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VINO

di Adolfo Cecilia, *, Luca Maroni - Enciclopedia Italiana - V Appendice (1995)
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VINO

Adolfo Cecilia
*
Luca Maroni

(XXXV, p. 388; App. II, II, p. 1115; App. III, II, p. 1097; App. IV, III, p. 824)

Produzione. - La produzione mondiale di v. ha toccato le punte massime nella seconda metà degli anni Settanta; successivamente è calata, soprattutto in Europa, ove è per lo più regolata dalle normative dell'Unione Europea. Malgrado ciò il continente europeo contribuisce per oltre i 3/4 al totale mondiale con circa 20 milioni di t. Tra i paesi produttori primeggiano Italia e Francia, le cui produzioni assommate rappresentano il 55,5% di quella europea e il 42% di quella mondiale. Seguono, in Europa, Spagna, Germania, Portogallo, Romania, Russia e Ungheria. Stati Uniti e Argentina producono la gran parte del v. del continente americano, seguiti, a distanza, da Brasile e Chile. La produzione africana è rappresentata quasi interamente dalla Repubblica Sudafricana, così come quella dell'Oceania è rappresentata dall'Australia. La produzione asiatica è stata negli ultimi anni incrementata dalla Cina che, in poco più di un decennio, è passata da 40.000 a 350.000 t annue di vino.

Produzione italiana. - La produzione italiana è notevolmente diminuita nell'ultimo quindicennio, fino ad attestarsi attorno ai 60 milioni di hl l'anno: ciò è dovuto in parte alle normative dell'Unione Europea, in parte al diminuito consumo interno che risente della presenza sul mercato di molte bevande alternative, alcoliche e non. È andata invece progressivamente aumentando la produzione di v. pregiati, a Denominazione di Origine Controllata e Garantita (DOCG) e a Denominazione di Origine Controllata (DOC), molto richiesti sia dal mercato interno sia da quello estero.

Tra il 3° Censimento generale dell'agricoltura (24 ottobre 1982) e il 4° Censimento (21 ottobre 1992) il totale dei terreni destinati alla coltura dell'uva da v. è passato da 1,03 miliardi a 862,3 milioni di ha, con un calo pari al 16,2%; nel medesimo periodo intercensuale la parte dei terreni destinati alle uve per v. DOCG e DOC è passata da 206 milioni a 191 milioni di ha, con un calo, più contenuto, pari al 7,5%; ciò ha avuto come conseguenza un loro aumento percentuale rispetto al totale dei terreni messi a coltura (dal 19,97% al 22,13%). Intanto è ancora aumentato il divario tra le regioni centro-settentrionali e quelle meridionali e insulari: al primo censimento le prime assommavano il 77,2% del terreno a uve per v. pregiati, al secondo censimento sono passate all'84,7%. Tra le regioni produttrici spiccano Puglia, Sicilia, Veneto ed Emilia-Romagna: di queste quattro regioni, che pure forniscono quasi il 60% della produzione nazionale, solo l'Emilia-Romagna può vantare un v. DOCG. Ai primi posti nella produzione di v. DOCG e DOC sono il Piemonte, il Trentino-Alto Adige, il Friuli-Venezia Giulia, la Toscana e la Campania. Il v. italiano è commerciato all'interno, ove è chiamato a soddisfare una domanda sempre più esigente, e all'estero, richiesto soprattutto dai paesi ricchi e caratterizzati da condizioni climatiche non adatte alla viticoltura.

