MALVEZZI, Virgilio
Nacque a Bologna nel 1414, secondo figlio di Gaspare di Musotto e di Giovanna Bentivoglio.
Tra tutti i fratelli si distinse per effettiva capacità imprenditoriale e sagacia politica e portò a compimento le scelte politiche del padre e, al più alto livello, le fortune della famiglia. Il primo incarico assunto, quello di depositario del dazio della mercanzia, rivela chiaramente quali fossero le sue doti e le sue inclinazioni.
Il dazio, che a Bologna e contado colpiva le merci in entrata e uscita, era destinato in gran parte, per bolla di Eugenio IV del 1437, a pagare i dottori dello Studio, e a loro era affidato il controllo della sua amministrazione. Il Collegio dei dottori di diritto civile il 15 dic. 1438 scelse il M. quale depositario del dazio. Per garantire il pagamento dei salari anche in periodi di crisi, il depositario doveva attingere da una solida base finanziaria, ma il reddito conseguibile nel lungo periodo era veramente alto e il M. procurò di essere confermato ininterrottamente.
La prigionia imposta nell'ottobre 1442 da Francesco Piccinino ad Annibale Bentivoglio, a Gaspare e ad Achille Malvezzi, padre e fratello del M., gli diede modo di affermarsi anche come esponente politico di rilievo nella fazione bentivolesca. Condivise la responsabilità del piano, approntato da Galeazzo Marescotti per liberare A. Bentivoglio, e delle successive iniziative che consentirono alla fazione di riprendere la supremazia in città. Ebbe quindi i primi uffici pubblici: gonfaloniere del Popolo nel 1444; anziano, priore dei Regolatori delle entrate del Comune, ambasciatore ad Astorre Manfredi nel corso del 1446. In questo anno fu anche uno degli esponenti della fazione che indussero Sante Bentivoglio ad assumerne la guida, al posto di Annibale ucciso da Battista Canetoli nel giugno 1445. Gli interessi del M. si estendevano tuttavia ben oltre le mura della città. Lo rivela la lettera del 28 febbr. 1448 con cui Niccolò V lo nominava suo familiare e scudiero d'onore, conferendogli, oltre ai relativi privilegi, il passaporto con libertà dai dazi, per gli affari del papa e quelli suoi personali.
Nel maggio 1449 la sedizione guidata da Giovanni Fantuzzi e Romeo Pepoli, già fautori di S. Bentivoglio e ora decisamente ostili alla sua aspirazione alla signoria, provocò una crisi nella fazione e nel governo della città. Ammesso in agosto con il fratello Achille tra i Riformatori, ove era già il padre, il M. sostenne le iniziative più decise nei confronti dei ribelli, attestatisi in Castel San Pietro. In novembre andò ambasciatore a Firenze e a Venezia a perorare la causa di S. Bentivoglio e nel marzo 1450, liberato Castel San Pietro, vi fu inviato come commissario. Vi restò fino a giugno 1451, quando, nel timore che la drastica azione condotta da S. Bentivoglio contro i ribelli dispiacesse a Niccolò V, gli fu inviato come ambasciatore insieme con Gaspare Ringhieri. Loro tramite, Niccolò V fece chiaramente intendere al governo di Bologna che approvava l'azione fino ad allora condotta e ne avallava un'efficace conclusione. Nello stesso 1451 assunse l'ufficio di capitano della Montagna e andò come ambasciatore a Firenze, nel corso delle ultime iniziative che, in accordo con il legato pontificio cardinale Bessarione, assicurarono stabilità alla supremazia di S. Bentivoglio.
Il 6 nov. 1452, morto il padre Gaspare, il M. ne prese ufficialmente il posto nel Collegio dei riformatori, l'organo che, sotto la guida di S. Bentivoglio, governava di fatto la città. Una clausola della delibera di Collegio, con cui il M. fu cooptato, prevedeva che in sua assenza potesse intervenire e votare il fratello Achille. Questa possibilità, che garantiva alla famiglia una presenza costante nell'organo di governo, era riservata a pochissimi membri e il M. e il fratello ne usufruirono con attenta assiduità.
