Virtù civili
Il tema della virtù occupa un posto centrale nella storia del pensiero occidentale, almeno a partire da Socrate, sebbene esso sia presente, in modi e linguaggi diversi, anche in altri universi culturali, come quello confuciano (Cina), scintoista (Giappone) e indù (India). In Italia, come si cercherà di mostrare soprattutto nella seconda parte di questo saggio, le virtù civili assumono un ruolo specifico e cruciale per comprendere la tradizione del concetto di virtù nel pensiero economico. In Aristotele la virtù civile occupa un posto centrale, sebbene nel filosofo la distinzione tra virtù tout court e virtù civile non sia accentuata, poiché egli vede l’uomo libero direttamente come cittadino della polis; al punto che si potrebbe dire che ogni virtù, sia le etiche sia le dianoetiche, è per Aristotele direttamente o indirettamente orientata alla costruzione della polis, e quindi civile.
Quanto segue non può esaurire l’intero discorso delle virtù civili nella storia della filosofia, ma si concentrerà sul significato del concetto di virtù nella tradizione del pensiero economico e sociale, in modo particolare nell’età moderna e in Italia, anche se per comprendere che cosa è avvenuto e avviene nella tradizione italiana (soprattutto in quella nota come economia civile) è importante, in primo luogo, riflettere sul concetto di virtù, e poi esaminare l’uso che della virtù civile è stato fatto, o non fatto, nella tradizione della scienza economica inglese, e quindi italiana.
La grande narrativa, in base alla quale l’economia ha acquistato la sua legittimità etica, è fondamentalmente costituita dall’operazione compiuta dagli economisti classici (da Adam Smith in modo tutto particolare) di mostrare che l’interesse personale, il principio base dell’economia e società moderne, non era un vizio (come pensava il pensiero premoderno fino a Bernard de Mandeville), ma una sorta di virtù, almeno per i frutti civili che porta in una economia di mercato e in una società civile, per il tramite del meccanismo della ‘mano invisibile’ del mercato e delle ‘visibili’ istituzioni civili. Al tempo stesso, il concetto di virtù, per come si è sviluppato nella tradizione filosofica ed etica, a partire da Socrate e soprattutto da Aristotele, non è accostabile a nessuna delle categorie che la scienza economica moderna e, soprattutto, contemporanea ha elaborato per descrivere le scelte umane (preferenze, credenze, utilità, vincoli, incentivi, aspettative e così via).
L’impianto metodologico che la teoria economica ha costruito in particolare nell’ultimo secolo (il cosiddetto paradigma neoclassico) non è adatto per comprendere il significato e il valore di un concetto come quello di virtù, che nasce in un contesto filosofico (aristotelico-tomista) molto distante da quello che ha dato vita alla scienza economica contemporanea, sebbene la teoria neoclassica potrebbe in linea di principio accettare il concetto di virtù. La virtù non è, infatti, né una faccenda di preferenze né di aspettative; essa è invece un tratto del carattere, una disposizione di lungo periodo, una buona abitudine o un habitus da coltivare nel tempo e da rendere stabile, che, una volta acquisito, produce frutti, che sono frutti d’eccellenza. Da ciò, in realtà, potrebbe risultare normale qualcosa che oggi invece non troviamo generalmente nella filosofia delle virtù, e cioè ritenere che anche l’economia abbia le sue virtù, vale a dire quelle disposizioni da coltivare se si vuole raggiungere l’eccellenza nel fare impresa, scambiare o commerciare.
