanto da tralasciare ogni altra potenza (IV 2, e cfr. Cv III VIII 10).
Uno stato di perfetta reintegrazione delle nostre virtù (Pd I 56), cioè di pienezza di essere, è quello goduto nel Paradiso terrestre, in quanto ‛ luogo naturale ' (proprio) dell'umana spece secondo il disegno divino, perduto in seguito alla colpa di Adamo; di qui la disparità tra ciò che è licito là, che qui [sulla terra] non lece, vale a dire tra le energie e poteri nativi dello stato edenico e quelli depotenziati dello stato terreno, decaduto e corrotto.
Ogni v. o facoltà dell'anima o del corpo, in quanto derivante dallo stato di natura terrena, è perciò finita e incapace di conseguire tutto ciò che la volontà richiede (Rime XCI 9). Peraltro, il venir meno delle v. implica un ridotto dominio delle facoltà e, con esse, del loro libero esercizio (Vn XV 1 e 2) che è strumento del volere. La stessa volontà, dunque, in quanto facoltà operativa è v. (e da D. definita la vertù che vole); anch'essa è segnata da limiti di natura sia perché soggetta alla ‛ signoria ' di v. superiori (Rime CXVI 33) o alla forza delle passioni (Pg XXI 105), sia perché ha in sé stessa la regola della propria attuazione (cioè la perfezione) che obbliga a porre freno a quelle operazioni che deviino da tale regola (Pd VII 25).
Culmine delle potenze dell'anima e delle facoltà organiche sono le vertudi presenti nella ragione, nobilissima parte de l'anima (Cv III II 15), le operazioni cioè attraverso cui essa si attua come forma specifica del composto umano e che corrispondono alle v. diano-etiche (vedi oltre). Questo insieme di operazioni perfettive fa sì che la ragione stessa sia detta virtù che ha più nobilitate (Rime LXVII 74) e segno di derivazione divina (Fiore XXV 9).
Alle v. come esplicazioni della ragione è legato il tema della conoscenza, della scienza e della verità. Qui v. passa a designare l'operante realizzazione dell'essenza umana e quindi, prevalentemente, v. etica e, correlativamente, v. dianoetica. Proprio della natura razionale è infatti indurre l'uomo all'amore della veritade e della virtude, in quanto la verità (cfr.) è fine e regola di conoscenza e la v. è attuazione della ragione e della volontà in conformità a tale fine (Cv III III 11 e 12; di qui la diversità tra uomo e bruto, Rime CVI 22-23 e If XXVI 119). Analogamente il commento del Convivio è inteso a inducere li uomini a scienza e a vertù (I IX 7), in quanto la manifestazione della verità avvia l'uomo alla sua ultima perfezione (la scienza) mediante il perfetto compimento dei poteri della sua essenza.
Da ciò deriva l'uso in malam partem dell'appello di Ulisse che, fondato su rette premesse, induce poi - attraverso le false apparenze della persuasione retorica - a un atto che quelle premesse contraddice: Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza (If XXVI 120). L'attuazione della natura umana (semenza) è, in effetti, sviluppo e secondamento (seguir) delle potenzialità e proprietà sostanziali (virtute) in vista del perfetto compimento dell'essenza razionale (canoscenza). Ma qui l'appello - il cui fascino retorico è tutto nella v. esaltata come principio di attività, impulso naturale all'atto, " virtus operandi " e, perciò, ‛ coraggio ' - mira a un fine che, travalicando la retta ragione, snatura e annulla il potere perfettivo della virtù. L'impulso naturale è qui condotto oltre i termini della perfezione secondo natura, trasmodando nella temerità. Non a caso il tema era stato anticipato, per antitesi, al v. 22 con l'esempio dell' ‛ ingegno ' operante entro i limiti della propria perfezione, in quanto conforme alla norma della virtù come attuatrice di bene.
In una serie di occorrenze notevoli il termine v. riassume, con valore pregnante, il senso di facoltà naturali dell'uomo in quanto capaci di perfezione, ovvero di perfezione naturale attuata (quale compimento pieno delle v. organiche, morali e intellettuali) e di ‛ coraggio '.
Così, nel Pater noster di Pg XI, Nostra virtù che di legger s'adona (v. 19) indica il complesso delle capacità naturali dell'uomo in quanto suscettibili di perfezione, ma il cui raggiungimento, ove non intervenga l'ausilio divino, è posto continuamente in pericolo dalla lotta con l'antico avversaro. Analogo il caso di If II 11 dove D. chiede a Virgilio: guarda la mia virtù s'ell'è possente; Virgilio infatti è chiamato virtù somma (X 4) in quanto esempio di v. naturale perfettamente attuata.
Sul piano della storia, la grandissima vertude del popolo romano (Cv IV IV 11) designa il compimento sommo delle v. anzidette, accresciuto dalla connotazione del ‛ coraggio ' e del ‛ valore militare '; l'esplicazione di tali poteri coincise con l'attuazione del suo destino imperiale. Tema, questo, ripreso in Pd VI 34, dove la virtù che rese l'Impero degno di reverenza, è il " robur " o " vigor " che sostanzia l'" auctoritas " (v. AUTORITÀ) come potere legittimo in quanto sanzionato dalla volontà divina e, perciò, degno di giusta riverenza. Tale v. è perpetuata e compendiata nella vertute dell'alto Arrigo (Pd XVII 83), ov'è emergente il valore di perfezione naturale esplicata.
