VELA, Vincenzo
– Nacque il 3 maggio 1820 nel borgo ticinese di Ligornetto, ultimo dei sei figli di Giuseppe, piccolo proprietario terriero, e di Teresa Casanova, a capo di una piccola osteria (Wasmer, 2003, p. 5).
Ad appena nove anni fu impiegato come tagliatore di pietre nel vicino paese di Besazio per arrotondare i modesti guadagni dei genitori. Apprese così i primi rudimenti del mestiere scultoreo, prima di passare al servizio dello scultore Saverio Franzi a Viggiù (Varese).
Nel 1834, su consiglio del fratello maggiore Lorenzo, già affermato scultore d’ornato, il giovane si trasferì a Milano in cerca di sbocchi lavorativi. Nella florida capitale del Regno Lombardo-Veneto venne presto assunto da un cugino di Franzi, agente della corporazione dei marmisti che fornivano la Fabbrica del duomo. Parallelamente ottenne il permesso di frequentare l’Accademia di belle arti di Brera per due ore al giorno. Solo nel novembre del 1835 vi fu definitivamente ammesso, e dal 1839 iniziò a seguire anche i corsi superiori delle sale delle statue e della scuola del nudo. Nell’istituto ricevette un’educazione solida e a tutto tondo, con nozioni di ornato, prospettiva, pittura e plastica. Gli insegnamenti più importanti furono però quelli impartitigli dal supplente di scultura, il carrarese Benedetto Cacciatori, del quale frequentò anche lo studio privato a Milano.
Le attenzioni di Vela furono presto attratte dal naturalismo di Lorenzo Bartolini, del quale poté ammirare la Fiducia in Dio all’Esposizione annuale di Brera del 1837. Il primo esito delle suggestioni ricevute dallo scultore toscano fu misurabile nel bassorilievo Cristo resuscita la figlia di Giairo, che valse a Vela la vittoria nel concorso-premio bandito dall’Accademia di Venezia nel 1842. L’opera sancì la definitiva emancipazione dell’artista dai dettami canoviani allora imperanti, mettendo in luce la rielaborazione moderna e la lettura romantica del soggetto.
Dopo la conclusione degli studi nel 1844, la fama crescente assicurò al giovane le prime remunerative commesse, dai monumenti funebri in marmo di Maddalena Adami-Bozzi a Pavia (1845) e di Cecilia Rusca a Locarno (1845-46), a quello in pietra, di quattrocentesca memoria, del vescovo Giuseppe Maria Luvini (1844-45), su commissione del Municipio di Lugano. Nei primi due casi, la resa realistica delle figure defunte, ritratte in abiti quotidiani e in pose di flagrante spontaneità, si sintonizzò con il gusto dell’élite borghese di orientamento liberale. L’apprezzamento di cui fu oggetto il monumento luganese, invece, accattivò a Vela la protezione di Francesco Hayez, che lo introdusse nell’influente salotto di Clara Carrara Spinelli Maffei a Milano. Fece lì la conoscenza di personalità di spicco dell’ambiente culturale cittadino come lo scrittore Pietro Rotondi, il poeta Andrea Maffei e il giornalista Carlo Tenca. Grazie ai nuovi contatti si aggiudicò presto numerose commissioni private, tra cui il sensuale marmo della Preghiera del mattino per il conte Giulio Litta e Il primo dispiacere, modellato in scagliola per Gian Giacomo Poldi Pezzoli. All’esposizione annuale di Brera del 1846, queste due opere, di palpitante vitalità e adesione al reale, assicurarono all’artista consensi ampi da parte del pubblico e della critica progressista.
Nell’autunno del 1847 Vela trascorse alcuni mesi a Roma, godendo del nuovo clima di libertà generato in un primo momento dall’elezione al soglio pontificio di Pio IX. Vi conobbe lo scultore Pietro Tenerani e trovò spunti utili per lavorare al primo abbozzo in gesso dello Spartaco, iniziato a Milano prima della partenza: la figura del condottiero di schiavi fuggitivi, influenzata dal Sansone di Hayez, dal David di Gian Lorenzo Bernini e dal gigantismo michelangiolesco, avrebbe di lì a poco assunto agli occhi dei contemporanei espliciti significati politici in chiave antiaustriaca.
