MALVEZZI, Virgilio
Nacque a Bologna l'8 sett. 1595 da Piriteo, barone di Taranta e di Quadri, marchese di Castel Guelfo, senatore di Bologna, e da Beatrice Orsini, sua seconda moglie.
Compiuti nella città natale gli studi di umanità e diritto, conseguì il dottorato in utroque iure il 2 ott. 1613. Dal 1614 al 1622 seguì il padre a Siena, dove questi era stato nominato governatore dal granduca di Toscana Cosimo II. Qui il M. trovò un ambiente culturale vivace e aperto, dove maturò conoscenze nel campo della storia, della politica, della filosofia, della poesia, della musica, della pittura e dell'astrologia, e strinse importanti amicizie intellettuali, come quella, proseguita per tutta la vita e testimoniata da un ampio carteggio, con Fabio Chigi, il futuro papa Alessandro VII (Lettere a Fabio Chigi, a cura di M.C. Crisafulli, Fasano 1990). Gli anni senesi fruttarono la prima opera a stampa, i Discorsi sopra Cornelio Tacito, pubblicati a Venezia nel 1622 con dedica a Cosimo II, presso il quale il M. cercò invano una sistemazione in quello stesso anno.
Con i Discorsi il M. si inseriva nella vasta temperie del tacitismo europeo, sviluppando questioni storiche e politiche con l'apporto di un'ampia erudizione (oltre a Tacito, soprattutto Seneca, il cui studio il M. approfondì grazie a un'altra conoscenza senese, Ettore Nini, e Plutarco). Nella prefazione è una decisa lode allo stile laconico di Tacito, peraltro non impiegato dal M. nell'opera. Sul piano dei contenuti, i Discorsi rivelano un quadro teorico di pieno accoglimento del paradigma della conservazione politica, fondato sulla prudenza e sulla forza.
Nel 1622 il M. seguì in patria il padre, che aveva rinunciato alla carica senese. Nel 1623, costretto dalle difficoltà economiche, ricevette da Filippo IV di Spagna, in forza di antichi legami tra la famiglia Malvezzi e la monarchia spagnola, la cedola per la prima compagnia di uomini d'arme che si fosse resa vacante nel Ducato di Milano. Partì per militare sotto le insegne del duca di Feria Gómez Suárez de Figueroa nel 1625, dopo un importante passaggio a Roma l'anno prima.
Lì aveva conosciuto gli intellettuali vicini a Urbano VIII Barberini, tra i quali il futuro cardinale Sforza Pallavicino, di cui il M. era zio, e prese parte con un discorso (Ragioni per le quali i letterati credono non potere avvantaggiarsi nella corte) all'accademia patrocinata dal cardinale Maurizio di Savoia, riferendone non senza perplessità a Chigi. Già da allora, in particolare, maturò riserve su Agostino Mascardi, più tardi fermo oppositore dello stile del M., cui toccò a ogni modo di curare la pubblicazione, nella silloge di Saggi accademici (Roma 1630), del discorso del Malvezzi. Agli stessi anni va fatta risalire un'esigua attività poetica, consegnata a poche prove rimaste inedite (Bulletta, 1995, p. 15).