Virtù (in greco areté) ha infatti a che fare con l’eccellenza (come l’artista, parola che contiene la radice ar: cfr. Natoli 1996; M. Nussbaum, The fragility of goodness. Luck and ethics in Greek tragedy and philosophy, 1986). Nella visione aristotelica, che è alla radice della tradizione dell’etica delle virtù, quella che ritroviamo soprattutto nella prima parte dell’Etica Nicomachea, la virtù rimanda al concetto di natura e a quello di telos (fine): la virtù consiste nell’azione secondo natura, cioè la vera realtà della cosa, che porta inscritta in sé la sua finalità, il suo telos. Per Aristotele le virtù sono molte e ogni ambito ha le sue specifiche virtù, poiché l’azione virtuosa dipende dallo scopo (telos) di un particolare ambito dell’esistenza. Nella guerra il telos è la vittoria, nella politica la giustizia, nella famiglia la benevolenza. Per Aristotele (Etica Nicomachea, 7), ad es., poiché il telos della guerra è la vittoria, la virtù che il guerriero deve coltivare per raggiungere quel telos è il coraggio. Anche se, come ha messo in luce Alistair MacIntyre (1981), forse il più importante filosofo neoaristotelico e comunitarista contemporaneo, a differenza della concezione mitica oppure omerica, in Aristotele (e dopo di lui nella tradizione aristotelico-tomista, e quindi cristiana) è molto forte l’esigenza di associare tutte le virtù alla vita buona, essendo la virtù l’orientamento della persona al Bene (e non solo la ricerca dei beni dei vari ambiti), Bene che è sullo sfondo di ogni specifico ambito nel quale le singole virtù vengono esercitate e che conducono alla felicità (eudaimonia). Quindi, mentre nell’approccio omerico alle virtù tra queste vi può essere un conflitto, in particolare in quei territori di confine tra vari ambiti (il soldato che, per vincere la battaglia e così essere virtuoso in guerra, deve sacrificare l’amico o il figlio nell’agone), nella visione aristotelica e neoaristotelica questo conflitto tra virtù non si dà, essendo la virtù associata in ultima istanza al carattere della persona virtuosa e alla fioritura totale della persona. Se si resta però all’interno del singolo ambito (o ‘sfera’), quando lo scienziato o l’artista agisce secondo il telos specifico del proprio ambito, cioè la verità (scienza) o bellezza (arte), questi raggiunge l’eccellenza proprio se e quando esercita una data attività in conformità alla sua natura o scopo intrinseco. Esiste, allora, un rapporto molto forte tra virtù e comportamento retto da motivazioni intrinseche poiché, almeno per l’etica delle virtù, non sarebbe virtuoso l’artista che dipingesse per la fama e non per la ricerca della bellezza in sé, né lo sportivo che voglia l’eccellenza per il denaro, né lo scienziato o il professore universitario che conduca ricerche per fare carriera. Da qui deriva anche un corollario importante: chi esercita una data attività o pratica per i suoi benefici estrinseci (fama, denaro, carriera e così via) non sarà mai un artista, uno sportivo o uno scienziato eccellente. Nel contesto attuale, l’etica delle virtù ha subito nuove declinazioni. Nell’etica delle virtù contemporanea, è ogni data comunità (di scienziati, di artisti, di giocatori di golf, religiosa, politica…) che definisce quali comportamenti possono essere chiamati virtuosi così da condurre alla fioritura umana.
Ecco allora che alcuni filosofi contemporanei delle virtù hanno introdotto, come vedremo, il concetto di pratica che, in un certo senso, prende il posto dell’aristotelico telos, poiché è all’interno di una determinata comunità di artisti che sono definiti i criteri di eccellenza di quella particolare attività. La pratica comunque ha sempre a che fare con un determinato ambito, e la virtù di una pratica dipende dal raggiungimento di determinati beni che sono interni alla pratica stessa, non strumentali quindi, poiché hanno a che fare con lo scopo intrinseco di quella pratica in quell’ambito; né sono definiti soggettivamente dall’individuo ma da una comunità che, a differenza della visione più pragmatica o convenzionale di David Hume o Smith, non crea con il semplice consenso la virtuosità di un comportamento; la pratica si ‘riceve’ da una storia e da una tradizione, che è eccedente rispetto al consenso dei singoli membri della comunità (sebbene occorra sempre immaginare una certa dinamica in questo processo storico). Il concetto di pratica viene introdotto allora per dar senso nel mondo contemporaneo all’etica delle virtù, in un contesto in cui i concetti di natura e di telos non sono più utili per comprendere che cosa significhi essere virtuosi o eccellenti, poiché sono sempre più lontani dalla sensibilità contemporanea sia il concetto di natura sia quello di telos. Nel suo influente libro After virtue (1981), MacIntyre ci ha appunto mostrato che la virtù rimanda oggi al concetto di pratica (la cui origine è rintracciabile nel pensiero di Ludwig Wittgenstein), e cioè a quell’insieme di norme e comportamenti ricevuti da una tradizione e socialmente determinati all’interno di un ambito e di una data comunità: un concetto che spiega anche lo stretto rapporto tra etica delle virtù e filosofia comunitarista. In tale posizione, però, esiste una sorta di ipotesi implicita alla base di molta parte della filosofia dell’etica delle virtù che consiste nel considerare l’attività economica normale (scambio, produzione, risparmio) come in sé non virtuosa, poiché il mercato sarebbe sempre attività strumentale e non intrinseca.