Legislazione. - Nell'ultimo decennio la legislazione italiana, mantenendosi aderente ai criteri seguiti sin dall'emanazione del d.P.R. 12 luglio 1963 n. 930, sulla tutela delle denominazioni di origine dei v., e attuando però la nuova prassi comunitaria, a carattere meno liberistico rispetto a quella originariamente fissata dal regolamento del Consiglio della CEE n. 816/70 del 28 aprile 1970, non si è molto discostata dalle linee seguite precedentemente sulla disciplina normativa del settore. Sulla scia del D.M. 5 luglio 1985 è stata emanata una lunga serie di provvedimenti tendenti a meglio definire il riconoscimento delle indicazioni geografiche per i v. da tavola commercializzati, la delimitazione delle relative zone di produzione e l'autorizzazione all'uso del nome di vitigni e di riferimenti aggiuntivi. Tali provvedimenti hanno avuto un'immediata attuazione nella vasta serie di decreti che riconoscevano ai singoli v. la denominazione di origine controllata, dopo il d.P.R. 6 aprile 1987 per il v. ''Nardò''; così, per es., nel D.M. 28 marzo 1987 recante la disciplina concernente l'uso del nome dei vitigni nella designazione e presentazione dei v. spumanti e dei v. spumanti gassificati, e nel D.M. 6 ottobre 1989, modificato dal D.M. 30 ottobre 1992 con norme integrative per l'utilizzazione della qualificazione ''novello'' per v. a denominazione di origine controllata e garantita, a denominazione di origine controllata, tipici e da tavola a indicazione geografica.

La l. 10 febbraio 1992 n. 164 ha meglio precisato l'utilizzazione della Classificazione delle denominazioni di origine e delle indicazioni geografiche tipiche, suddividendole in questo modo: a) denominazioni di origine controllata e garantita (DOCG); b) denominazioni di origine controllata (DOC); c) indicazioni geografiche tipiche (IGT). Ha stabilito inoltre che i mosti e i v. possono utilizzare le DOCG, le DOC e le IGT. Le DOCG e le DOC sono le menzioni specifiche tradizionali utilizzate dall'Italia per designare i VQPRD (v. di qualità prodotti in regioni determinate). I v. possono altresì utilizzare le denominazioni seguenti: VSQPRD (v. spumanti di qualità prodotti in regioni determinate come regolamentati dalla Comunità economica europea); VLQPRD (v. liquorosi di qualità prodotti in regioni determinate); VFQPRD (v. frizzanti di qualità prodotti in regioni determinate). Le definizioni della CEE sono aggiuntive e non sostitutive delle menzioni italiane. La menzione IGT può essere sostituita dalla menzione vin de pays per i v. prodotti in Val d'Aosta, di bilinguismo francese, e dalla menzione Landweine per i v. prodotti in provincia di Bolzano, di bilinguismo tedesco.

Sulla linea di tutelare il mercato dall'eventualità di eccedenze produttive dovute all'estensione indiscriminata delle aree destinate alla vitivinicoltura, il D.M. 12 ottobre 1988 n. 469 ha disciplinato il trasferimento del diritto di reimpianto in regime di blocco di nuovi impianti di vino. Sul piano più dichiaratamente amministrativo, dopo l'emanazione del D.M. 12 marzo 1986, integrato dal D.M. 30 dicembre 1986, che approvava i "metodi ufficiali di analisi per i mosti, gli agri di vino, aceti e i sottoprodotti della vinificazione", il D.M. 20 aprile 1990, integrato dal D.M. 1° marzo 1991, ha attuato il regolamento CEE n. 986/89 relativo ai documenti che scortano il trasporto dei prodotti e alla tenuta dei registri nel settore vitivinicolo, mentre il D.M. 10 maggio 1991, recante misure atte ad assicurare la commercializzazione dei VQPRD e dei v. da tavola italiani aventi diritto a un'indicazione geografica, ha riconosciuto i laboratori di analisi italiani come servizi ed enti abilitati alla relativa certificazione. Al fine di garantire una maggiore qualificazione professionale agli esperti del settore tutelandone l'attività, la l. 10 aprile 1991 n. 129 ha disciplinato l'ordinamento della professione di enologo, mentre, per la migliore vigilanza pubblica sull'intera materia della vitivinicoltura, il D.M. 11 maggio 1992 ha istituito un Comitato tecnico di controllo nel settore vitivinicolo.