Durante la campagna militare, già fiaccato da gravi problemi di salute destinati ad accompagnarlo per l'intera esistenza, partecipò alla presa di Acqui e all'assedio di Verrua. Rientrato a Bologna, nel 1626 venne incaricato di accompagnare Claudia de' Medici presso il marito Leopoldo arciduca d'Austria, e con l'occasione visitò la Germania in un tragitto costellato di buone accoglienze ma poco ricordato in seguito dal M. (l'unica fonte in Bulletta, 1995, pp. 19 s.). Di nuovo in patria, dovette affrontare un periodo pieno di traversie finanziarie e familiari intervallate da momenti di quiete e studio. Il 27 luglio 1627 divenne senatore a seguito dell'abdicazione del padre, ormai in gravi condizioni di salute. Alla sua morte, avvenuta il 29 ott. 1627, il M. ereditò anche i titoli nobiliari insieme con il fratello Marco Antonio (la trasmissione del feudo era stata sancita da un breve papale già nel 1617). Nella quiete di Castel Guelfo e nel vivace quadro culturale di Bologna il M. strinse legami con importanti pittori, tra i quali Guido Reni, poi autore dei frontespizi delle sue opere e di un suo ritratto, e con altri letterati quali Giovan Battista Manzini: quest'ultimo pubblicò, all'insaputa dell'autore, una breve lettera del M. in lode del Ratto d'Elena di Reni (Il trionfo del pennello. Raccolta d'alcune compositioni nate a gloria d'un Ratto d'Helena di Guido, Bologna 1633). Nel medesimo periodo il M. si diede a "discorrere" Livio, ponendo le basi per un ampio progetto di biografie politiche dei re di Roma. Il Romulo, pubblicato a Bologna nel 1629, fu il primo libro di grande successo del M.: egli vi inaugurava uno stile peculiare, intervallando alla narrazione storica ricavata dalle fonti classiche (non solo Livio, ma anche Plutarco) osservazioni politiche e morali non più presentate con ampie citazioni d'autorità ma in veste aforistica e con una sintassi assai ardua.
Il passaggio, sul piano dello stile, a un laconismo quasi estremo e ai più tipici moduli del tacitismo (come le orationes fictae) fa da contraltare alla scelta, rara per quei tempi, di ripercorrere le orme di N. Machiavelli nella discussione dello storico repubblicano per eccellenza. Col Romulo il M., che dichiaratamente scrive "a' Principi", oppone al ritratto di un buon principe, Romolo, quello del tiranno Amulio, denunciando l'inefficacia delle tecniche prudenziali e dissimulatorie e dell'uso della forza di fronte all'imprevedibilità dei sudditi, mossi soltanto dall'interesse. Al contempo, entra in crisi per il M. il precetto dell'historia magistra vitae, innescando una riflessione sull'impiego dell'esempio storico da parte del politico contemporaneo.
Negli stessi anni il M. dovette affrontare difficoltà cagionate da alcune frequentazioni e parentele turbolente. G.B. Manzini, divenuto suo uomo di fiducia, fu coinvolto in un conflitto a fuoco e costretto a lasciare Bologna: il M. gli procurò protezione e salvacondotti, adoperandosi anche negli anni successivi per accasarlo presso altri principi italiani, senza peraltro esserne ripagato se non da una costante e torbida rivalità letteraria. Nel 1630-31 il M. fu protagonista, insieme con il nipote Ludovico (Lodovico), di due scontri cavallereschi: il primo con il nobile Francesco Piccolomini, schiaffeggiato dal M. per avergli ostruito la vista di un elefante in un'esposizione pubblica; il secondo, assai più grave e costellato di omicidi e spedizioni armate, con la famiglia Malvasia. La condotta dei Malvezzi attirò l'attenzione dei legati pontifici, il cardinale Bernardino Spada prima e Antonio Santacroce poi: quest'ultimo comminò loro l'esilio, poi revocato - grazie anche alle intercessioni di Chigi e di Pallavicino - e rinnovato più volte. In questi frangenti il M. trovò il tempo di compiere il Tarquinio Superbo, andato a stampa a Bologna nel 1632 con ampio successo.
Il libro, inviato per una lettura, suscitò non poche perplessità in Chigi per un'ambigua aderenza, oltre che per una citazione poi eliminata, al dettato machiavelliano. Nelle intenzioni del M., Tarquinio è l'esempio da evitare - il tiranno - di una forma di governo - il principato - in sé incolpevole. L'azione di Bruto, che caccia i Tarquinii e instaura la repubblica, pecca di eccesso perché ignora come la libertà possa convivere con la monarchia e non solo con la forma repubblicana. Alla libertà e ai mutamenti interiori della natura umana deve invece applicarsi l'osservazione dei politici, rifiutando l'esercizio della forza e la stessa reiterazione delle tecniche simulative e dissimulative. La vicenda di Tarquinio, però, è analizzata dal M. sulla sola base dell'intelligenza politica (che può giustificare anche il tirannicidio), senza il ricorso a fondamenti di ordine morale o al concetto della inviolabilità del sovrano quale rappresentante della volontà divina, con esiti di notevole ambiguità.