All’inizio di novembre, tuttavia, l’artista scelse di tornare in Ticino per prendere parte alla guerra del Sonderbund tra i liberali, in seno al corpo dei Carabinieri ticinesi. Nel frattempo, un comitato di cittadini milanesi gli aveva commissionato un busto di Lorenzo Mascheroni da donare alla città di Bergamo come omaggio simbolico per la domanda di riforme presentata dal deputato bergamasco Giambattista Nazari alla Congregazione lombarda. Vela fu però costretto a procrastinarne l’esecuzione agli ultimi mesi del 1848: già da marzo aveva impugnato nuovamente le armi per prendere parte all’insurrezione di Como. A fine maggio, poi, si era arruolato volontario nella rovinosa prima guerra d’indipendenza, combattendo contro i soldati del feldmaresciallo Josef Radetzky nella piazzaforte di Peschiera del Garda.
Deluso per l’esito fallimentare dei moti rivoluzionari dopo la sconfitta di Novara (1849), fece ritorno prima in Canton Ticino e poi a Milano. Qui, nell’inverno tra il 1848 e il 1849, su commissione del duca Antonio Litta mise a punto la versione marmorea definitiva dello Spartaco (oggi nel palazzo civico di Lugano), che nel 1851 presentò alla mostra annuale di Brera. Insieme a essa, esponeva la toccante Desolazione (1850), una malinconica figura femminile in marmo destinata al monumento commemorativo dei genitori dei due patrioti ticinesi Giacomo e Filippo Ciani. Le due opere, facilmente leggibili in chiave politica, spianarono il terreno alla piena consacrazione di Vela come caposcuola della tendenza naturalistica milanese e portavoce degli ideali risorgimentali in scultura.
Tra gli anni Cinquanta e Sessanta gli si profilarono, così, lucrose commissioni soprattutto nell’ambito della ritrattistica e della statuaria di soggetto allegorico: tra le più importanti, il delicato e composto Angelo della Resurrezione a tutto tondo per la famiglia di Costantino Bernasconi nel cimitero di Chiasso (1850), il teatrale cenotafio marmoreo di Maria Isimbardi nella villa del marito Giovanni d’Adda ad Arcore (1851-53) e il sepolcro di Vincenzo Dalberti e Giovanni Martino Soldati nel piccolo cimitero di Olivone, presso Blenio (1852), dominato da una sapiente alternanza di stiacciati e altorilievi.
Il 10 luglio 1852 l’Accademia di Brera, allora presieduta dal filoaustriaco Ambrogio Nava, offrì allo scultore il diploma di socio d’arte, insieme alla nomina a professore. Vela però rifiutò recisamente, essendo state insignite del titolo anche le autorità austriache allora presenti a Milano, compreso il feldmaresciallo Radetzky. A causa del gesto provocatorio, lo scultore venne espulso dal Lombardo-Veneto e fu costretto a riparare a Ligornetto.
Di lì a poco, su consiglio di amici, decise di trasferirsi a Torino, meta d’elezione di molti emigrati politici dopo il 1848. Vi si insediò in pianta stabile nell’aprile del 1853, un mese dopo aver sposato la modella Sabina Dragoni, che aveva conosciuto fin da ragazza nell’atelier di Cacciatori. Da lei avrebbe avuto l’unico figlio, Spartaco (1854-1895), affermatosi a fine secolo come pittore a Milano.
La popolarità delle opere, l’adesione alla causa nazionale e il sostegno di una nutrita comunità di esuli lombardi nel Regno di Sardegna garantirono a Vela numerosi incarichi pubblici e privati. Risalgono a questi anni diverse commissioni per sculture in marmo, tra cui vanno ricordati la statua di slancio dinamico di Guglielmo Tell, richiesta da Giacomo Ciani per il lungolago di Lugano (1855-56); il sontuoso monumento funerario di Gaetano Donizetti nella basilica di S. Maria Maggiore a Bergamo (1855); il primo monumento civile in memoria di Cesare Balbo, raffigurato in posa antiretorica e riflessiva nel giardino dei Ripari a Torino (1856).
Il 12 ottobre 1856 il re Vittorio Emanuele II in persona assegnò a Vela la cattedra di scultura all’Accademia Albertina di belle arti. All’inaugurazione del corso, lo scultore spronò gli studenti a colmare il divario che separava la plastica dalla pittura, ricercando nei loro lavori «il sentimento, l’espressione, la verità, non che l’esatta riproduzione dei costumi nel vestir le figure» (Celio Binaghi, 2001, p. 164).