Bibl.: P. Caviglia, A. Caldano, A. Rossi, Codici di denominazione di origine dei vini: le norme, le circolari, i disciplinari di produzione aggiornati, s.l. 1992; Id., Codice della vite e del vino: le disposizioni CEE, le norme nazionali, le circolari, s.l. 1995; V. Pedretti, Marketing viticolo e nuove strategie di mercato, Milano 1994. Cfr. inoltre P.G. Pirra, Codice enologico. Schedario trimestrale della vigente legislazione vitivinicola, Bra 1988 ss.

Degustazione del vino. - Parallelamente ai progressi di natura viticola ed enologica che ha compiuto la vitivinicoltura italiana negli ultimi anni, un altrettanto sensibile avanzamento ha conosciuto la disciplina dell'assaggio dei vini. Uno sviluppo che è stato reso possibile grazie alla codificazione dei principi teorici della degustazione, che ha tratto alimento dai miglioramenti qualitativi dei v. prodotti e dal conseguente rinnovato interesse del consumatore.

Degustare un v. significa descriverne e valutarne il comportamento visivo, olfattivo e gustativo: sottoporre cioè la soluzione vinosa a un esame organolettico o sensoriale (termini equivalenti che designano le qualità o le proprietà relative a una sostanza che possono essere percepite e valutate dagli organi di senso). È importante osservare che la degustazione è un esame organolettico di un'effettiva realtà analitica. Ciascun componente chimico del v. ha una propria manifestazione sensoriale. La configurazione chimica globale del v., il relazionarsi e il rapportarsi dei diversi costituenti chimici, ne determina il carattere, la prestazione organolettica complessiva. In questo modo l'agente o componente fisiochimico (per es. zucchero) provoca lo stimolo (per es. dolce) che, recepito dall'organo sensoriale (occhio, naso, bocca), riflette una sensazione che viene poi interpretata e percepita dal cervello: un semplice rapporto di causa ed effetto. La prestazione organolettica di qualsiasi v. dipende in sostanza dalla sua composizione chimica. Ora, mentre l'analisi organolettica in senso lato ha il solo scopo di descrivere le singole impressioni e la sensazione d'insieme generata dall'assaggio, prescindendo dalla realtà analitica del campione, vi è una disciplina più tecnica, l'analisi sensoriale-chimica, che ha per scopo di relazionare il gusto percepito alla composizione fisiochimica dell'agente vino.

Nell'ambito dell'analisi organolettica, la distanza che separa un cosiddetto esperto da un neofita è molto minore di quel che si pensa. È così anche per la degustazione dei v., per riuscire nella quale non ci vuole talento né capacità sensitive straordinarie, ma solo dedizione, rigore, presenza mentale e pratica frequente. Tutti possono divenire esperti degustatori, basta applicarsi e sapere cosa valutare in un vino. La più grave lacuna dei testi classici di degustazione è quella di considerare l'analisi sensoriale composta da sole quattro fasi: esame visivo, olfattivo, gustativo e postgustativo. Non si fa infatti cenno alla fase più importante di tutte: la fase intellettiva della degustazione: il complesso delle operazioni mentali atte a interpretare la qualità, l'intensità, le interazioni e le disarmonie degli stimoli sensoriali percepiti. Degustare è diverso da bere un vino. Occorre infatti essere mentalmente presenti per definire la qualità reale del campione in esame. Va ricordato che esiste la figura del degustatore professionale di v. (sommelier) e che, se presente nei ristoranti, è persona addetta all'assaggio e al servizio dei v., all'assistenza ai clienti nella scelta, nonché all'approvvigionamento e alla gestione della cantina.

Caratteri organolettici fondamentali. - Si è appena osservato che per degustare efficacemente basta applicarsi e sapere cosa valutare in un vino. Ciò vuol dire che esistono caratteri sensoriali comuni a ogni v., che è determinante soppesare. Caratteri organolettici fondamentali sono: consistenza, disposizione e pulizia.

Consistenza: la consistenza rappresenta l'insieme dei costituenti appartenenti a un vino. È pertanto un attributo direttamente proporzionale alla ricchezza estrattiva e, in misura minore, alla potenza alcolica del v. stesso. Il v. consistente è ricco, concentrato, denso, energico, capace di porgere con alto volume gusto-aromatico il proprio contenuto sensoriale. Il v. consistente dà inoltre un notevole affidamento circa la sua qualità e la sua durata nel tempo. Viceversa, il v. inconsistente è magro, scorrevole, diluito, e porge un profilo gustativo poco persistente. È un v. destinato entro breve tempo, proprio a causa della sua inconsistenza, a una repentina e irreversibile decadenza.