Una ragione, forse quella principale, che spiega la diffidenza da parte dei filosofi delle virtù nei confronti dell’ambito economico, e quindi l’esclusione delle pratiche economiche dal novero di quelle virtuose, è l’identificazione del possibile telos dell’economia nella volontà di arricchimento personale: se scopo dell’economia e dell’impresa è massimizzare la ricchezza e il profitto individuale, non è facile vedere in questo atteggiamento, anche qualora fosse eccellente, una virtù, poiché da una parte si fa fatica a vedere un valore non strumentale in una tale pratica, e, soprattutto, perché non si associa al Bene la ricerca individuale della ricchezza. La ricerca della ricchezza per se stessa avrebbe due strade per poter essere riconosciuta come virtuosa, strade entrambe smithiane: affermare che la ricerca della ricchezza (o del self-interest) è una declinazione della virtù della prudenza (e quindi non è il vizio dell’egoismo), e introdurre un’idea di ‘eterogenesi dei fini’, mostrando che il fine sociale di quelle azioni autointeressate è il bene comune. Dimostrare la prima condizione è arduo (come si può riconoscere nel self-interest una virtù?), mentre la seconda è al cuore della rivoluzione etica dell’economia di mercato.
La tradizione italiana dell’economia civile, invece, sostiene una tesi diversa, poiché afferma la possibilità, teorica e pratica, di individuare e praticare quelle che possiamo chiamare le virtù del mercato. Questa tradizione ha considerato la vita economica compatibile con l’idea di virtù, sulla base non solo e non tanto delle virtù individuali, ma della natura sostanzialmente relazionale o sociale del mercato, e delle sue tipiche virtù civili espressioni di reciprocità o mutuo soccorso.
I classici dell’economia, in particolare Adam Smith e i filosofi morali scozzesi (Hume su tutti), ma anche la Scuola francese e quella napoletana e milanese dell’economia civile, sapevano molto bene che senza alcune virtù il mercato non nasce e non funziona: le due principali virtù che la visione classica dell’economia ponevano a base (magari senza esplicitarlo troppo) erano, e sono, l’indipendenza (virtù tipicamente di derivazione stoica) e la prudenza. Un punto di partenza quasi necessario per inoltrarci nel tema è una frase di Smith tra le più celebri delle scienze sociali: «Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dalla consapevolezza del loro interesse personale. Non ci rivolgiamo alla loro umanità ma al loro egoismo [self-love], e parliamo dei loro vantaggi e non delle nostre necessità» (An inquiry into the nature and causes of the wealth of the nations, 1776; trad. it. 1975, p. 92). In che senso e perché potremmo chiamare un tale comportamento del macellaio-birraio-fornaio una virtù (o quantomeno non un vizio), sebbene sia mosso semplicemente dagli interessi personali? Questa operazione di considerare la ricerca dell’interesse personale non un vizio (quello dell’avarizia, come accadeva normalmente nell’ancient régime), ma una virtù, inizia nel Medioevo, ma si compie progressivamente nella modernità.
Un ruolo fondamentale nella trasformazione etica dell’interesse da vizio in virtù l’hanno svolta prima il monachesimo (soprattutto quello occidentale, benedettino in particolare) e, dopo il 13° sec., il movimento francescano che, sebbene con sfumature diverse, iniziarono a considerare il commercio e la ricerca degli interessi non necessariamente in contrasto con la morale e con la virtù. Fu soprattutto grazie al movimento francescano, che ha avuto un’influenza decisiva in tutta la cultura economica e sociale del tardo Medioevo fino a tutto l’Umanesimo e Rinascimento italiano, che fece la comparsa il tema della cosiddetta eterogenesi dei fini o degli effetti non intenzionali delle azioni umane (che Hegel chiamerà l’‘inganno della ragione’, Vico ‘Provvidenza’, Smith ‘Mano invisibile’ e Galiani ‘la Suprema mano’), un tema che sarà tra le grandi nuove idee del Settecento europeo e dell’Illuminismo.