Con significati analoghi, ma a più basso registro, le occorrenze di Rime dubbie XXIV 9, XXX 21 e, più genericamente, Rime CIV 97.
Virtù e parola. - Veicolo privilegiato della ragione e strumento di vera conoscenza è la parola. Essa infatti trae dalla v. della ragione la propria v. o efficacia operativa, che è in primo luogo ‛ manifestazione ' di verità. Se la vertude de la veritade... ogni autoritade convince (Cv IV III 10), tale potere operante e vincolante trova manifestazione nel segno sensibile della parola e del linguaggio (lo sermone, lo quale è ordinato a manifestare lo concetto umano, è virtuoso quando quello fa, e più virtuoso quello che più lo fa, Cv I V 12).
In tal senso il commento volgare del Convivio ha vertù di altissimi e novissimi concetti... manifestare (I X 12) perché capace di ‛ suscitare in atto ' la novità e meraviglia della vera sentenza delle canzoni le quali, anch'esse, sono d'amor come di vertù materiale (I 14), cioè amore di sapienza e v. come principio attivo e intrinseco al bene, vera ‛ causa efficiente ' di perfezione (non passione ma vertù fu infatti la movente cagione delle rime, I II 16).
Al potere ‛ emotivo ' della parola fa riferimento Vn XL 10 14 (le parole... / hanno vertù di far piangere altrui) in quanto derivato dalla forza della persuasione retorica. Al potere razionale dell'argomentazione fa invece riferimento Cv IV X 8 Ultimamente conchiudo, per virtù di quello che detto è di sopra, dove ‛ per v. ' è locuzione che allude alla forza argomentativa delle premesse che informano del loro potere la verità della conclusione. Analogo l'esempio dei matematici la cui capacità inventiva (possono ritrovare) si esplica per virtù di loro arti (V 7). Infine, la v. del dire, per manifestare nella loro pienezza le verità divine, esige a sua volta una superiore integrazione che renda a ciò atta la v. della parola umana (Pd XXX 99 O isplendor di Dio, per cu' io vidi / l'alto trïunfo del regno verace, / dammi virtù a dir com'Ïo il vidi, e il già citato I 22 ss.).
Così come nella gerarchia delle cause e delle essenze create, anche nella gerarchia dei linguaggi la v. è principio di ordine. Il rapporto di sovrano a subietto che definisce il latino nei confronti del volgare è appunto fondato sulla diversa virtù esercitata dal latino rispetto al volgare (Cv I V 7; non era subietto ma sovrano per vertù, § 11; più è la vertù sua che quella del volgare, § 12). Poiché la v. è tanto più perfetta quanto più attua il fine a cui l'essenza di una cosa è per natura ordinata, e poiché l'essenza del linguaggio è ordinata a manifestare i concetti concepiti ne la mente, essendo il latino più capace di manifestare concetti che non il volgare, avrà maggiore capacità di attuare la propria essenza. A tale superiore perfezione corrisponde, per regola di natura, superiore ‛ bellezza ' e superiore ‛ nobiltà ' (Cv I V 7).
La virtù d'amore. - Nell'attuazione della natura umana un ruolo capitale riveste la v. dell'amore e quella, strettamente connessa, della donna e della bellezza. L'amore, anzitutto, opera come potenza ed energia vitale (significativa la prosopopea di Cv II V 14 dice Venere ad Amore " Figlio mio, vertù mia... ", dove la vertù incarnata in Amore traduce il " meae vires, mea magna potentia " di Virg. Aen. I 664) che rafforza, esaltandola, o sovrasta, depotenziandola, la vita emotiva e organica dell'uomo.
L'influenza della v. d'amore entro il complesso delle capacità organiche dell'uomo avviene in forza di una reale presa di possesso e di una reale informazione delle funzioni fisiologiche del corpo umano. Recettacolo dell'amore è infatti il cuore (cfr. ad es. Cv II Voi che 'ntendendo 21, Rime LXIX 11, CXIV 13, Rime dubbie XVIII 1) il quale è sede dello spirito vitale e centro d'irradiazione di tutte le v. umane (naturale, vitale e animale) che dal cuore sono diffuse nel corpo attraverso i nervi e le vene. A trasportarle sono veicoli sottilissimi e velocissimi esalati dal sangue, cioè gli ‛ spiriti ' (v. SPIRITO) che, in tal modo, conferiscono agli organi il potere di svolgere le rispettive e specifiche funzioni.
Nel cuore, inoltre, si compiono i moti dell'animo (passioni) che, provocando una dilatazione o una costrizione, condizionano, di conseguenza, il fluire dello spirito vitale che è strumento delle v. dell'anima (in Rime L 61 i messi d'Amor, cioè gli spiriti, hanno vertù di aprire e serrare il cuore). Tra queste passioni è l'amore, la cui v. provoca una concitazione degli spiriti (poi prende Amore in me tanta vertute, / che fa li miei spiriti gir parlando, Vn XXVII 4 9) che si traduce in moto appetitivo o desiderio. Ma questo interno processo prende l'avvio dalla vista della ‛ bellezza ' della donna la cui immagine, penetrata in noi come forma intenzionale (v. INTENZIONE) e come radiazione di luce, attraverso gli ‛ occhi ', impressiona e suscita in atto l'immaginazione (v.). L'immaginazione, infine, rappresenta continuamente quell'immagine al cuore, dal cui consentimento nasce ‛ piacimento ' o ‛ diletto ' e, con esso, il ‛ desiderio ' o v. d'amore (cfr. Rime LXXX 27, XCI 41). Di qui l'importanza dell'immagine o pensiero d'amore (per la cui v. vedi Cv II XII 8 e Vn XVI 3, XXI 3 9, XXIII 2, XXXVIII 9 7, Cv II II 3, 5 [con riferimento alla vertù celestiale che lo ha determinato], VI 7; e pensiero) che è nutrito e mantenuto in essere dal cuore a prezzo delle v. organiche e del calor naturale.