L’infittirsi delle commesse funebri e celebrative, nonché la partecipazione a numerose giurie di concorsi, indussero lo scultore a valersi in maniera sempre crescente della collaborazione di assistenti e allievi. In questi anni la sua scultura, diventata di moda, fu infatti richiesta da molte facoltose famiglie sabaude per ornare di marmi i sepolcri di loro proprietà nel cimitero di Torino: è il caso della tomba, di grande originalità iconografica, di Tito Pallestrini (1856).
Le idee progressiste dello scultore emersero con evidenza nel monumento all’Alfiere dell’Esercito sardo in piazza Castello a Torino (1857-59), eretto per commemorare l’intervento militare piemontese a sostegno dell’indipendenza lombarda nel 1848. Il semplice alfiere lì raffigurato con la bandiera in mano, infatti, intendeva celebrare il ruolo centrale delle classi più umili nella lotta antiaustriaca.
Artista-patriota, tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta ultimò svariati monumenti marmorei in onore di protagonisti ed eroi del Risorgimento: da quelli torinesi di Daniele Manin (1858-61) e Vittorio Emanuele II (1860-65), a quelli dedicati a Camillo Benso nel Camposanto monumentale di Pisa (1861) e nella Borsa merci di Genova (1861-63). Meno felice sarebbe stato invece l’esito del concorso torinese per il monumento al medesimo conte di Cavour (1863), conclusosi con l’assegnazione della commessa al fiorentino Giovanni Dupré.
Anche le opere a destinazione espositiva riscossero consensi. Al Salon parigino del 1863, ad esempio, il gruppo allegorico in marmo L’Italia riconoscente alla Francia, donato dalle nobildonne milanesi alla moglie di Napoleone III, gli valse l’onorificenza di chevalier de la Légion d’honneur. All’edizione del 1867, inoltre, una delle tre opere esposte, l’intenso e antiretorico marmo Gli ultimi giorni di Napoleone I (1866), vinse la medaglia d’oro di prima classe e venne acquistato da Napoleone III.
La volontà di sfruttare il recente successo parigino, la delusione per la sconfitta al concorso del 1863 e la perdita di alcuni appoggi determinanti nel neonato Regno d’Italia indussero Vela a lasciare Torino nel 1867.
Ritornò quindi nella nativa Ligornetto, dove dal 1862 si era fatto costruire da Isidoro Spinelli una dimora-atelier monumentale su progetto di Cipriano Ajmetti. Luogo di ideazione per i suoi successivi venticinque anni di attività, nel 1892 la villa sarebbe stata donata dal figlio Spartaco, secondo il volere paterno, alla Confederazione svizzera. Grazie a nuovi lasciti, nel 1898 vi sarebbe sorto il Museo Vela.
Nella città d’origine l’artista fu attivo nella vita politica cantonale sia come deputato radicale al Gran Consiglio ticinese (1877-81), sia come membro di commissioni e istituti culturali. L’attività artistica, seppur diradata rispetto al periodo torinese, si concentrò invece su monumenti funerari e su busti-ritratti. Non mancarono tuttavia gli insuccessi, legati soprattutto alle sfibranti trattative sui progetti dei monumenti a Daniele Manin per Venezia (1870-72) e di Carlo di Brunswick per Ginevra (1873-77), mai portati a termine dall’artista. Il solo importante concorso cui decise di partecipare in seguito fu quello per un monumento romano alla memoria di Vittorio Emanuele II (1881-84), nel quale, però, conseguì solo la medaglia d’argento.
Gli anni Ottanta registrarono un’evoluzione nello stile dell’artista. Intorno al 1882 concluse di propria iniziativa, senza aver ricevuto alcuna commissione, un altorilievo in gesso dedicato ai lavoratori morti durante la costruzione della galleria ferroviaria del San Gottardo (Le vittime del lavoro, 1880-82, Ligornetto, Museo Vela). In una lettera a Carlo Baravalle del 1886 ne spiegò il significato, nella volontà, in tempi in cui «si sprecano milioni per monumenti ai re, in cui si erigono tanti ricordi per i potenti, pei ricchi, e [...] anche pei martiri dell’indipendenza italiana», di immortalare anche «i martiri del lavoro» (Mollisi, 2007-2008, p. 97). Espose poi il gesso, destinato a diventare un manifesto di realismo sociale in scultura, alla I Esposizione nazionale di Zurigo del 1883, con la speranza di trovare finanziatori che si facessero carico delle spese di fusione in bronzo. La sua volontà, però, sarebbe stata esaudita solo l’indomani della morte: nel 1893 il rilievo fu tradotto per la prima volta in bronzo; nel 1932 una nuova fusione trovò destinazione in un monumento nella stazione di Airolo.