La scuola napoletana, Vico, Galiani e Genovesi sono stati i primi a utilizzare una vera e propria teoria della eterogenesi dei fini. In questo periodo luminoso nella storia dell’Occidente, si iniziò, allora timidamente (anche perché andava contro il pensare comune dell’etica cristiana del tempo), a sostenere che la moralità di un’azione non la si misura soltanto, né forse principalmente, dalle motivazioni (altruistiche o autointeressate) dell’agente, ma anche, e soprattutto, dai risultati che produce, dai frutti. Quindi se il mercante – diranno sul tramonto del Medioevo francescani come Pietro di Giovanni Olivi o laici come Poggio Bracciolini (e il suo trattato De avaritia del 1428, in pieno Umanesimo civile (Garin 1947, Zamagni 2009) – fa muovere le ricchezze stagnanti e putride nei forzieri, mette in circolazione risorse, crea posti di lavoro: tutto ciò è virtuoso perché aumenta il benessere pubblico e la ricchezza della nazione, un elemento che è più rilevante rispetto al movente (che può anche essere la cupidigia o il piacere) che lo spinge a sviluppare la sua attività mercantile.
Inizia già nel Medioevo l’attenzione, da parte di autori interessati non solo alla metafisica ma anche alla vita civile, per le azioni del machiavelliano ‘uomo qual è’. Occorre, infatti, tener presente che il giudizio morale nei confronti della ricerca della ricchezza cambia molto con la nascita delle protoforme di economia di mercato. In un mondo senza mercati, feudale e fondato sul rapporto servo-padrone, la ricerca della ricchezza è sia vizio privato sia vizio pubblico, poiché chi cerca la ricchezza e i comodi, o il lusso, per sé produce pochi o nessun vantaggio per la collettività: per consumare i beni del mio comfort ho servi e schiavi, e magari la guerra per approvvigionarmi di mercanzie, e quindi la sua ricerca del lusso e dei comfort deteriora il suo carattere morale, e non arreca vantaggi al bene comune. Il discorso cambia quando iniziano le prime forme di economie di mercato, quando il ricco inizia ad aver bisogno di altra gente per poter soddisfare i propri bisogni e capricci di vanità e piacere: deve iniziare a pagare le sue stoffe, i suoi cuochi di qualità, e magari qualche artigiano, e gli artisti per abbellire i suoi palazzi. Ecco allora che quel suo vizio individuale (perché è espressione di passioni antisociali come avarizia, gola e così via) inizia a produrre le prime virtù sociali, poiché fa girare ricchezza e aumenta la mobilità sociale. Un tema, questo, profondamente legato al dibattito sul lusso, che segue la stessa evoluzione.
Questo passaggio epocale nella storia dell’umanità (dell’Europa in particolare) è messo in luce magistralmente in un passaggio di Antonio Genovesi:
Lo spirito motore del lusso sia il naturale istinto di distinguerci. Questo istinto è fino ne’ selvaggi. Ma e’ non si risveglia mai senza qualche occasione o naturale o civile […] quando l’occasione per risvegliarsi un tale istinto sono gli ordini diversi de’ quali è composto il corpo civile, e l’istrumento le ricchezze, non già naturali, ma rappresentatrici, allora le maniere e le qualità per cui ci studiamo di distinguerci sono il vero lusso. […] Quelle cagioni che muovono un particolare a volersi distinguere da un altro della medesima classe, o di emulare una superiore, muovono altresì le classi superiori a trovare sempre nuovi modi di distinguersi dalle inferiori e fra sé medesime. […] Questo giuoco, dove le arti sono protette e il traffico libero, genera tre effetti: I. Fa girare la schiavitù feodale. II. Solleva quella parte del genere umano, che patisce per la pressione dell’altra che l’è di sopra. III. Rovina le grandi e vecchie famiglie e ne solleva delle nuove. Non si può per lungo tempo burlar la natura. Il lusso viene perché i ricchi restituiscano ai poveri quel che avevano preso di soverchio del comune patrimonio, e perché gli schiavi tornino liberi e i liberi schiavi (Lezioni di commercio, a cura di M.L. Perna, 2005, Parte I, cap. 10, §§ XVI-XVIII, pp. 416-19).
Da notare che la frase «dove le arti sono protette e il traffico libero» è molto importante, poiché dice che l’alchimia di interessi privati in beni comuni non è automatica e naturale, ma richiede la vita civile, la città con le sue istituzioni e le sue leggi: da qui anche il significato della sua economia civile.