Agendo, in tal modo, al centro stesso delle facoltà e potenze dell'uomo, la v. d'amore è in grado di mantenere e potenziare (da cui la connessione con salute, cfr. ad es. Rime L 13) ovvero di soverchiare e distruggere (da cui la connessione con ‛ paura ', mancamento ', ‛ morte ' e simili) i poteri naturali dell'uomo. E a seconda che venga evidenziato l'aspetto visivo-intellettuale o appetitivo-organico della sua azione, la v. d'amore passa a indicare un'energia perfezionatrice e attuante dell'essere, ovvero commotiva e vivificante dei poteri naturali.
In ogni caso, sulla base del principio metafisico dell'azione dell'agente sul paziente e della necessità di una proporzione tra di essi per il buon effetto di tale azione, la v. d'amore è posta in alternativa e in contrasto con i sensi e le v. organiche dell'uomo, in un equilibrio continuamente compromesso dalla sovrabbondanza della prima e dal difetto dei secondi. L'amore si manifesta infatti come v. soggiogante, in grado di rallentare l'opra dei sensi, in quanto la loro vertù (che è principio di quell'opra) è tutta assorbita a nutrire di sé (bruca) il pensier d'amore suscitato dalla bellezza della donna (Rime CIII 34; v. anche SENSO). Tale consunzione delle v. organiche a opera dell'amore è tanto più forte e subitanea, quanto più la passion è inattesa (nova) e potente; di qui la paura indotta dal diminuito potere operativo delle v. (ch'a tutte mie virtù fu posto un freno / subitamente, Rime LXVII 63) a cui segue il venir meno delle forze e il mancamento (sì ch'io caddi in terra).
Su questa linea è la descrizione degli effetti della v. d'amore sulle v. dell'animo, quali il confondersi (Pg XXXI 7), lo spegnersi (Rime CXVI 3), il fuggire (Pd IV 141), il rovinare (Rime dubbie XI 8, XIV 12), fino alla fatale uccisione (Rime LIX 5) e la morte (LXXXVIII 7). Contro tale v. nulla, pertanto, può la ragione o la stessa virtù dell'uomo, intesa come ‛ energia vitale ' e ‛ coraggio ' (Rime CIV 12, CXI 5). A una v. superiore ad Amore, ma di controversa identificazione, allude Rime dubbie I 13, per cui vedi AMORE e MONNA LAGIA e GUIDO ED IO.
Alla potenza d'amore occorre dunque predisporsi rendendosi atti ad accoglierne i benefici effetti. Tale predisposizione non è altro che l'armonica attuazione delle grazie e vertuti che con lo piacer di lor vincono Amore (Rime XLVII 5). Qui v. assume prevalentemente il valore di attuazione e perfezionamento dell'essere in ogni sua forma: sia per quanto riguarda la vertute naturale, cioè l'esplicazione di qualità inerenti l'essenza, sia la v. accidente (v. 10), cioè una dote o ‛ grazia ' acquisita, che si ‛ aggiunge ' come perfezionamento dell'essere ma senza legame necessario con esso.
Per questa via l'amore si manifesta come sementa... d'ogne virtute (Pg XVII 104) in quanto principio generalissimo di perfezione. Esso diviene ‛ carità ' operante, ‛ ardore in atto ' (Amore / acceso di virtù, XXII 11) che come causa agente trae in atto un amore in potenza (sempre altro accese) purché l'operazione (fiamma) della sua v. sia esplicata (paresse fora, v. 12). Di tale amore, segnato dal potenziamento della v. divina, si rende strumento Beatrice che nel Paradiso terrestre manifesta a D. l'occulta virtù (XXX 38) che da lei promana, rinnovando la potenza dell'antico amor. Tale v. è occulta in quanto il mistero della sua potenza ripropone, a un grado più alto, la capacità trasformante dell'amore universale, che è v. divina esplicata nel mondo. Un amore che, attraverso gli organi celesti, opera come bontà luce e moto attivante la perfezione e la ‛ nobiltà ' di ogni essere creato (Rime XC 1 Amor, che movi tua vertù da cielo, e cfr. Pd XXXIII 145; per la v. d'amore vedi ancora Detto 151-152 e 264; in tono tutto cortese è la vertute amorosa del bel valletto, in Fiore CXCVI 2).
La virtù e la donna. - Mediatrice e suscitatrice d'amore è dunque la donna. In lei, ove sia dotata di beltà e gentilezza (Cv IV Le dolci rime 101-102 e XVI 3, XIX 1), l'amore agisce come dolcissimo segnore che assoggetta l'uomo mediante la v. della donna (Vn IX 3 [l'amore] mi segnoreggiava per la vertù de la gentilissima donna, e, in contesto figurato, Rime CIV 5).