Attese negli ultimi anni di vita al monumento in onore di Agostino Bertani a Milano (1887-89) e a quello di Giuseppe Garibaldi per la città di Como (1888-89), nel cui basamento si ritrasse tra gli insorti vincitori contro gli austriaci durante le Cinque giornate comasche del 1848. In queste opere in bronzo, il realismo tipico della produzione più fortunata dello scultore fu affiancato da una più marcata vena espressionistica, specie nella resa movimentata della materia e nella vibrante definizione dei corpi.
Morì il 3 ottobre 1891 nella propria villa di Ligornetto (Zanchetti, 1998, p. 1772).
Fonti e Bibl.: Gran parte della documentazione sull’artista è conservata nel Fondo Vela dell’Archivio federale di Berna. Il fondo epistolario (in corso di pubblicazione a cura di Giorgio Zanchetti) è invece custodito presso il Museo Vela di Ligornetto.
A. Guidini, V. V., Como 1893; R. Manzoni, Vincenzo Véla. L’homme, le patriote, Milano 1906; N.J. Scott, V. V., 1820-1891, New York 1979; G. Zanchetti, V. V., in Dizionario biografico dell’arte svizzera, II, Zurigo-Losanna 1998, pp. 1772 s.; Monumento pubblico e allegoria politica nella seconda metà dell’Ottocento e in V. V., a cura di G.A. Mina Zeni, Berna 1998; C. Celio Binaghi, La Casa di V. V. a Ligornetto: il gusto di uno scultore e collezionista della seconda metà dell’Ottocento, in Archivio storico ticinese, s. 2, XXXVIII (2001), 129, pp. 161-170; Museo Vela. Le collezioni. Scultura, pittura, grafica, fotografia, a cura di G.A. Mina Zeni, Lugano 2002; M.-J. Wasmer, Il Museo Vela a Ligornetto. La casa-museo dello scultore ticinese V. V., Berna 2003; G. Zanchetti, V. V. Le vittime del lavoro, in Galleria nazionale d’arte moderna. Le collezioni. Il XIX secolo, a cura di E. di Majo - M. Lanfranconi, Milano 2006; G. Mollisi, “Le vittime del lavoro” di V. V.: un monumento ai morti del traforo del Gottardo, in Arte & storia, VIII (2007-2008), 36, pp. 96-101; G. Zanchetti, “La voce pubblica indica Vela”: tracce di studio per l’attività di V. V. a Bergamo, ibid., X (2009), 44, pp. 314-327; V. Bertone - M. Tomiato, Gli anni torinesi di V. V.: appunti su committenze pubbliche e private, ibid., XI (2011), 52, pp. 598-613; G. Zanchetti, Libertà di linguaggio e valori liberali nella scultura di V. V., in V. V. La scultura per esprimere il valore della libertà. Relazione d’esercizio 2012, a cura di M. Facchinetti - A. Paganini, Lugano 2012, pp. 13-21; L. Facchin, Maestri ticinesi a Pisa all’alba dell’Italia unita: da V. V. a Carlo Spigaglia di Ronco sopra Ascona, in Arte & Storia, XIV (2014), 62, pp. 202-213; G.A. Mina Zeni, V. V. e il suo tempo, in Presenze d’arte nella Svizzera italiana, 1840-1960, a cura di C. Brazzola - C. Sonderegger, Bellinzona 2015, pp. 45-59; Le ‘Vittime del lavoro’ di V. V., 1882. Genesi e fortuna critica di un capolavoro, a cura di G.A. Mina Zeni, Ligornetto 2016; G. Zanchetti, La preghiera del mattino, 1846, in 100 anni: scultura a Milano, 1815-1915, a cura di P. Zatti - O. Cucciniello - A. Oldani, Milano 2017, pp. 126 s.