Disposizione: la disposizione esprime il modo in cui il gusto di un v. è ordinato rispetto alla mobidezza e/o all'acidità, cioè rispetto alla sensazione di maturità del frutto. Il v. che rivela una buona disposizione, che è ben disposto, è morbido, maturo, avvolgente. Il suo riscontro tattile sarà grasso e polposo, il gusto ampio, privo di punte e di tensioni, il suo odore e il suo sapore evidentemente fruttati. Viceversa, il v. che rivela una cattiva disposizione, che è mal disposto, è acidico (immaturo) o sovramaturo. Nel primo caso, il v. acido fornirà impressioni organolettiche di acerbità e di tensione; il suo tatto sarà nervoso e freddo, il gusto stretto e chiuso, aspro e vegetale, crudo e metallico. Nel secondo caso, il v. sovramaturo e/o ossidato fornirà impressioni organolettiche di surmaturità e di appassimento, mancherà di fragranza, avrà un tatto scivoloso privo di qualsiasi rilievo, rivelerà sapore stucchevole e melenso. In entrambi i casi i v. mal disposti non saranno comunque capaci di esprimere, di ''far rendere'' organoletticamente la loro consistenza e/o la loro pulizia: saranno in sostanza incapaci di porgere il fondamentale gusto fruttato.

Pulizia: la pulizia consiste nell'assenza in un v. di gusto-aromi non propri del frutto compositivo e/o del corretto prodotto enologico della sua trasformazione. Odori e sapori estranei, sovrapposti a quelli naturali, capaci di alterare l'originario patrimonio organolettico della materia prima impiegata. Pulizia in sostanza da intendersi con una sfumatura di perfezione associabile all'idea di ''nitidezza''. Il v. pulito è quel v. capace di proporre, senza filtri e/o distorsioni frapposte, il riverbero organolettico della propria consistenza e della propria disposizione. Il v. non pulito è invece quel v. che rivela in degustazione caratteri quali feccioso, ridotto, spunto, o anche caramellosità, amarore, ossidazione, ecc.; vizi che deteriorano irrimediabilmente la qualità organolettica del v. medesimo. Difetti la cui insorgenza è il più delle volte dovuta alle precarie condizioni igieniche degli strumenti enologici impiegati, alla trascuratezza del procedimento realizzativo intercorso.

Degustare un v. significa perciò porsi e rispondere durante l'assaggio al seguente quesito: quali sono la consistenza, la disposizione e la pulizia del v. in esame? Così ci si renderà conto che: 1) solo un v. consistente, ben disposto e pulito richiama il frutto costitutivo (l'uva) da cui è ottenuto; 2) solo un v. che richiama l'uva è piacevole; 3) i v. sono tanto meno capaci di generare piacevolezza quanto più sono privi di frutto, e cioè inconsistenti, mal disposti e non puliti. Per descrivere un v. non occorre quindi impiegare termini astrusi: basta illustrare come si comporta rispetto ai tre caratteri organolettici fondamentali sopra descritti. Spiegare quanto è consistente, come è disposto il suo gusto, quale il livello della sua pulizia. Per valutare correttamente un v. è poi importante comparare simultaneamente più di un vino. Un v. che in assoluto siamo portati a definire come ricco, paragonato a uno più fitto potrà parere scorrevole; uno che ci sembra morbido in assoluto, posto in relazione a uno ancora più suadente potrà rivelarsi acido; uno che ci sembra limpido potrà risultare perturbato rispetto a un altro più nitido. Comparare i v. serve prima a definire, poi a memorizzare, un prototipo esatto di v. consistente, ben disposto e pulito cui riferire tutti gli altri vini. Valutare un v. significa infatti misurarne lo scostamento organolettico rispetto al migliore assaggiato dello stesso tipo. Un modello, un archetipo che deve perciò essere quanto meno approssimato possibile, e che si può fissare con precisione solo dopo numerosi assaggi comparati.