Anche se suo strumento, la donna può rimanere indenne dalla v. d'amore (Rime CII 2, e cfr. CXVI 71-75), tuttavia - per adempiere perfettamente al decreto d'amore - ella deve conformare la propria beltà a vertù solamente (Rime CVI 8) in quanto fine e segno della bellezza è soltanto quello di attuare la vertù che è nell'uomo come potenza di buona natura; perciò, dove manchi v. la beltà deve velarsi, poiché altrimenti il suo potere sarebbe esplicato vanamente su una materia indegna (vv. 17 e 22).
In quanto ‛ gentile ' e ‛ nobile ' la donna è già attivata e potenziata dalla v. d'amore, che si esprime in ‛ onestà ', ‛ cortesia ' e ‛ bei costumi ' (Cv III XV 14, II X 8). Questa pienezza di essere è quella che traluce nella bontà e bellezza (Vn XXVI 11 5), che ‛ procede ' dalla sua anima e che si riverbera sugli altri come sovrabbondante capacità operatrice (le sue vertudi effettive che de la sua anima procedeano, Vn XIX 18; la sua vertude ad operava ne l'altre, XXVI 9 e Cv III VII 14). La v. della donna non è dunque mero connotato morale, ma energia radiante (luce) e perfezionante (bontà), sprigionata dagli ' occhi ', dal ' viso ' e dal ‛ riso ' (Cv II VII 12, IX 6, III X 4, Rime dubbie XIV 2, XXVI 2 e 10) con poteri risananti (Pd XXVI 12) e addirittura traenti (XXVII 97).
In quest'ultimo luogo la virtù dello sguardo di Beatrice opera realmente l'elevazione di D. al Primo Mobile, in quanto v. agente e ‛ superiore ' che assimila e ‛ attrae ' a sé, elevandola, la natura del soggetto che ne patisce l'azione trasformante (analogamente in XXII 102). Così pure, in Pg XXX 41 la sua alta virtù percuote la vista di D. operando il mutamento che prelude all'ascesa paradisiaca.
La v. della donna agisce infatti sulla mente dell'uomo con processo analogo a quello che contraddistingue l'operare dell'agente sul paziente (Cv II IX 7, e cfr. DISPORRE; disposizione; agente; paziente). In particolare, a esercitarsi come forma attiva sulla materia passiva e ‛ ben disposta ', è la v. dell'immagine (o ‛ pensiero ') suscitata nell'immaginazione dell'uomo (Vn XXVII 2) e che può andare oltre i termini di natura del ricevente (Rime XC 37). Perché tale v. vada a effetto occorre, come si è visto, una proporzione tra agente e paziente, tra potenza della v. e disposizione del ricevente. Di qui l'identificazione della ‛ buona disposizione ' con la ‛ dignità ' dell'amante, in opposto alla ‛ viltà ' o ‛ villania ' di chi, simile a materia mal disposta, non è in grado di accogliere la benefica informazione della donna e di ‛ provare ' il potere della v. d'amore (Vn XIX 9 30 e 10 38). Nel degno la v. si trasforma in pienezza di essere (salute) e in nobiltà, mentre nel ‛ villano ' si risolve in distruzione e morte, in quanto incapace di sopportarne pienamente l'azione (cfr. Rime LXIX 9-11, Cv IV Le dolci rime 89-92; v. anche VIRTUOSAMENTE).
Fondamentalmente, la v. della donna indica da un lato la perfezione e l'eccellenza dell'essere in atto (espressa nella triade gentilezza-bellezza-bontà) e quindi perfezione morale, dall'altro l'operare ad extra della perfezione come potenza attiva che feconda il seme dell'altrui buona natura. Origine di tale perfezione e di tale operare è la v. divina impartita al mondo attraverso i cieli; di qui il tema dell'origine celeste della pargoletta nella cui v. è riassunta la vertute di ogni stella, cioè la v. divina qual è specificata e differenziata dal cielo Stellato (Rime LXXXVII 12).
Ma è da tener presente che tale v. divina è per un verso l'essere contenuto nell'Empireo che, ‛ partito ' dai cieli inferiori (natura universale), viene a costituire il principio della natura delle cose; per un altro verso essa è dono e grazia ‛ sovrabbondante ' ordinata alla salvezza dell'uomo e, perciò, al potenziamento della sua natura ferita. In tal senso la funzione della Donna gentile, specie in quanto personificazione di Sapienza e Filosofia, è quella di mediatrice d'illuminazione sul piano intellettuale - è cioè simbolo della partecipazione all'uomo della Sapienza che in primo luogo è di Dio e, in secondo luogo, è degli angeli - e di agente attuante, nel loro complesso, i semi delle v. morali posti nell'uomo.
La donna, quindi, manifesta in sé un potere derivato, una v. informante di cui si rende recettacolo e specchio, e che riflette negli altri nella forma delle v. morali (Cv IV Le dolci rime 110) e, comunque, nella forma di una potenza sovrabbondante che vince ogni stabilitade d'animo e stimola la potenza seminata per buona natura (Cv III I 12 [due volte] e VII 13). Nella Donna gentile D. vede perfettamente attuata la v. umana ma in una misura che, eccedendo gli stessi poteri naturali, è vera teofania, manifestazione di potenza miracolosa (miraculosa donna di vertude, Cv III VII 12, e Pd XXXI 84, dove Beatrice è mediatrice di visioni paradisiache).