Unica altra tessera del progetto liviano è la Vita di Numa Pompilio, rimasta manoscritta ma precedente le due biografie pubblicate e in larga parte confluita in esse (ed. in Bulletta, 1995, pp. 253-270).
Gli incidenti cavallereschi e la vicinanza alla Spagna, resa ancor più evidente dall'appoggio dato al Collegio spagnolo di Bologna (ricambiato più tardi da una pensione remunerativa di Filippo IV) e dall'intercessione di corrieri spagnoli a pro del M. durante l'esilio, guastarono definitivamente i rapporti con i Barberini. Nel 1632 una lettera consolatoria (Del disprezzo delle dignità) in stile senecano partecipata dal M. a Chigi fu intesa a Roma come diretta a Giovanni Ciampoli, allontanato (al pari di Sforza Pallavicino) dalla corte papale anche in seguito al processo a Galileo: la lettera venne stampata, probabilmente contro la volontà dell'autore, a Milano nel 1634 e poi più volte in calce ad altre opere del M. (Betti, 1993-94). Del progressivo peggioramento dei rapporti con i Barberini dà conto il mutamento di dedicatoria del Davide perseguitato, pubblicato nel 1634 in cinque città diverse e indirizzato non a Urbano VIII, come inizialmente previsto, ma a Filippo IV di Spagna. Con l'opera, definita dallo stesso autore "libro interessato", il M. inaugurò un rapporto di protezione e servigi con la monarchia spagnola destinato a durare sino al 1645. Dal 1634, la protezione spagnola doveva bloccare la confisca del feudo di Castel Guelfo, sentenziata invece irrevocabilmente, poco tempo dopo, dal papa.
Inclemente nelle vicende giudiziarie, Urbano VIII, insieme con altri prelati e letterati, si mostrò invece sensibile all'opera letteraria del M.: il Davide, ammirato da Pallavicino per l'intento di "pacificare insieme la politica e la pietà", piacque a Roma e in tutta Italia, giungendo ben presto agli onori di plurime ristampe e traduzioni europee. Costruito secondo il consueto modulo di commento aforistico a una fonte, il Davide costituisce di fatto una lunga dissertazione di carattere politico e morale sulla storia di Saul e Davide. La scelta di un soggetto biblico trova le sue premesse nel panorama culturale bolognese, dove i fratelli Manzini avevano da poco inaugurato il genere del romanzo religioso, e si fonda per il M. nella convinzione, espressa nelle prime pagine, che nella Bibbia siano già impliciti i fondamenti di una saggia amministrazione del potere. L'opera si incentra sul problema dell'obbedienza: il M. denunzia le incrinature della ragion di Stato, inefficace a neutralizzare la forza che governa l'uomo e che è causa di disordine sociale, ossia l'interesse. All'esercizio della forza il M. preferisce la ricerca di una mediazione tra obbligo morale e obbligo politico, tra prudenza politica e saggezza dei cittadini "savii", per giungere a una valida integrazione tra legge civile e legge morale naturale.
Dopo la pubblicazione del Davide, il M. strinse vieppiù i rapporti con la Spagna, avviando una stretta corrispondenza con l'ambasciatore spagnolo a Venezia, Juan de Vera y Figueroa conte de La Roca, d'intesa col quale intraprese la stesura del Ritratto del privato politico cristiano. Il volume, costruito sui materiali documentari forniti dal diplomatico, è la biografia di Gaspar de Guzmán conte duca di Olivares, privado di Filippo IV, presentata dal M. come l'idea del perfetto favorito e intessuta, come di consueto, di massime politiche di valore universale.