Altri caratteri importanti per la valutazione di un vino. - Quello che segue è un elenco di indicazioni riguardanti i più importanti temi per la valutazione complessiva di un vino. La notizia di ciascuno degli aspetti evidenziati è infatti importante ai fini di una compiuta valutazione delle caratteristiche sensoriali di qualsiasi vino.

Centralità del frutto: la fruttosità è il perno qualitativo centrale di qualsiasi v.: non c'è piacevolezza, armonia e complessità se un v., al naso prima, in bocca poi, non porge note organolettiche simili a quelle del frutto (uva) da cui è ottenuto. Non allontaniamoci da questo concetto semplice: niente frutto, niente grande vino. Basilare quindi la verifica della presenza del frutto in un v.: esame dal significato a un tempo immediato (presenza del frutto=piacevolezza) e complesso (presenza del frutto=rispondenza ottimale del v. in confronto a numerosi, articolati fattori qualitativi).

Secchezza/dolcezza: nessun altro vocabolo impiegato per descrivere le caratteristiche organolettiche di un v. ha prodotto più danni del termine ''secco''. Un v. secco è infatti un v. acido, duro, il cui assaggio non genera alcun piacere. Ciò significa che ogni v. deve rivelare una frazione di dolcezza diversa dalla sensazione meramente zuccherina; dolcezza è termine di fondamentale importanza per esprimere la morbidezza, la maturità, la non eccessiva acidità del v.; è un pregio assoluto, dal momento che i v. non devono essere secchi e aspri; un v. non può essere grande se privo di una quota della dolcezza che caratterizza il frutto maturo sulla pianta.

Variabilità dei vini: il luogo e il modo in cui una degustazione viene effettuata influenzano profondamente il risultato dell'assaggio. Un v. degustato in cantina dal produttore può sembrare morbido e armonico, al ristorante acido e tannico, a casa di amici alcolico e corto. Comprensibile il disorientamento. In realtà un dato v. è uguale a se stesso se degustato nelle medesime condizioni d'assaggio, mutando indefinitamente al mutare di queste. La presunta variabilità dei v. è perciò funzione della variabilità delle circostanze d'assaggio. Laddove degustato nelle medesime condizioni e letto con grande attenzione, un v. non cambia, ma offre a ogni rinnovato assaggio la conferma della configurazione organolettica rivelata in occasione del primo esame.

Vini e legno: data la centralità del frutto, perno insostituibile della piacevolezza di qualsiasi v., l'elevazione in fusti di rovere può: 1) accrescere dotando di una dimensione aggiuntiva lo spettro gusto-aromatico del v. affiancando alle note del frutto quelle, altrettanto morbide e dolci, di spezie, di menta, di torrefazione; 2) deturpare il gusto-aroma del frutto sovrapponendovi note estranee che con la dolcezza originaria dell'uva matura non hanno nulla a che vedere: toni di caramello, di verdura cotta, di muffa, di catrame, ecc. L'ipotesi 1) è quindi quella di un v. che dà il frutto originario, limpido e definito, aumentato da un filone gusto-aromatico balsamico derivato dal rovere; l'ipotesi 2) è invece quella di un v. che non dà frutto, ma che dà un qualcosa la cui radice è frutto ma il cui prodotto è cupo, amaro e verduroso: la trasfigurazione dell'uva. Per vedere realizzata la prima ipotesi occorre che i fusti impiegati siano recenti − meglio se completamente nuovi − e comunque non contaminati; la seconda ipotesi diviene invece attuale quando il legno delle botti per la maturazione è vecchio e igienicamente malsano.