Nella modernità questo cambiamento di atteggiamento nei confronti dell’interesse si rafforza, e grazie ad autori come Niccolò Machiavelli, i moralisti francesi, Mandeville, Giambattista Vico, Claude-Adrien Helvétius, e ancor più chiaramente con i filosofi morali scozzesi Hume e Smith, si arrivò non solo a lodare i frutti civili anche delle azioni mosse dagli interessi, ma pure a sostenere che lo stesso movente autointeressato non è un vizio ma una sorta di virtù. Così il self-interest diventa un’espressione di virtù sia individuale (quello che Smith chiama il self-command), sia civile (per i frutti che porta). Si estende così progressivamente alla ricerca della ricchezza e all’ambito economico quanto era accaduto con la ricerca della gloria individuale nell’antichità, dove si lodava e si considerava virtuosa la ricerca della gloria (militare, politica…) perché era considerata utile al bene comune. Ciò che accade a partire dal Rinascimento è allora la progressiva sostituzione dell’etica medioevale centrata sulla gloria con quella borghese e mercantile basata sugli interessi, che viene sempre via via considerata più pacifica (le ‘doux commerce’), gestibile, prevedibile, cittadina e moderna dell’etica dell’eroe medioevale o dell’antica Grecia o Roma.
In realtà, in piena modernità ritroviamo ancora residui dell’etica della gloria e dell’onore. Si pensi all’opera dell’aquilano Giacinto Dragonetti sui ‘premi alle virtù’: l’ipotesi antropologica che le sottostà è che la ricerca pubblica dell’onore e della gloria non è meno potente negli uomini della ricerca degli interessi. Non a caso Albert O. Hirschman pone come incipit del suo classico saggio The passions and the interests (1977) la bella frase di Über die protestantische Ethik und den Geist des Kapitalismus di Max Weber: «Come poté dunque accadere che un’attività, la quale moralmente era a malapena tollerata, diventasse per Benjamin Franklin una vocazione?» (citato in Hirschman 1977; trad. it. 2011, p. 15).
Con la modernità si iniziò così progressivamente a pensare che gli interessi fossero più prevedibili e gestibili delle passioni, e che un mondo ‘governato dagli interessi’ è più civile di quello governato dalle imprevedibili e distruttive ‘passioni’. Ma c’è di più: nell’età degli uomini liberi e uguali, quello degli interessi è l’unico mondo possibile. Poter prevedere le azioni degli uomini era una operazione fondamentale per la nascita della scienza economica (e di quella politica), poiché rende possibile formulare delle leggi universali, e quindi prevedere, orientare e modificare le variabili economiche: se parto dall’ipotesi che gli uomini e le donne cercano di soddisfare i loro interessi personali, posso allora prevedere che cosa accade quando il tasso di interesse sale, il prezzo di una merce scende, quando il governo apre o chiude il commercio internazionale, e così via. Senza una ipotesi antropologica e psicologica prevedibile non si sarebbe potuto dar vita a una scienza razionale. In questo contesto si può comprendere il peso che ha avuto il paradigma della fisica newtoniana, che costruiva tutto il suo impianto teorico a partire da poche leggi certe (soprattutto da quella di gravità) e rendeva spiegabile il mondo perché prevedibile.
Anche Genovesi risente molto di questa visione newtoniana, ma, a differenza di Ferdinando Galiani («La gravità nella fisica è il desiderio di guadagnare», Della moneta, 1803, p. 91) e, dopo di lui, di tutto il pensiero economico classico e neoclassico che ha tradotto la legge di gratuità nella ricerca del tornaconto personale (il cosiddetto principio economico), Genovesi, pur conoscendo la tesi del suo compatriota Galiani, dice esplicitamente che il corretto uso della metafora newtoniana nella sfera sociale è prendere la reciprocità come principio fondativo, proprio perché la gravità dice «reciproca attrazione»:
come l’attrazione dei corpi nel contatto è massima, e va indebolendosi a proporzione delle distanze; così l’attrazione reciproca degli uomini e la carità è grandissima ne’ congiunti di sangue, di convitto, di patria, ec., e va illanguidendo a maggiori distanze; non sì però che non se ne veggano manifesti segni, ed in coloro principalmente, i quali sono men guasti dall’ambizione, dal lusso, dall’avarizia, e da altri vizj delle gran città (Della Diceosina o sia della filosofia del giusto e dell’onesto, 1795, p. 17).
