DANDOLO, Vinciguerra
Nacque a Venezia nel 1427 da Marco di Nicolò, della contrada a S. Pantalon, e da Chiara Veglia di Paolo, che non apparteneva al patriziato. Il padre morì quando il D. era ancora in giovane età (nel presentarlo alla Balla d'oro, il 27 nov. 1445, Chiara risulta vedova), lasciando i numerosi figli pressoché privi di risorse: fu probabilmente per questa ragione che, nel 1459 01460, il D. lasciò i fratelli per trasferirsi a S. Fantin, come orgogliosamente ricordò nel testamento: "et ab eo tempore citra io sum sta et sum mei iuris, item non ho avuto da padre nec da madre alguna chossa".
La sua lunga e non sempre facile esistenza (un temperamento energico e risentito, indurito forse dalle difficoltà giovanili, gli causò a più riprese contrasti e umiliazioni) fu interamente dedicata alla politica: "Novanta anni visse (si può dir) sempre travagliando nel pubblico servizio", così ne inizia la biografia il Priuli, ed alla patria infatti il D. sacrificò interessi privati e affetti famigliari.
Il 22 apr. 1453 fu eletto avvocato per tutte le corti; due anni dopo, il 23 marzo 1 55, giudice del Procurator, nella primavera del '59 fece parte della Quarantia civile, il 20 maggio 1467 entrò ufficiale alle Rason nuove, nel '76 propose in Maggior Consiglio una deliberazione a favore delle monache del Corpus Domini, nell'ambito della spinosa vertenza che da anni le opponeva a quelle di S. Lucia; l'anno seguente, infine, venne eletto podestà e capitano a Belluno, dove rimase dal 24 ag. 1477 al 25 apr. '79.
Fu il suo primo incarico in Terraferma, in una provincia posta ai confini dello Stato e segnata da un'economia primitiva che condannava quegli abitanti ad una esistenza di stenti e di fatiche, nonostante la scoperta e la recente valorizzazione delle miniere agordine. Tuttavia fece buona prova nel reggimento, e questo gli valse, dopo il ritorno in patria, la nomina a savio di Terraferma tra l'aprile e il settembre 1483, e a provveditore al Sale dal 13 ottobre di quello stesso anno.
L'esemplare onestà e la completa dedizione al servizio pubblico (nel ricordarlo post mortem ilSanuto ebbe a definirlo "savio patricio") ne decisero l'elezione ad avogador di Comun (28 marzo 1486); in questa veste fece anzitutto condannare un collega che aveva fatto rilasciare un carcerato contro la disposizione legale; si oppose poi agli auditori delle Sentenze vecchie; infine non esitò a contestare l'operato dei sei consiglieri ducali, rei, a suo vedere, di avere ostacolato nelle sue funzioni Giovanni Sommariva, deputato alle fortificazioni nel territorio veronese.
Nell'agosto dello stesso 1486 fu tra gli elettori del doge Agostino Barbarigo, l'anno seguente fu ancora savio di Terraferma e il 21 ag. 1488 sostituì Pietro Donà nella carica di visdomino a Ferrara, dove rimase fino al 26 genn. 1490, Occupandosi degli aspetti giudiziari connessi con gli interessi dei mercanti veneziani. Nuovamente savio di Terraferma nei restanti mesi dell'anno, il 27 febbr. 1491 fu eletto capitano a Brescia.
In questa sede il suo carattere intransigente e fiero doveva però scontrarsi con l'orgoglio di una feudalità ancora ricca e potente, che in seguito al lungo, terribile assedio sostenuto nel 1439-40 contro le truppe di Filippo Maria Visconti, aveva ottenuto dalla Repubblica la riconferma degli antichi privilegi. Uno di questi concedeva ai Bresciani la sospensione dei giudizi nei confronti dei cittadini assenti per pubblico servizio; il D. però ritenne il dispositivo, invocato dalla famiglia Averoldi, lesivo della sua giurisdizione e, nel fervore del contrasto, si lasciò andare ad espressioni infamanti nei confronti della città, giungendo sino a metterne in dubbio la lealtà verso lo Stato marciano. Il Consiglio generale cittadino ritenne allora di non poter subire passivamente un'offesa che si presentava gravida di pericolose implicazioni ed inviò a Venezia una delegazione di protesta; nella circostanza il D. si mostrò totalmente sprovvisto di quelle doti di diplomazia e prudenza che pur formavano il tradizionale bagaglio della classe politica veneziana, e la questione si inasprì al punto che ne fu investito il Consiglio dei dieci, i cui capi, in data 28 maggio 1492, deliberavano di inviare a Brescia un avogadore di Comun, col compito di rassicurare quei "fedelissimi" sudditi della inalterata stima e benevolenza della Repubblica, e di sollevare il D. dall'incarico. Costui, poi, rientrato in patria, qualche settimana più tardi era condannato dalla Signoria al bando, per due anni, da Venezia e - continuava la sentenza - "ulterius privetur in perpetuum de omnibus officiis, beneficiis et consiliis nostris de intus. Insuper premetur quod toto tempore vite sue non possit ponere pedem, vel aproximare se agro brixiano". A Brescia non tornò più, infatti, ma non così alla politica attiva, giacché la contumacia perpetua venne poi commutata in decennale.