Longevità potenziale di un vino: la capacità d'invecchiamento di un v. è direttamente proporzionale alla sua ricchezza estrattiva, non meramente alla sua acidità. Non è vero che un v. morbido fin dalla nascita non sia longevo. È inesatta l'idea che un v. consegua equilibrio con l'affinamento in bottiglia grazie alla longevità prestata dall'acidità. Il v. o nasce equilibrato o non lo diventa. Quando nasce equilibrato non è mai l'acidità ad assicurare la lunga tenuta del campione, quanto invece la sua consistenza estrattiva: tanto più una soluzione è ricca di sostanza e tanto maggiore sarà il tempo necessario all'ossigeno per degradarne il gusto e l'aroma. Maggiore è l'estratto, maggiore è la sostanza da opporre al degrado del tempo che passa. L'estratto secco totale di un v., anche detto corpo di un v., è l'insieme di tutti i componenti costitutivi, esclusi acqua, alcool e componenti volatili; si ottiene sottoponendo a evaporazione le sostanze volatili del v., perciò corrisponde al peso del residuo fisso misurato in grammi per litro (g/l). Non deve quindi stupire che un v. morbido e ricco sia capace di trasmettersi identico nel tempo, ma è anzi naturale che un dato (e perfetto) quadro organolettico sia capace di mantenersi integro negli anni. Il v. aspro e duro non sarà magari soggetto all'ossidazione, ma avrà vissuto acidicamente e poco prestante, da un punto di vista organolettico, un lungo tratto della propria vita sensoriale.

Sviluppo dei vini in bottiglia: i v. mutano pochissimo in bottiglia. Un v. che entra non buono in bottiglia, così vi resta. Il frutto, che è il prodotto sensoriale della combinazione consistenza estrattiva/morbidezza/pulizia, e della contemporanea ottimalità di tali caratteri organolettici fondamentali, non si crea da solo in bottiglia: o il frutto c'è, da subito, o non ci sarà mai. Un v. acido e amaro da giovane, così sarà da vecchio. Un v. sporco e poco consistente in gioventù, così sarà negli anni a venire. Al contrario, un v. che entra in bottiglia morbido nitido e fruttato così resta nel tempo, dispensando una grande piacevolezza da subito e per un periodo che varia in funzione della sua ricchezza estrattiva e della sua integrità ossidativa. L'acidità non si ammorbidisce in bottiglia. È la dolcezza che aumenta con l'aumentare dell'ossidazione. Si potrà pure avere, in un dato momento, un gusto ben dosato tra acidità e morbidezza, ma la combinazione gusto-aromatica tra il levigato filone rancido e la spina sapida, pure equilibrata, non ha nulla a che vedere con la congenita e fragrante morbidezza del frutto maturo: un'entità organolettica formalmente bilanciata, ma sostanzialmente priva di polposità e di originaria armonia. Quanto alle differenze di sviluppo dei v. bianchi e di quelli rossi, i primi guadagnano in complessità nei due anni successivi all'imbottigliamento; i secondi perdono fragranza e fibrosità tannica, in una parola fruttosità.

Presenza di sedimenti in bottiglia: tanto più i v. sono neutri, poco consistenti, diluiti e scorrevoli, tanto più sono limpidi e cristallini in bottiglia. Sarebbe sbagliato stabilire l'equivalenza: v. limpido e incolore = v. di qualità. Difficile che siano ottimi v. completamente trasparenti. I più grandi v. del mondo hanno una quota variabile di deposito (tartrati o polifenoli), e sono molto colorati. Un conto è la torbidezza di un v., che quasi sempre significa contaminazione e alterazione, ed è perciò negativa, un altro conto è un v. limpido con del deposito: un fatto del tutto normale, il più delle volte sinonimo di qualità e genuinità del prodotto. Danno origine infatti a precipitazione i v. molto ricchi e maturi (perciò grassi e morbidi), non sfibrati né smagriti e sviliti da accanite pratiche enologiche.