Secondo la teoria economica classica, nelle sue diverse declinazioni, l’invenzione del mercato diventa allora uno strumento di civiltà, e anche lo scambio di mercato, sebbene non basato sulla benevolenza ma sul self-interest, diventa un’espressione di virtù, anche a livello del singolo individuo, poiché anche se per Smith il self-interest o self-love più che una virtù individuale nel senso classico è un dato naturale della persona, è anche vero che il self-interest richiede in Smith il self-command, che invece è una diretta derivazione della virtù della temperanza e in un certo senso della prudenza. Un osservatore imparziale, allora, approva il comportamento mosso dal self-interest, e quindi in una visione smithiana può essere chiamato virtuoso (forse meno in un approccio aristotelico).
La stessa virtuosità la ritroviamo anche a livello sociale, perché una società dove esiste la divisione del lavoro e il mercato funziona meglio e produce prosperità quando le persone cercano responsabilmente, con temperanza e con prudenza i propri interessi, poiché questa ricerca degli interessi consente alla ‘mano invisibile’ del mercato di produrre i suoi frutti di benessere sociale. Meno bene funzionerebbe, invece, una società commerciale nella quale i cittadini cercassero nelle loro azioni non i propri interessi ma il bene comune o quello degli altri, poiché le azioni non sarebbero prevedibili, il sistema dei prezzi non potrebbe funzionare e con esso la mano invisibile si bloccherebbe. Smith conclude il suo discorso sulla ‘mano invisibile’ in An inquiry into the nature and causes of the wealth of the nations con le seguenti e molto note parole: «Non ho mai visto che sia stato raggiunto molto da coloro che pretendono di trafficare per il bene pubblico» (trad. it. 1975, p. 584). Ma, giova ripeterlo, non siamo con Smith nella logica mandevelliana di «vizi privati, pubbliche virtù», semplicemente perché per Smith il self-interest non è certamente un vizio, ma, nei termini appena specificati, una virtù, per i frutti di indipendenza, di libertà, di autostima e di dignità che produce nell’individuo, e ancor più chiaramente per i frutti che produce in una civil society.
In un tentativo di sintesi, potremmo così riassumere quanto finora argomentato. Prima fase: vizi privati, vizi pubblici. Dall’antichità fino al Medioevo, la ricerca dell’interesse personale (tornaconto e ricchezze) era un vizio sia a livello individuale sia a livello del bene comune. Seconda fase: vizi privati, virtù pubbliche. Tra i francescani e Smith (incluso Mandeville e i suoi «vizi privati, pubbliche virtù», il sottotitolo di The fable of bees, 1714), la ricerca del tornaconto individuale e delle ricchezze restano vizi individuali, ma diventano virtù pubbliche. Terza fase: virtù private, virtù pubbliche. Con Smith e nella tradizione dell’economia politica classica, il self-interest (che richiede la virtù della prudenza e della temperanza) diventa anche una sorta di virtù individuale, oltre che virtù pubblica.
Nella tradizione italiana di pensiero economico, e in un modo tutto particolare nella cosiddetta economia civile, il concetto di virtù civile è senza dubbio una delle idee forza. Le virtù sono un’eredità, da una parte, della cultura cittadina italiana ed europea con il suo forte riferimento al repubblicanesimo romano. La centralità del concetto di virtù civile si ritrova anche in molti grandi autori dell’Illuminismo europeo, Jean-Jacques Rousseau in modo particolare (come ci hanno mostrato, tra gli altri, Pocock 1975 e Skinner 1978). Dall’altra, l’etica delle virtù è l’approdo moderno della tradizione cristiana classica (tomista in modo particolare) del bene comune. Esiste, infatti, un legame indissolubile tra la linea filosofica del bene comune e quella delle virtù, essendo il primo il risultato intenzionale del comportamento di cittadini e istituzioni virtuosi.
Nel Settecento italiano, napoletano in modo tutto particolare, la vita civile diventa di nuovo la grande parola chiave attorno alla quale costruire il nuovo mondo dell’uguaglianza, della libertà, della fraternità e della felicità pubblica, che diventano i nuovi motti dei riformatori illuministi e poi dei rivoluzionari. Scriveva, per es., l’economista civile leccese Giuseppe Palmieri:
fra tutti gli esseri l’uomo è più utile all’uomo. Non può egli sperare da altri quei beni, che soltanto da’ suoi simili può ottenere. Infatti tutto ciò, che ha di bene o nel suo corpo o nel suo spirito, lo deve a’ suoi simili (Riflessioni sulla pubblica felicità relativamente al Regno di Napoli, 1805, p. 17).