E la misura sovrabbondante della sua v. è segno di una natura più che umana, adeguata ai poteri delle sostanze angeliche. Di qui la rappresentazione della morte di Beatrice nei termini di un ritorno e di un'ascesa, in quanto finale ‛ assimilazione ' della sua v. a una natura a essa proporzionata (quella celestiale e paradisiaca) e reintegrazione in una pienezza di essere (lo stato di vita eterna) che è la sola ‛ degna ' a esprimere e accogliere la sua v. (la mia donna gentil... si n'è gita / al secol degno de la sua vertute, Vn XXXII 6 11). L'ascesa, pertanto, è ritorno allo stato confacente alla v. di Beatrice e - proiettata nella gerarchia delle essenze create - è un ripercorrere a ritroso i gradi di discesa della v. e della luce impartita mediante i cieli dall'etterno sire, fino a ritrovare il grado conforme ai poteri della propria natura (la luce de la sua umilitate / passò li cieli con tanta vertute / che fé maravigliar l'etterno sire [Vn XXXI 10 22], dove l'intensità e la velocità del trapasso è tanta, perché proporzionale alla perfezione dei poteri naturali raggiunti da Beatrice; per questo cfr. ancora Vn VIII 10, 13-14).
Di conseguenza, il trapasso e il ‛ salire ' dallo stato corporeo a quello spirituale (Quando di carne a spirto era salita) equivale a un potenziamento della bellezza e dei poteri della sua essenza (e bellezza e virtù cresciuta m'era, Pg XXX 128). Di qui, infine, la celebrazione di If II 76 in cui tutti gli elementi tornano, felicemente compendiati, nelle parole di Virgilio: O donna di virtù sola per cui / l'umana spezie eccede ogne contento / di quel ciel c'ha minor li cerchi sui.
Con la figurazione di Beatrice distruggitrice di tutti li vizi e regina de le vertudi (Vn X 2) e, infine, della Donna gentile la cui beltà rompe li 'nnati vizii che fanno altrui vile (Cv III Amor che ne la mente 63-67), D. approda a un approfondimento della nozione di v. e di amore, che segna il passaggio dall'amore come diletto cortese e dalla v. come potere emotivo e organico, all'amore come tensione alla perfezione dell'essere e alla v. come potenza operante e attuante tale perfezione (cfr. l'avvertimento di Rime CXIV 13). Beltà e v. convergono e cooperano infatti nell'amor perfetto, la bellezza agendo attraverso il diletto in quanto armonia sensibile, e la v. agendo attraverso l'operazione perfettiva della beltà sull'essenza umana (amar si può bellezza per diletto, / e puossi amar virtù per operare, Rime LXXXVI 14; e cfr. il v. 9 dove v. è personificata).
Se armonia sensibile e perfezione morale coincidono, nell'uomo, con il fruttificare del seme di bontà infuso in lui dalla virtù divina (Cv IV XXI 2), a trarre in atto tale perfezione è la bellezza della Donna gentile-Filosofia-Sapienza, proprio in quanto tale bellezza... resulta da l'ordine de le virtudi morali (III XV 11).
La Virtù Morale. - Sotto l'immagine della Donna gentile, dapprima nella Vita Nuova poi, soprattutto, nel Convivio, la Filosofia stessa, in quanto Sapienza dei filosofi, si manifesta a D. come consolatrice della morte di Beatrice. L'incontro con il pensiero aristotelico fu, al riguardo, determinante ed è anzitutto alla luce di questo pensiero che vanno letti i passi del Convivio relativi alla virtù. Quanto alla Commedia, D. tenterà in essa di operare una sintesi tra razionalismo aristotelico e fede cristiana, nella consapevolezza dei guasti operati dalla mancanza di v. nell'uomo (Rime CVI 22) che ha reso il mondo... tutto diserto / d'ogne virtute e di malizia gravido e coperto (Pg XVI 59), e così pure la Chiesa (If XIX 111) e la sua Toscana (Pg XIV 37).
In Cv IV XVII, dopo aver enumerato, sulla scorta di Aristotele (Eth. Nic. II 7, 1107a 33 ss.), le undici vertudi morali (§§ 4-6), D. si richiamerà espressamente all'Etica Nicomachea (I 6, 1098a 16-18) per affermare che ciascuna di queste vertudi ha due inimici collaterali, cioè vizii, uno in troppo e un altro in poco; e queste tutte... nascono... da uno principio, cioè da l'abito de la nostra buona elezione: onde generalmente si può dicere di tutte che siano abito elettivo consistente nel mezzo (§ 7, e cfr. IV VI 13 [due volte], XVII 1 [tre volte], XVIII 1 e 6 [prima occ.], XX 1, inoltre IV Le dolci rime 81, ripreso in III 2, XVI 2, XVII 1). Tale definizione si applica, per eccellenza, alle vertù morali, delle quali poco prima D. aveva affermato: propiissimi nostri frutti sono le morali vertudi, però che da ogni canto sono in nostra podestate (XVII 2, dove il termine ricorre ancora tre volte).
Questa marcata accentuazione del valore specificamente umano delle v. (e, con esso, del libero arbitrio in quanto fondamento della ‛ elezione ', Cv I VIII 14 e 15, Pg XVIII 73), s'inserisce nel più ampio contesto della netta distinzione operata da D. tra due tipi di beatitudine (cfr.) - l'una propria della vita eterna, l'altra della vita terrena -, distinzione già chiaramente delineata a partire dal II trattato: l'umana natura non [ha] pur una beatitudine... ma due, sì com'è quella de la vita civile, e quella de la contemplativa (II IV 10).