Negli anni seguenti, caratterizzati da una forte stabilità interna, il M., in posizione di sicuro prestigio e consenso nella fazione al governo, svolse soprattutto incarichi di rappresentanza, che gli consentivano anche ampio spazio per la cura degli interessi privati. Nel 1452 fu inviato a nome della città a Federico III d'Asburgo, diretto a Roma per l'incoronazione imperiale; nel 1455 ospitò in varie occasioni Giovanni d'Angiò, Alessandro fratello di Francesco Sforza e Ferdinando d'Aragona, futuro re di Napoli; intrattenne, inoltre, rapporti con Alfonso re del Portogallo. Agli attestati della loro amicizia si unirono altre significative concessioni: nel gennaio 1453 aveva avuto da Niccolò V il patronato sulla chiesa di S. Sigismondo, nella cui parrocchia era la casa di famiglia, e in settembre 1458 da Pio II ottenne il titolo di conte di Castel Guelfo. In entrambi i casi le concessioni si estendevano agli altri fratelli, Achille, Ludovico, Ercole e Pirro; tuttavia, poiché Ludovico ed Ercole avevano scelto la via delle armi (erano capitani al servizio di Venezia e di Napoli) e Achille era cavaliere dell'Ordine di S. Giovanni di Rodi, pur non in contrasto con i fratelli, il M. agiva con forte autonomia, e la cura degli interessi della famiglia in città e nel feudo di Castel Guelfo era in pratica nelle sue mani, con la sola collaborazione del fratello Pirro, molto più giovane.
Tra 1454 e 1457 il M. effettuò numerosi acquisti, a nome anche dei fratelli, di edifici nella parrocchia di S. Sigismondo per estendere la grande casa che essi vi possedevano. Era la casa avita, già ingrandita dal padre, e in cui il M. risiedeva con la moglie, Caterina di Andrea Bentivoglio, sposata nel 1447, e con i loro numerosi figli. Caterina morì, sembra, nel 1458 e il M. passò a seconde nozze con Caterina di Battista Poeti, con la quale ebbe altri figli. Che da questa numerosa prole, giunta a contare dodici figli, il M. abbia tratto motivo per chiedere al legato, cardinale Angelo Capranica, l'esenzione da dazi e gabelle rivela che onori e ricchezze accumulate non avevano attenuato la sua attenzione per gli aspetti strettamente finanziari che potevano essergli utili.
Nell'ottobre 1459 la morte di Filippo Bargellini, uno dei Sedici riformatori, rivelò l'esistenza di un contrasto tra il M. e S. Bentivoglio. Al posto di Bargellini, fedele bentivolesco, il M. fece in modo che fosse nominato Carlo Bianchetti, a lui fortemente legato. S. Bentivoglio, che aveva già mal sopportato che il M., sovrapponendosi ai tempi della giustizia, avesse liberato dal carcere, ove era a torto detenuto, l'amico Giovanni Felicini, mostrò di aver compreso la sfida insita in tale nomina. Richiamò dal bando Guido e Galeazzo Pepoli e ottenne loro la nomina a conti di Castiglione, che li parificava al Malvezzi. Fece quindi nominare come soprannumerari dei Sedici riformatori sette suoi fedelissimi, assicurandosi così il controllo del collegio. Il M. dovette a sua volta comprendere il significato di questi fatti e se mancò una sua aperta reazione procurò non di meno di elevare ancora la posizione propria e della sua famiglia. Il 15 luglio 1460 ottenne per sé e per i fratelli dall'imperatore Federico III la nomina a conte palatino; l'11 novembre ebbe da Pio II, tramite il legato, terre e diritti a Castel Guelfo e nel 1461 il patronato sulla chiesa ivi edificata.
Nel gennaio 1462 il M. andò ambasciatore a Milano e la missione portò un tributo di 20.000 lire al duca Francesco Sforza, pagate dalla Tesoreria di Bologna. Il M. aveva agito evidentemente per incarico dei Riformatori e con l'assenso di S. Bentivoglio, ma la frattura creatasi tra loro non si era affatto ricomposta e tornò a manifestarsi quando Sante cercò di allontanare da Bologna, per avviarlo alla pratica delle armi, il giovane cugino Giovanni, figlio di Annibale, designato suo successore alla guida della fazione. Il M. si oppose a tale iniziativa, giudicandola un pretesto di Sante per rafforzare la sua supremazia in Bologna, contro i patti che prevedevano il primato del figlio di Annibale.
La morte di Sante il 1( ott. 1463 aprì la via alla successione di Giovanni, e il rapporto del M. con questo, che aveva chiesto la collaborazione dei maggiorenti della fazione, fu molto diverso da quello ultimamente intercorso con Sante. Nel 1464 fu due volte ambasciatore a Milano, per assicurare al giovane Bentivoglio il fondamentale appoggio di Francesco Sforza e nel giugno 1466, quando il legato Angelo Capranica rese pubblico l'elenco dei Ventuno riformatori, nominati a vita dal papa Paolo II, il M. vi risultò incluso, insieme con il cugino Carlo. Quella dei Malvezzi fu così la sola famiglia, oltre ai Bentivoglio, a contare due rappresentanti in tale Collegio.