Olivares è simbolo di un istituto politico, quello della "privanza", che non sorge da interesse di Stato ma dall'"affetto dell'animo" verso il re, e che per essere efficace deve incarnarsi in una figura eminente, interamente devota al sovrano e amata dal popolo, ma soprattutto capace di essere unico "architetto" della "mole della monarchia". Fondamento dell'azione del perfetto ministro non è più la prudenza politica ricavata adattando l'azione di governo ai modelli provenienti dalla storia antica, ma l'esperienza tratta dall'osservazione del sempre mutabile agire dell'uomo, in un approfondimento antropologico che sarà la chiave della successiva riflessione del Malvezzi.
Il Ritratto, pubblicato a Bologna nel 1635 con dedica ancora al re di Spagna e di grande successo editoriale entro e fuori d'Italia, rappresentò di fatto il passaporto del M. per il suo passaggio a Madrid. Una nuova contesa armata con la famiglia Ghislieri, colpevoli i nipoti Ludovico e Sigismondo Malvezzi, e la successiva condanna di Ludovico per lesa maestà provocarono infatti la definitiva confisca dei beni e l'esilio del M., pure in questo caso innocente.
Nel luglio del 1636 partì alla volta di Madrid, imbarcandosi da Genova, ove godeva di amicizie e protezioni grazie anche all'accoglienza tributata l'anno prima, a Bologna, all'esule genovese Gian Vincenzo Imperiale, col quale sopravvive un carteggio proseguito da Madrid e al quale il M. indirizzò una lettera consolatoria subito andata a stampa (ed. in Avellini, Letteratura e città, pp. 259-270). Giunto a corte, il M. entrò immediatamente nelle grazie del conte duca, che gli procurò l'incarico di storiografo ufficiale della monarchia oltre a un ricco trattamento. Il lavoro, condotto su documenti di prima mano poi rimasti tra le carte del M. e oggetto al suo ritorno di ripetute (vane) istanze da parte della corte, doveva narrare la storia della monarchia spagnola dagli ultimi anni del regno di Filippo III sino al presente. I primi due libri, in spagnolo e comprendenti appunto lo scorcio del regno di Filippo III, vennero stampati (dalla Emprenta real) ma non pubblicati, e sopravvivono in pochissimi esemplari. Dei successivi cinque, la cui stampa fu interrotta dagli eventi, soltanto due sono stati ritrovati manoscritti e pubblicati nel 1968 da D.L. Shaw.
Dal lavoro storico il M. trasse, rispettivamente nel 1639 e 1640, due altre opere accolte da violente polemiche da parte dei detrattori di Olivares. La libra traducida de italiano en lengua castellana. Pesanse las ganancias y las pérdidas de la monarquía de España en el felicíssimo reynado de Felipe IV el Grande, stampata in spagnolo sotto lo pseudonimo di Grivilio Vezzalmi (Pamplona [1640]), era dedicata in gran parte ad attribuire al conte duca il merito della vittoria spagnola di Fuenterrabía nel 1638. Pure apertamente apologetica della politica di Olivares la seconda opera, i Successi principali della monarchia di Spagna nell'anno 1639, stampata in spagnolo nel 1640 e in italiano, ad Anversa, nel 1641, con un'importante prefazione sullo statuto della scrittura storica.
In quegli anni il M. entrò a far parte del Consiglio di guerra di Filippo IV e fu nominato membro del Consiglio collaterale di Napoli e del Consiglio di Stato di Milano. A Madrid, non troppo ben visto dagli oppositori di Olivares per i toni celebrativi e parziali delle opere storiografiche, il M. acquistò tuttavia prestigio e autorità, come testimonia un altro carteggio ancora inedito, quello con Fulvio Testi, ambasciatore di Francesco I d'Este a Madrid, che dedicò all'Istoria del M. una canzone poi stampata tra le sue Poesie (Bulletta, 1995, pp. 37 ss.; Carminati, 2007, p. 372). Al centro di relazioni intellettuali importanti e ancora da indagare, come quella con Francisco de Quevedo (già dal 1632 traduttore del Romulo: El Rómulo, a cura di C. Isasi Martínez, Bilbao 1993), il M. ebbe modo di coltivare l'antica passione per la pittura e conobbe Diego Velázquez.