Queste due forme di felicità, corrispondenti al fine naturale dell'uomo e che preludono alla somma felicità della vita eterna, comportano ovviamente una diversità dei mezzi per conseguirle, da un lato le v. morali per la vita attiva, dall'altro le v. intellettuali per la vita contemplativa: E così appare che nostra beatitudine (questa felicitade di cui si parla) prima trovare potemo quasi imperfetta ne la vita attiva, cioè ne le operazioni de le morali virtudi, e poi perfetta quasi ne le operazioni de le intellettuali. Le quali due operazioni sono vie espedite e dirittissime a menare a la somma beatitudine, la quale qui non si puote avere (Cv IV XXII 18).
Distinzione delle virtù. - Le virtù naturali. Le v. morali naturali (o ‛ etiche ', distinte dalle intellettuali o ‛ dianoetiche ': cfr. Cv IV XVII 11 e 12, e MORALE) secondo l'enumerazione aristotelica sono: Fortezza, Temperanza, Liberalità, Magnificenza, Magnanimità, Onore, Mansuetudine, Affabilità, Verità, Eutrapelia e Giustizia (vedi alle voci relative, e per la connessione con il termine v., cfr. Pg XXV 135, Cv I VIII 7 [due volte], 13, 14 e 16, IV XIII 14, XXVI 7, Rime CVI 107, Fiore CXXXIII 2). L'abito di vertude, sì morale come intellettuale - che non si acquista subitamente ma per usanza (Cv I XI 7), cioè per ‛ operazioni ' ripetute - è quello che assicura all'uomo la felicità; le v. morali infatti sono quelle che fanno l'uomo beato, o vero felice, ne la loro operazione (IV XVII 8).
D., sulla base di Aristotele (Eth. Nic. I 6,1098a 16-18, e cfr. Tomm. Comm. Eth. ad loc.), afferma inoltre che " Felicitade è operazione secondo virtude in vita perfetta " (Cv IV XVII 8, e ancora III XV 12 e IV Le dolci rime 83) in quanto fine de la vertù sia la nostra vita essere contenta, cioè ‛ compiuta ', ‛ perfetta ' e perciò ‛ lieta ' (I VIII 12). La felicità, in tal senso, è connessa - come nel caso della liberalità - con la letizia, in quanto la v. è stato di attuazione del bene (la vertù dee essere lieta, e non trista in alcuna sua operazione, e questo è il requisito di perfetta vertù, § 7). La liberalità infatti (Cv I VIII) è lieta, poiché attua la v. e attinge la felicità attraverso un dono gratuito del sovrabbondante, come il bene che diffonde sé stesso e informa gli altri della pienezza del proprio essere. Da notare che la liberalità è unione di ricchezza e v., e che - laddove gran ricchezza implichi possedere con vizio - la scelta morale obbliga alla povertà unita a vertute (Pg XX 26).
Di qui il tema della leggiadria che, ove è verace, è ‛ segno ' di v. (ell'è verace insegna / la qual dimostra u' la vertù dimora, Rime LXXXIII 16), anche se essa non è pura vertù (v. 77) cioè non è v. per essenza, ma con vertù s'annoda (v. 76, dove il termine ricorre due volte) cioè è ‛ mista ' a v. in un rapporto di unione accidentale, che può venir meno laddove è più vertù richesta (v. 79) come nei religiosi e nei filosofi. Pur non essendo segno necessario, la leggiadria è segno sufficiente e verace della presenza della vertù pura (v. 88) ma solo quando è unita a sollazzo (v.), amore e opera perfetta (v. OPERA), cioè operazione secondo retta ragione accompagnata da felicità (vv. 89-92; il termine ancora al v. 111).
Al tema della felicità è inoltre connessa la trattazione della vera amistade, della quale è cagione efficiente la vertude (Cv III XI 13) e che culmina nell'amore della sapienza, cioè la Filosofia, che è vera felicitade che per contemplazione de la veritade s'acquista (§ 14).
Tra le v. morali, D. considera inoltre la Giustizia come la più umana in quanto la più amabile di tutte (Cv I XII 9 e 12); tanto amabile - afferma D. sulla scia di Aristotele - che li suoi nimici l'amano (§ 10). E la sua assenza dal mondo D. lamenterà come una delle più gravi per la perfezione dell'umanità (Rime Cv 12).
Quanto alla Prudenza, benché essa sia comunemente considerata morale virtude, da D. è annoverata nel numero delle v. intellettuali o dianoetiche, ma nella qualità di conduttrice de le morali virtù (Cv IV XVII 8). Tale preminenza e funzione direttrice sulle v. morali attiene al suo ruolo di v. ‛ mediatrice ' tra le regole della vita attiva e quelle della vita contemplativa. In XXII 11, D. cita la Prudenza in testa alle quattro v. cardinali, laddove afferma che l'operare... virtuosamente, cioè onestamente, è operare con prudenza, con temperanza, con fortezza e con giustizia.
Nel Purgatorio le v. cardinali, oltre l'allusione di VII 36-37, sono simboleggiate dalle quattro ninfe del Paradiso terrestre (XXXI 106, e cfr. XXIX 131) che nel ciel sono stelle (I 23 e 37, e VIII 91).