Influenza variabile dell'annata: la qualità degli operatori determina l'influenza del parametro annata. Un vignaiolo accorto e scrupoloso raccoglierà a un punto di maturazione ottimale uva effettivamente consistente. Un vignaiolo disattento e negligente comprometterà il buon esito stagionale con interventi inadeguati e/o intempestivi e raccoglierà a un punto di maturazione non ottimale uva dalle modeste caratteristiche compositive. Un enologo accorto e scrupoloso riuscirà a trasmettere intatte nel v. le caratteristiche organolettiche dei frutti compositivi (senza distorsione, filtri e sovrapposizioni). Un enologo disattento e negligente comprometterà con interventi inadeguati e/o intempestivi l'originario patrimonio sensoriale dei frutti ottenendo un v. mediocre, niente affatto rappresentativo delle caratteristiche organolettiche dei frutti raccolti. L'influenza del parametro annata è perciò direttamente proporzionale alle qualità professionali del produttore. Il clima è una realtà imprevedibile, e nulla può l'uomo per influenzarne il corso. Purtuttavia l'operatore può agire da un punto di vista viticolo per contenere gli aspetti negativi, e per sfruttare al massimo quelli positivi di un dato decorso stagionale (attenuare la negativa influenza del parametro annata prevede ogni stagione un onere diverso: il produttore conosce e quantifica il costo relativo, ma solo in pochi casi decide di sopportarlo). È infatti possibile che un vignaiolo ottenga in annate medie o poco felici uve eccezionalmente valide: ciò si realizza adottando tecniche di coltura molto attente, rendendo più rigorosa la selezione dei frutti da far maturare e da destinare alla vinificazione, mediante una cernita da eseguire in due tempi: in vigna, durante le successive fasi vegetative, e al momento del raccolto, in cantina, all'arrivo delle uve e all'avvio del processo di vinificazione. Per quanto detto è possibile che grandi annate diano piccoli v., e che grandi v. nascano in annate medie o mediocri. In Francia, l'annata è il volume di un v.: grande annata=impianto organolettico consueto e perfetto, proposto ai massimi volumi espressivi. In Italia, questo accade solo in rari casi, ed è per questo che l'equazione grande annata di grande produttore=grande v., in Italia è raramente soddisfatta. Per l'acquisto di un v. non c'è criterio di scelta migliore che il preventivo assaggio.

Tipicità: per tipicità è da intendere il carattere, la qualità di ciò che è tipico, cioè che vale da modello o è conforme a un modello avendone le caratteristiche. Modello è l'esemplare perfetto, il prototipo da imitare, cui riferirsi nello studio, nella sperimentazione, nella produzione. Tipicità applicata al v. significa standard organolettici che per consuetudine e tradizione sono stati ottenuti e si ottengono con la coltivazione e con la vinificazione di date uve in determinate regioni produttive. Andrà a tal proposito rilevato che gli attuali modelli di tipicità sono spesso obsoleti e perciò devianti. Per questo sembra preferibile riformulare il concetto di tipicità osservando e studiando le caratteristiche organolettiche di vitigni ben lavorati e non trasfigurati.

Gradazione alcolica: la gradazione alcolica del v. che si otterrà non deve agire come fattore limitante lo stadio di maturazione cui cogliere i frutti. Ciò che organoletticamente è determinante non è infatti la gradazione del v. considerata come dato a sé stante, ma la ricchezza di componenti (ritardando la vendemmia l'acqua dell'acino evapora e i succhi si concentrano), l'uvosa e polposa dolcezza che sempre conseguono a una maturazione ottimale delle uve. La grandezza del v. la fanno la sua consistenza, il suo bilanciamento, la sua ottimale disposizione sul maturo: in tale ottica il grado alcolico non è che uno dei fattori della qualità; da solo è incapace di compromettere o assicurare la piacevolezza a un vino. Quanto alle controindicazioni che taluno segnala per tali v., e cioè scarsa fragranza e difficile sorbevolezza, vale osservare che: a) se il v. è equilibrato, morbido e tendenzialmente dolce, l'alcool sembra bassissimo, non ci si accorge di lui giacché è impossibile isolarlo; viceversa, se il v. è disarmonico, crudo e aggressivo, l'alcool pure sembra esuberante e perciò il v. si beve poco e difficilmente; b) non ha fondamento fisiologico la convinzione diffusa secondo cui il v. forte dà alla testa: quanto agli effetti sull'organismo, tra il bere 350 cc. di vino a 12 gradi e berne la stessa quantità a 14 gradi c'è una differenza risibile.