Nel '96 il D. regolarizzò la sua unione, che durava ormai da quindici anni, con una albanese di Durazzo, Caterina Vichi di Marco, dalla quale non ebbe figli (il Barbaro gliene attribuisce due, Marco e Francesco, ma nel suo testamento la donna li nomina come nipoti ex fratribus del marito), e nel novembre del 1502, ormai settantacinquenne, riprese il suo posto in Senato. Che la pena dell'esilio gli fosse stata comminata per ragioni di opportunità politica, e che comunque non gli avesse tolto l'antica reputazione, lo conferma l'elezione, avvenuta il 1º gennaio 1503, ad avogador di Comun; fu poi nominato procuratore sopra gli Atti dei Sopragastaldi (3 maggio 1506), entrò quindi (agosto 1508) a far parte del Consiglio dei dieci e, nell'ottobre di quello stesso anno, ricoprì nuovamente l'incarico di avogador. Questa seconda giovinezza politica si prolungò anche oltre la crisi di Agnadello: nel giugno 1510 fece parte della zonta del Consiglio dei dieci, nell'11 fu governatore delle Entrate, nel '12 ancora della zonta del Consiglio dei dieci, nel '13 nuovamente governatore delle Entrate, quindi venne rieletto nella zonta, da cui si dimise, per ragioni di età, il 25 luglio 1514. Di lì a qualche mese il Sanuto così commentava il suo ribadito rifiuto a riprendere l'attività politica: "è vechio, non vede, e non vol più ussir di casa, nè etiam farsi tuor di la zonta di Pregadi, perchè vol reposar".
Morì a Venezia il 5 apr. 1517, e fu sepolto nella chiesa di S. Fantin.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Venezia, Misc. Codici I, Storia veneta 19: M.Barbaro-A. M. Tasca, Arbori de' patritii…, III, pp. 175, 183; Ibid., Avogaria di Comun. Balla d'oro, reg. 163, c. 189r; Ibid., Sez. notarile. Testamenti, b. 1228/352 (quello della moglie, in b. 131/114); Venezia, Bibl. del Civ.Museo Correr, Cod. Cicogna 3781: G. Priuli, Pretiosi frutti…,I,cc. 237v-238r. Per la carriera politica, Arch. di Stato di Venezia, Segretario alle Voci. Misti, reg. 4, cc. 8v. 18v; reg. 5, c. 5r; reg. 6, cc. 38, 43, 91, 110, 112; Ibid., Senato. Deliber. secreta, reg. 20, c. 177v; reg. 31, cc. 12v-89v; reg. 34v64r, 76r, 77r; Ibid., Maggior consiglio. Deliberazioni, reg. 24: Stella, c. 77v; Ibid., Avogaria di Comun. Raspe, reg. 3656/16, cc.87r, 109r, 115r, 116r, 117v-118r, 124rv, 126v, 128r, 129v, 131v, 133rv, 134v, 135v, 140r, 148r, 151r, 156r, 159r, 166v. Sulprocesso circa l'operato del D. a Brescia, Arch. di St. di Venezia, Consiglio dei Dieci. Misti, reg. 25, cc.94v-95r, 101r, 102r. Si vedano inoltre, M. Sanuto, Diarii, IV-VIII, X, XI, XIII, XIX, XXIV, L, ad Indices; C.Pasero, Il dominio veneto fino all'incendio della Loggia, in Storia di Brescia, II, Brescia 1963, p. 205.