Segno della fiducia riposta dal re in un personaggio sulle prime accolto con diffidenza in corte fu la nomina nella primavera del 1640 ad ambasciatore straordinario in Inghilterra. Il M. giunse a Londra in aprile per affiancare don Alonso de Cárdenas, ambasciatore residente, e Antonio Sancho Dávila marchese di Velada, altro ambasciatore straordinario arrivato poco prima. Il loro compito consisteva nel procurare un'alleanza anglo-spagnola con intenti antiolandesi, da consolidare con un cospicuo contributo in denaro erogato da Filippo IV e con un eventuale matrimonio tra il figlio di Carlo I d'Inghilterra e l'infanta Maria di Spagna. Gravata sin dal principio dalle difficoltà finanziarie della Spagna e dai sospetti degli Inglesi, oltre che dalla crescente acredine nei confronti dei cattolici, l'ambasceria fallì miseramente, ma anche a Londra il M. ebbe modo di allacciare amicizie intellettuali importanti: con il romanziere e storico riformato Giovanni Francesco Biondi, con l'erudito eugubino Vincenzo Armanni, con importanti scrittori inglesi poi traduttori delle sue opere, più volte stampate Oltremanica. Alla ribellione catalana occorsa durante l'ambasceria il M. dedicò in quei mesi un Breve discorso d'alcuni successi della monarchia di Spagna nell'anno 1640, rimasto manoscritto (Biblioteca apostolica Vaticana, Chigi, Q.II.46, cc. 189-200), in cui con toni violenti si accusava la Catalogna di ingratitudine e di miopia, per non aver saputo vedere come la libertà possa convivere con la sudditanza alla monarchia.
Ripartito da Londra dopo un anno, il M. fu inviato nelle Fiandre come consigliere del cardinale infante Ferdinando, fratello del re e governatore dei Paesi Bassi spagnoli. Il M. fu incaricato di foraggiare e sobillare i principi uniti, nobili francesi ostili a Richelieu, perché si unissero all'esercito spagnolo nella campagna di Fiandra. Per due mesi il M. si mosse concitatamente tra Bruxelles, Sedan, Lussemburgo, in difficoltà di salute e di denaro visto lo stato pessimo delle finanze spagnole, alla ricerca di accordi segreti con i principi per tentare la difficile difesa di Aire e per indurre l'entrata in armi a fianco della Spagna del potente duca di Lorena. Anche questo tentativo, però, fallì già al principio di agosto 1641: nulla il M. poté fare per arginare una situazione che le rivolte catalana e portoghese avevano resa disastrosa e cui si aggiunse di lì a poco la morte del cardinal infante, nel novembre 1641. Il M. ottenne la nomina a ministro del nuovo governatore Francisco de Melo e continuò l'attività diplomatica da Bruxelles, l'anno successivo, con relativa tranquillità e ben inserito nell'aristocrazia locale (un carteggio con la turbolenta duchessa di Chevreuse Marie de Rohan, in Arch. di Stato di Bologna, Malvezzi - Lupari, 368-373, passim). Da Bruxelles egli apprese la disgrazia del conte duca nel gennaio 1643: a luglio, dopo molte insistenze, ottenne lo sperato rientro a corte. Raggiunto il re a Saragozza, il M., fedele all'antico protettore, chiese invano di poter raggiungere il conte duca di Olivares nel suo esilio; dopo la rinuncia per motivi di salute a una nuova ambasceria al duca di Baviera e dopo ripetute istanze ottenne invece, nel giugno del 1645, il permesso di rientrare in patria.
Approdato nuovamente a Genova, il M. ebbe modo di rivedere Imperiale e di incontrare letterati importanti come Matteo Pellegrini (suo conterraneo) e Luca Assarino. Di lì fece ritorno a Bologna, dove visse gli ultimi anni dividendosi tra la città e la campagna di Castel Guelfo. Rivestito l'abito senatorio, nel 1646 fu nominato gonfaloniere di Giustizia; nel medesimo 1646 l'Accademia bolognese dei Gelati, alla quale prendeva parte col nome L'Esposto, lo nominò suo principe, a testimonio di un prestigio indiscusso acquisito con i meriti politici e letterari.