Alle v. cardinali è inoltre riferito il titolo volgarizzato (Libro de le quattro vertù cardinali, Cv III VIII 12) del De quatuor virtutibus, attribuito a Seneca (Mn II V 3) ma in realtà parte della Formula vitae honestae di Martino di Braga (cfr.).
Quanto alle v. dianoetiche (una vertù che si chiama scientifica, e una che si chiama ragionativa, o vero consigliativa: e con quest[e] sono certe vertudi... sì come la vertù inventiva e giudicativa, Cv III II 15; vedi alle voci relative), esse sono intese come i più nobili poteri (nobilissime vertudi) esplicati dall'uomo al fine di attuare la eccellentissima potenza della ragione e, come tali, compresi nella mente (v.) che è parte superiore dell'anima (§ 16; in tali poteri vanno annoverati la virtù che consiglia di Pg XVIII 62 [cfr. ASSENSO; arbitrio] e la virtù ch'a ragion discorso ammanna di XXIX 49, cioè l'estimativa o cogitativa: v. DISCORSO).
L'armonica attuazione delle v. naturali induce nell'uomo perfezione e, perciò stesso, nobiltà (v.) poiché nobiltà denota perfezione di propria natura in ciascuna cosa (Cv IV XVI 4 e 8). In tal senso nobiltà è seme delle morali vertù e intellettuali (§ 10), le quali, viceversa, sono frutto di nobilitade (IV XX 9, due volte). Essendo ogni vertude compresa dalla nobiltà come l'effetto dalla causa (XVIII 5), la vertude sarà da ridurre ad essa come a sua origine (ibid. e XX 5).
Difatti, poiché la causa ha un ‛ potere ' maggiore e ‛ più esteso ' dei singoli effetti che da essa procedono, e siccome nobiltade vale e si stende più che vertute, ne consegue che [vertute] più tosto procederà da essa (IV XIX 3) e che nobilitade si stenda in parte dove virtù non sia (§ 8). Dalla maggiore estensione della nobiltà come causa discendono le affermazioni che dovunque è virtude, quivi è nobilitade (§ 3), che nobilitade... [è] dove è vertude (§ 4) e che è nobilitade dovunque è vertude, e non vertude dovunque nobilitade (§ 5).
La v. pertanto è segno della presenza della nobiltà (in questo senso nobiltà e v. convergono: Cv IV Le dolci rime 92, XVIII 2, 3 [due volte], e 6) senza tuttavia esaurirla, in quanto nella nobiltà non soltanto rilucono le intellettuali e le morali virtudi (IV XIX 5) ma sibbene le buone disposizioni naturali, le doti fisiche e le buone passioni (tra cui la vergogna che, appunto, non è virtù, ma certa passione buona: § 8 e Cv IV Le dolci rime 107-108).
In quanto causa, la priorità della nobiltà sulla v. comporta dunque la ‛ discesa ' della v. da essa (vertude... discende da nobilitade), la presenza della forma della causa nell'effetto prodotto (la vertù è una cosa mista di nobilitade e di passione) e un conseguente rapporto di ‛ denominazione ' (è la virtù dinominata da essa, e appellata bontade, Cv IV XX 2). A sua volta, la nobiltà si manifesta nelle diverse età della vita umana attraverso le v. confacenti a ciascuna di esse (Cv IV XXVII 2, 10 e 13, XXVIII 14 [due volte] e 16 [due volte], dove maternale vertute traduce il " vis materna " di Lucano Phars. II 338).
Le virtù teologali. Nella Monarchia D. ebbe modo di precisare la sua concezione del rapporto tra morale e fede, allorché si richiamò al duplice fine proposto all'uomo dalla Provvidenza: quello della beatitudine della vita terrena, consistente nell'esercizio delle v. umane, e quello della beatitudine della vita eterna, consistente nella visione di Dio, ad quam propria virtus ascendere non potest, nisi lumine divino adiuta (III XV 7; v. BEATITUDINE).
Mentre alla prima forma di beatitudine è consentito accedere per mezzo degl'insegnamenti filosofici, solo gl'insegnamenti spirituali che eccedono la ragione umana danno la possibilità di raggiungere la seconda. Questo secondo tipo d'insegnamento è attuato attraverso le tre v. teologali, cioè la fede (cfr. Pd XXIV 90), la speranza (cfr. XXV 60) e la carità (cfr. XXV 83 e III 71, dove virtù di carità è in locuzione che evidenzia il potere che sprigiona dalla carità). A tali conclusioni ci dirigono da un lato la ragione umana e dall'altro la rivelazione. E, da quest'ultimo punto di vista, non possiamo non ammirare il notevole enunciato che del mistero cristiano dà D.: Has... conclusiones et media, licet ostensa sint nobis haec ab humana ratione... haec a Spiritu Sancto qui per prophetas et agiographos, qui per coaecternum sibi Dei filium Iesum Cristum et per eius discipulos supernaturalem veritatem ac nobis necessariam revelavit (III XV 9).
Nel Convivio (III XIV 15) le v. teologali sono le tre virtudi per le quali si sale a filosofare e che furono prefigurate dalle sette degli Stoici, Peripatetici ed Epicurei.