Decantazione dei vini prima del servizio: di regola è dannoso stappare le bottiglie con largo anticipo rispetto al momento della degustazione. Il nemico principale del v. è infatti l'ossigeno: agente in grado di alterare e di degradare irreversibilmente il patrimonio olfattivo e gustativo di qualsiasi vino. Solo in limitati momenti del ciclo produttivo il v. trae giovamento dal controllato contatto con l'ossigeno. Una volta giunto in bottiglia, l'ossigeno ha effetti distruttivi sul frutto, sulla fragranza e sulla polposità di questo. I produttori hanno estrema cura nel difendere il v. dall'ossigeno quando è nelle loro cantine con costose attrezzature che garantiscono la chiusura ermetica dei vasi vinari e l'imbottigliamento in atmosfera priva di ossigeno. L'ossigenazione è infatti un fenomeno degradante ma parzialmente reversibile durante la produzione, mentre è irreversibile una volta che il v. venga stappato. Per questo, se si vogliono apprezzare nella loro originaria ma labile fragranza i profumi e il gusto di un v. è consigliabile stapparlo non molto prima dell'assaggio, quale che sia l'età del v. stesso. Si può anche notare che un v. giovane ha più materia viva da opporre al degrado dell'aria e perciò si ossida meno velocemente; un v. vecchio, più provato dall'affinamento in bottiglia, con un potenziale di ossidoriduzione più alto, soffre il prolungato contatto con l'aria e si ossida molto velocemente. Quanto alla temperatura di servizio dei v., è bene che questa non sia troppo calda né troppo fredda (tra i 10° e i 24°). Inutili le tabelle di servizio con le varie fasce termiche: una volta nel bicchiere il v. tende in breve ad assumere la temperatura ambiente.

Abbinamento cibo-vino: il cibo e il v. quasi mai sono in bocca contemporaneamente. I recettori linguali non vagliano quindi il sapore di una poltiglia solido-liquida, ed è pertanto superfluo considerare il tema abbinamento alla luce di ipotetiche combinazioni gusto-aromatiche cibo-vino. Prima si mangia del cibo, e se ne gusta appieno l'aroma e il sapore, successivamente, con in bocca solo la scia aromatica del boccone deglutito, si degusta il v., che a sua volta lascia la propria scia. La cosa importante allora è: evitare stridori tra i due dispensatori di gusto, tra le scie aromatiche che questi lasciano, pure se la loro consumazione è di fatto differita (evitare per es. l'accostamento aceto-v. o limone-v.); e massimizzare entrambi i piaceri. Non esistono perciò interazioni gustative tra liquido e cibo capaci di amplificare, d'incrementare, di proporre un sapore risultante più piacevole dei due sapori primi. Un piatto mediocre non diventa buono per l'accoppiamento con un v. ottimo, e viceversa: il v. infatti dev'essere buono in sé, e se ha bisogno di un piatto per diventare buono, per es. per vedere smorzata la propria acidità, vuol dire che il v. in sé vale poco. Mangiare bene bevendo un gran v. equivale a questo: grande piacere dalla fruizione consapevole, organoletticamente attiva, di un boccone e, dopo una pausa, grande piacere dalla fruizione consapevole, organoletticamente attiva, di un sorso di vino. Se l'obiettivo è quello di massimizzare il piacere ottenibile alternativamente dalle pietanze e dalle bevande previste da un pasto, se non si considerano il cibo e il v. come un binomio, bensì come due monomi distinti ciascuno da ottimizzare, allora è giusto consumare il v. preferito con il piatto preferito.

Bibl.: M. Léglise, Une initiation à la dégustation des grands vins, Losanna 1976; E. Peynaud, Il gusto del vino, Brescia 1982; L. Maroni, The Taster of Wine, anni vari dal 1990; Id., Annuario dei vini italiani, ed. annuale dal 1994; Id., Degustare il vino: teoria e pratica per l'assaggio consapevole di ogni tipo di vino, Roma 1995.

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