Durante il soggiorno spagnolo, infatti, il M. era stato al centro di una polemica sullo stile della prosa provocata dall'uscita dell'Arte istorica di A. Mascardi (Roma 1636). Se il bersaglio esplicito di Mascardi, sostenitore del ciceronianesimo, era lo storico francese Pierre Matthieu, della cui prosa "spezzata" e composta di "minuzzoli di sentenze", mutuata da Seneca e Tacito, si faceva ampia censura, i letterati italiani non tardarono a riconoscere quale bersaglio implicito proprio il M., maestro incontestato dello stile "moderno" in Italia. La polemica coinvolse Manzini, Pellegrini, Pallavicino, D. Bartoli e numerosi altri prosatori e romanzieri da Genova a Bologna alla veneziana Accademia degli Incogniti; essa proseguì anche Oltralpe, nelle missive dei letterati presenti in Italia (come G. Naudé) e in opere quali le Considérations sur l'éloquence française de ce temps di F. de La Mothe Le Vayer (1638) e la Nouvelle allégorique ou Histoire des derniers troubles arrivés au royaume d'éloquence di A. Furetière (1658).
Abbandonato dopo il Tarquinio il progetto di discorrere Livio, il M. si applicò invece a Plutarco: già a gennaio 1646 egli rivelava a Sforza Pallavicino di avere "discorso otto Vite di Plutarco, cioè di Numa Pompilio, di Licurgo, di Theseo, di Solone, d'Alcibiade, di Coriolano, di Bruto e d'Alessandro Magno" (Carminati, 2000, p. 374). Dell'ampio disegno, che prevedeva forse un riuso dell'accantonata Vita di Numa, a testimoniare la costanza della riflessione del M., giunsero a stampa nel 1648, a Bologna, le Considerazioni con occasione d'alcuni luoghi delle vite d'Alcibiade e di Coriolano.
Libro prediletto dal M., che lo giudicò superiore a tutti i precedenti, le Considerazioni denunciano con toni aspri il fallimento dell'opera della prudenza politica al fine della conservazione dell'ordine sociale. Il panorama si fa sempre più cupo: l'interesse e l'ambizione prevalgono e provocano corruzione e conflitto permanente, scindendo senza rimedio il piano individuale da quello della vita associata. Il M. suggerisce pratiche di difesa e di adattamento, ma nessuna soluzione, offrendo però con la sua stessa opera quella base di scavo psicologico e antropologico che sola può rappresentare un'alternativa al piatto e scolastico esercizio dei precetti prudenziali.
Delle altre vite plutarchee, non pubblicate né restituite da manoscritti, solo quella di Bruto è detta vicina al compimento.
Nel torno d'anni vicino alla stampa dell'Alcibiade il M., sempre più impedito dai malanni, sembra avere piuttosto l'urgenza di riguardare da lontano la propria esperienza nella politica attiva: accanto al progetto plutarcheo continua a vivere quello di scrivere contro Machiavelli (due discorsi rimasti manoscritti in Carminati, 2007, pp. 377-379); ma più forte è l'impegno di traduzione e riscrittura della Historia composta in Spagna. Fino alla fine il M. proseguì il lavoro sull'opera, riuscendo a stampare soltanto la rielaborazione del primo libro (Roma 1651), con il titolo di Introduttione al racconto de' principali successi accaduti sotto il comando del potentissimo re Filippo IV. Poco dopo, a testimoniare una militanza solo apparentemente sopita e la profonda fedeltà alla monarchia spagnola, scrisse e fece circolare manoscritta una lettera al nuovo privado di Filippo IV, don Luis de Haro, nella quale con fervore applaudiva alla ripresa spagnola del 1652, poi provatasi effimera (ed. in Carminati, 2000, pp. 426-429).