In Genovesi questa stessa idea prende la forma, sotto l’influsso newtoniano, di un bilanciamento tra la tendenza egoistica e quella pro-sociale («forza concentriva» e «forza diffusiva»), che solo assieme, e nella giusta (o «mezza», come dice Genovesi) proporzione, possono portare alla felicità individuale e pubblica.
A questo tema è profondamente legato quello dei premi alle virtù, poiché come le pene controllano e orientano la «forza concentriva» delle persone, occorre che si sviluppino strumenti civili capaci di orientare e far sviluppare la forza diffusiva nelle persone. Anche per l’esperienza storica del Regno di Napoli, noto in tutta l’Europa del tempo per la corruzione delle leggi e degli amministratori, Genovesi e Filangieri confidavano poco nello strumento delle pene (Cesare Beccaria), mentre, con altri autori europei (tra cui Marie-Jean-Antoine-Nicolas Caritat marchese di Condorcet), enfatizzavano molto l’urgenza e l’importanza dei premi per le virtù. Troviamo, ad es., in Genovesi, una grande attenzione al tema della virtù civile, il quale rende possibile il fatto che le repubbliche possano durare, poiché sono fondate su di essa. Le stesse leggi, come scrive soprattutto nei suoi commenti all’edizione napoletana dello Spirito delle leggi di Montesquieu, non reggono senza virtù: «Il buon cittadino è colui, che contento dei suoi diritti, non invade gli altrui; si può ciò fare senza virtù?» (1777, I, p. 129).
L’importanza dei premi per le virtù civili (insieme e prima delle pene), sviluppata a Napoli soprattutto dal suo discepolo Giacinto Dragonetti, nasce da un’antropologia più sociale e ottimistica che nel Settecento prende il posto (sebbene per poco tempo) di quella pessimistica che aveva caratterizzato il pensiero sociale e politico precedente (e non solo quello di Thomas Hobbes). L’idea principale, di chiara derivazione aristotelico-tomistica, è di una dominanza antropologica della virtù sul vizio, che rende logico il ricorso ai premi in quantità e misura almeno pari a quelle delle pene. Dragonetti, da buon discepolo di Genovesi, è l’autore che più spinge avanti questo discorso nel suo Delle virtù e de’ premi (1766), arrivando a immaginare la creazione di un codice premiale accanto al codice penale. Questo progetto della modernità è stato totalmente tradito, anche a seguito della vicenda napoleonica (e dei suoi codici penali, e non premiali), e della restaurazione europea che ha interrotto questo progetto illuminista. Così, a partire dall’Ottocento, dopo i tentativi di Condorcet o di Melchiorre Gioia, la virtù è uscita dal vocabolario della scienza economica classica e poi neoclassica. La tradizione italiana economica classica (secc. 18°-19°) pur attribuendo un ruolo centrale alle virtù, per la sua forte radice nel pensiero cristiano e classico (Tommaso e Aristotele), non propone una linea culturale che porterebbe oggi al pensiero comunitarista, anche questo fortemente ancorato al concetto di virtù e di bene. Infatti, come accennato, la tradizione filosofica contemporanea, che fa appello alle virtù, condivide una visione negativa e antivirtuosa del mercato, che invece non ritroviamo assolutamente nell’economia civile (né negli autori che nel Novecento hanno ripreso questa linea di pensiero, da Luigi Einaudi a Giacomo Becattini). Per questi economisti civili, non solo il mercato non si oppone né erode le virtù civili, ma è visto come il luogo nel quale le virtù civili possono essere sviluppate e coltivate adeguatamente e pienamente.
Questa attenzione italiana al tema delle virtù civili ha radici antiche. Innanzitutto c’è il repubblicanesimo romano, la vita della civitas e la res publica così come vengono descritte, e in un certo senso inventate, da Cicerone, Seneca e dagli scrittori morali romani. La città non nasce dal gioco degli interessi ma dalla ricerca intenzionale del bene comune, e da tanti cittadini virtuosi che compiono azioni buone perché ciò è espressione dell’essere buoni cittadini. L’eredità del repubblicanesimo fu grande per tutto il Medioevo e fino alla modernità quando, soprattutto in Italia e nei Paesi latini, si incontrò felicemente con l’avvento dell’umanesimo cristiano, che riprese le virtù aristoteliche e stoiche, ma, dai Padri fino alla grande Scolastica, le riempì di nuovi contenuti e significati. Si pensi, ad es., alla classica distinzione tra le virtù cardinali (che sono nella loro sostanza una declinazione delle antiche virtù greche e romane) e le virtù teologali (fede, speranza, agape), che sono invece un portato originale del cristianesimo. Le virtù teologali non sostituiscono ma completano le virtù cardinali; e viceversa. La christianitas incorpora pienamente nella sua morale, antica e nuova, l’etica delle virtù e del bene comune, che si esprime anche in una ecclesiologia basata sulla metafora paolina del ‘corpo mistico’, che rimanda direttamente al concetto classico di bene comune (il bene di un membro è anche direttamente il bene di tutto il corpo). La santità, l’eccellenza cristiana, viene associata e condizionata al raggiungimento delle virtù eroiche. Tutta la morale cristiana classica ha come suoi cardini le virtù.