Nella Commedia D. menziona le tre v. teologali - le tre sante / virtù - nel VI canto del Purgatorio (vv. 35-36), vero e proprio affresco storico delle grandi personalità della seconda metà del XIII secolo, mentre nel c. VII appaiono come tre astri fiammanti verso i quali si volgono, nel crepuscolo che cala sulla valletta dei principi, gli avidi occhi del poeta. Del Paradiso andranno ancora ricordati i canti XXIV-XXVI, nei quali Pietro, Giacomo e Giovanni interrogano successivamente D. sulla fede, sulla speranza e sulla carità, dando al poeta la loro benedizione unitamente all'approvazione dei beati.
La virtù nella tradizione filosofica e teologica. - L'indagine dei filosofi. L'intellettualismo socratico, che identificava v. e sapere, venne corretto da Platone, per il quale le v. hanno anzitutto un'incidenza sociale e trovano la loro fonte nella contemplazione dell'idea del Bene. In Platone è già presente lo schema delle quattro v. cardinali come sostegno della vita morale di ogni uomo, che con s. Ambrogio passeranno nella tradizione cristiana sulla base, peraltro, dell'enumerazione presente in Sap. 8, 7. Aristotele, invece, incentrò la sua morale sull'idea di felicità raggiungibile dall'uomo mediante l'esercizio delle virtù.
È appunto in funzione della determinazione della felicità come bene supremo che Aristotele elabora la teoria delle v. come giusto mezzo tra due eccessi contrari e la cui lista è data in Eth. Nic. VI e VII. Come si vede, la dottrina aristotelica non si organizza attorno alle quattro v. cardinali, le quali invece troveranno più ampia esplicazione nello stoicismo, benché qui l'accento sia posto più sull'unità che le contraddistingue che non sui legami che intercorrono tra loro. La v., per il pensiero stoico, consiste in una disposizione interiore della volontà che si conforma al cosmo, al logos.
Nel De Officiis (I V) Cicerone adotterà definitivamente lo schema delle quattro v. principali come fonti della honestas, a ognuna delle quali farà corrispondere un ordine di doveri particolari. La precedenza torna di nuovo alla prudentia, il cui oggetto è quello di ricercare e scoprire la verità. La definizione che Cicerone dà della v. è quella stessa che sarà ripresa da s. Agostino: " Virtus est animi habitus, naturae modo atque ratione consentaneus " . In Macrobio troviamo l'enumerazione degli atti delle v. concernenti la vita pratica, mentre alla prudenza viene dato anche qui il primo posto, come si può vedere dalla definizione che segue: " Prudentiae esse, mundum istum, et omnia quae mundo insunt, divinorum contemplatione despicere, omnemque animae cogitationem in sola divina dirigere " (Somn. Scip. I 8). La corrente agostiniana, e poi Pietro Lombardo, finiranno col confluire, nel Medioevo, con la dottrina aristotelica a cui s'ispira Abelardo e la sua scuola. S. Tommaso, infine, nel trattare delle v. a proposito degli " habitus ", proporrà la dottrina, divenuta classica, delle quattro v. cardinali e delle tre v. teologali.
La cristianizzazione della nozione di virtù. In ebraico il concetto di v. non esiste, l'uomo virtuoso è detto " giusto " o " fedele " . A quanto sembra, fu attraverso il mistero della vita rinnovata in Cristo, che al pensiero cristiano s'impose nel modo più chiaro l'esigenza dell'esercizio delle virtù. La nuova vita, inaugurata col battesimo, si esprime mediante i doni dello Spirito Santo (Rom. 5, 3-5) corrispondenti alla fede, alla speranza e alla carità, delle quali comunque " maior... est charitas " (I Cor. 13, 13).
Oltre a queste tre v. cristiane, le altre ‛ qualità ' caratteristiche della spiritualità paolina sono l'umiltà, la dolcezza, la bontà e la castità. L'appello a tali v., con molta probabilità, risente della parenesi battesimale. Paolo, indubbiamente, non era estraneo alle concezioni greche della v., eppure, nelle sue epistole, nulla sembra richiamare le filosofie del tempo, mentre manca qualsiasi ripresa dello schema delle quattro v. cardinali. Si può esser certi, come afferma A. Vögtle, che l'ordine d'importanza, il senso nuovo e l'origine delle disposizioni virtuose enumerate da Paolo, sono un fatto specificamente cristiano.
La sintesi tra la tradizione greca e quella giudaico-cristiana, fu opera dei padri della Chiesa. Già si è accennato al ruolo di s. Ambrogio e s. Agostino. Bisogna ricordare ancora la sistematizzazione della dottrina dei doni dello Spirito Santo e delle v. cardinali e teologiche compiuta da s. Gregorio Magno. Quest'ultimo si mantenne entro il contesto agostiniano delle v. soprannaturali infuse; per lui, la più alta v. morale cristiana è l'umiltà. S. Tommaso, erede di tante ricchezze, costruì la propria sintesi con la Sum. theol. II I 55-70, dove - attorno alle v. cardinali e teologali e ai doni dello Spirito Santo - trovarono posto anche le v. acquisite, tutte facenti capo alla carità " forma omnium virtutum " .
Bibl. - A. Michel, art. Vertu, in Diction. de Théol. Cathol., XV 2739-2789; A. Vöegtle, Tugendkataloge, in Lexik. d. Theol. und Kirche, X 399-401; Ph. Delhaye, Rencontre de Dieu et de l'homme, I, Vertus théologales en générale, Tournai 1957; É. Gilson, D. et la philosophie, Parigi 1953²; Ph. Delhaye, La conscience morale du chrétien, Tournai 1964.