L'occasione della stampa dell'Introduttione aveva nel frattempo condotto il M. a Roma, dove nei primi mesi del 1651 poté rivedere Pallavicino e Pellegrini, allora custode della Biblioteca Vaticana. A quell'epoca il M. aveva autorevolezza tale da poter raccomandare Chigi, ancora nunzio ad Aquisgrana, per l'elezione a segretario di Stato dopo la morte del cardinale G.G. Panciroli (1651). A Roma egli proseguì anche l'annosa causa per riconquistare le proprietà confiscate (memoriale in Arch. di Stato di Bologna, Malvezzi-Lupari, 368/1, c. 21): una prima schiarita si ebbe soltanto nel 1653, ma la definitiva restituzione dei feudi alla famiglia Malvezzi avvenne al principio del 1656 (ibid., Istrumenti, 14/37).
Il M. morì a Castel Guelfo l'11 ag. 1654 e fu sepolto in S. Giacomo Maggiore a Bologna. Lasciò suo erede universale il nipote Sigismondo: non era giunto a vedere l'elezione al soglio pontificio, col nome di Alessandro VII, dell'amico di una vita, Fabio Chigi, alla cui firma si dovette appunto la restituzione dei feudi.
Per la bibliografia del M. si segnalano: i primi due libri della Historia in J.I. Yañez Fajardo y Montroy, Memorias para la historia de don Felipe III, Madrid 1723; Politici e moralisti del Seicento, a cura di B. Croce - S. Caramella, Bari 1930, pp. 255-286; D.L. Shaw, Edición y estudio preliminar, in V. Malvezzi, Historia de los primeros años del reinado de Felipe IV, London 1968; Il ritratto del privato politico cristiano, a cura di M.L. Doglio, Palermo 1993; Davide perseguitato, a cura di D. Aricò, Roma 1997.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Bologna, Arch. Malvezzi-Lupari, Lettere a V. M., bb. 368-373; Aldobrandino Malvezzi, Lascito testamentario, b. 6 (lettere); Fondo Fantuzzi-Ceretoli, 273/72 (lettere); Notarile, prot. E, cc. 9-10 (testamento, 6 ag. 1654, Notaio Carlo Antonio Mandini); Malvezzi de' Medici, l. 25 (inventari), Nota dei quadri di provenienza paterna (a firma di Ottavio Malvezzi Ranuzzi, a. 1847: tra i disegni è citato il ritratto del M. di G. Reni); Biblioteca apostolica Vaticana, Chigi, L.IV.79, cc. 186r-188r (Canzone in lontananza); Firenze, Biblioteca nazionale, Magliabechi, VII.878, cc. 208r-210r (Amante di donna spiritata); Roma, Biblioteca dei Lincei e Corsiniana, Mss., Carteggio di Cassiano dal Pozzo, XII, cc. 564-570 (quattro lettere del M.); Londra, British Library, Add. Mss., 20.028 (lettere, Vita di Numa Pompilio); Paris, Bibliothèque nationale, Mss. Ital., 624 (trad. francese inedita del Tarquinio Superbo); G. Ghilini, Teatro d'uomini letterati, I, Milano s.d., pp. 427 s.; E. Puteano, Epistolarum apparatus posthumus, Lovanii 1662, centuria II, lettere 55, 57, 58, 69; centuria V, lettere 73, 78; F. Testi, Lettere, a cura di M.L. Doglio, Bari 1967, ad ind.; B. Gracián, L'acutezza e l'arte dell'ingegno [1648], a cura di Blanca Perinán, Palermo 1986, pp. 401-410; V. Armanni, Lettere, I, Roma 1663, pp. 34, 187, 571; S. Pallavicino, Vita di Alessandro VII, I, Milano 1843, pp. 24 ss.; Id., Trattato sulla Provvidenza, in Id., Opere edite e inedite, I, Roma 1844, pp. 35 ss.; Memorie imprese e ritratti de' signori Accademici Gelati di Bologna, Bologna 1672, pp. 384-388; C.C. Malvasia, Felsina pittrice, II, 4, Bologna 1678, passim; G. Fantuzzi, Notizie degli scrittori bolognesi, V, Bologna 1786, pp. 176-180; B. Croce, V. M., in Id., Nuovi saggi sulla letteratura italiana del Seicento, Bari 1931, pp. 91-105; E. Raimondi, Polemica intorno alla prosa barocca, in Id., Letteratura barocca. 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