La convivenza e complementarità tra virtù antiche (o pagane) e nuove virtù cristiane continua anche durante il felice periodo dell’Umanesimo civile del Quattrocento italiano (toscano in modo tutto particolare). In questa stagione si afferma con forza, sia da autori direttamente legati alla chiesta (come gli esponenti della scuola francescana e domenicana, da Olivi a Bernardino da Siena) sia da autori laici come Poggio Bracciolini, Leonardo Bruni o Coluccio Salutati, che la vita buona è vita civile, e non fuga da questa. È, infatti, durante l’Umanesimo civile che si ri-traducono l’Etica Nicomachea e la Politica di Aristotele, e con esse si fa strada l’idea di una vita politica come la condizione naturale per il raggiungimento della felicità. De vita civile diventa in questo periodo della storia della cultura italiana non solo il titolo di libri (come di quello di Matteo Palmieri, ad es.), ma lo slogan di tutto un movimento culturale che comprendeva politici, mercanti, santi, artisti, poeti, musicisti e banchieri (Bruni 2010). Con le inevitabili ambivalenze di ogni epoca (tra cui una certa tendenza all’esclusione dalla civitas degli inaffidabili e dei poveri: cfr. Todeschini 2004), l’etica delle virtù civili divenne una via nota dell’etica del nuovo cittadino, su cui nasceva poco alla volta la coscienza dell’ethos dell’Italia. Una dimensione che in certe fasi civilmente luminose divenne dominante (Umanesimo, Illuminismo, Risorgimento, ricostruzione e così via), e che in altre fu invece dominata da dimensioni meno civili (come quando, a partire dal tardo Cinquecento e dalla lotte tra Signorie, si iniziò ad affermare la tesi che la vita buona è vita rurale, con il relativo ritorno al sangue e agli ordini feudali).
L’incivilimento, nelle parole di Giandomenico Romagnosi, è stato comunque un grande termine, vero e profondo, dell’Umanesimo italiano; e anche quando questo incivilimento non si vedeva (come non si vede nella storia presente) vivo ne era (e ne è) sempre l’anelito. Nell’Ottocento l’intero movimento che ha portato all’unificazione dell’Italia condivideva questa vocazione civile. Francesco De Sanctis nella sua Storia della letteratura italiana (1870-71), Vincenzo Gioberti nel suo Del primato morale e civile degli italiani (1843), Antonio Rosmini (1797-1855) nella sua teologia con forte afflato civile, Giacomo Leopardi (1798-1837), Alessandro Manzoni (1785-1873), Carlo Cattaneo, Giuseppe Verdi (1813-1901), sono personaggi molto diversi tra di loro, ma accomunati dal concepire il proprio compito come mezzo di incivilimento, come impegno civile per il bene comune. Un impegno e un afflato che è continuato per buona parte del Novecento, prima durante e dopo il fascismo, nell’opera di Benedetto Croce, Gaetano Salvemini (1873-1957), Luigi Sturzo (1871-1959), ma anche nelle figure di economisti civili come Einaudi, Paolo Sylos Labini o Giorgio Fuà. Oggi l’Italia, la sua politica e la sua economia, e quindi la vita civile tutta, soffre perché deve ritrovare una nuova stagione di incivilimento e di economia civile, che è nel suo DNA storico, culturale e spirituale, nel suo ethos.
Montesquieu, De l’esprit des lois, 2 voll., Genève 1748 (trad. it. Spirito delle leggi, con le note dell’Abbate Antonio Genovesi, 2 tt., Napoli 1777).
G. Dragonetti, Delle virtù e de’ premi, Napoli 1766.
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