Nel 1467 il M. assolse due ambascerie assai delicate. In agosto fu inviato a Borso d'Este, dopo che il 25 luglio, in uno scontro a Molinella, era rimasto ferito Ercole d'Este, che combatteva al soldo di Venezia sotto il comando di Bartolomeo Colleoni. In dicembre fu convocato a Roma da Paolo II, ma i Riformatori, consci della diffidenza del papa per l'accentuarsi del primato di Giovanni Bentivoglio e con esso dell'autonomia di Bologna, vollero che egli agisse in veste di rappresentante della città. L'oligarchia cittadina manifestava così il proprio favore per la situazione esistente. La missione si protrasse a lungo, rivelando con ciò le gravi difficoltà che a essa inerivano. Solo il 28 ag. 1468 il M. rientrò a Bologna, al seguito del nuovo governatore pontificio, Giovan Battista Sabelli, la cui nomina indicava che la tensione con la Curia romana si era molto attenuata.
Negli anni seguenti le note più rilevanti della vicenda del M. non vennero dagli uffici pubblici, pochi e di scarso impegno, bensì dalle questioni private e dalla gestione del suo patrimonio. Nel 1465 definì con i fratelli i rispettivi diritti sui beni in comunione e l'anno dopo completò la ristrutturazione della casa avita in parrocchia di S. Sigismondo. Dal 1471 al 1476, per lo più con il fratello Pirro, integrò le proprietà nel contado con acquisti di terre soprattutto a Castel Guelfo e nelle località vicine. Intensi furono in questo periodo i rapporti con Lorenzo de' Medici con scambi di favori per i rispettivi amici. Scarsi sembra invece fossero i loro rapporti di affari, limitati ad alcune anticipazioni richieste dal M. al banco dei Medici in Roma.
Il 30 ott. 1477 il fratello del M., Ercole, capitano di cavalieri al soldo di Venezia, cadde prigioniero dei Turchi nella battaglia a Gradisca d'Isonzo. Il M. si adoperò in ogni modo per ottenerne la liberazione, ma il fratello morì, mentre era condotto a Costantinopoli, per le ferite riportate in battaglia. Anche il figlio Annibale, parimenti al soldo di Venezia, fu preso prigioniero, in circostanze non ben chiarite, da alcuni tedeschi. Per la sua liberazione il M. ottenne il diritto di rappresaglia su merci in transito a Bologna, provocando una protesta di mercanti fiorentini di cui è traccia nelle lettere a Lorenzo de' Medici. Il M. chiese e ottenne anche l'intervento del papa Sisto IV, ma né la rappresaglia né l'intervento del pontefice portarono al risultato sperato; Annibale fu liberato solo nel 1482, dopo la morte del M., per interessamento di Giovanni Mocenigo, doge di Venezia, e dietro pagamento di un forte riscatto.
Agli avvenimenti che nell'ottobre 1477 avevano segnato negativamente la vita del M. fece riscontro la ripresa da parte sua di impegni e incarichi pubblici. Nell'ottobre 1478, d'intesa con Giovanni Bentivoglio, promosse la costruzione del portico che fiancheggia la chiesa di S. Giacomo, una delle più significative testimonianze del Rinascimento in Bologna. Nel 1479 il legato, cardinale Francesco Gonzaga, lo inviò con Ludovico Sampieri a Cento, terra di giurisdizione del vescovo, dove per contrasti sul sistema di distribuzione delle terre comuni si erano avuti violenti scontri, nel corso dei quali era stato ucciso il commissario inviato dal vescovo. Il M. e Sampieri, con l'aiuto anche di milizie estensi e infliggendo pesanti condanne ai responsabili delle violenze, ristabilirono l'ordine, consentendo così di giungere a una definizione dei criteri di distribuzione delle terre, favorevoli alla oligarchia locale.
A celebrazione del fatto il suo volto fu effigiato in una medaglia d'oro, coniata da Sperandio da Mantova, la cui legenda lo definiva "patriae decus et libertatis custos". Era una sorta di riconoscimento dell'appoggio che il M. aveva sempre dato a una gestione del potere in Bologna che privilegiava la componente cittadina. Si era mostrato disponibile ad accettare la supremazia dei Bentivoglio, ma non altrettanto disposto a subire la sua trasformazione in effettiva signoria: prodromo di un possibile scontro con Giovanni Bentivoglio, che, forse, solo la morte del M. impedì.
Il 2 nov. 1482 fece testamento. Oltre a legati a figlie, nuore e cognate, volle fossero estesi ai fratelli e ai loro eredi i benefici di esenzione dai dazi e la depositeria perpetua del dazio della mercanzia disposti a suo favore dall'autorità pontificia, e nominò eredi i figli maschi superstiti: Giulio, Enea, Annibale e Bessarione e il nipote Tizio, figlio del defunto Carlo. Morì pochi giorni dopo a Bologna e fu sepolto nell'arca di famiglia in S. Giacomo.
Giovanni Garzoni, letterato, dottore dello Studio, medico personale di Giovanni Bentivoglio, ne celebrò pochi giorni dopo la figura in un'orazione funebre, il cui testo fu interamente edito nel 1794 da Fantuzzi.
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G. Tamba