TROYA, Vincenzo
– Settimo di otto fratelli, nacque l’8 giugno 1806 in contrada Brusesio nel comune di Magliano Alfieri (Cuneo), da Bartolomeo, possidente, e da Margherita Troya (omonima del marito).
Compiuti privatamente gli studi fino alla classe della retorica (equivalente alla scuola ginnasiale), entrò nel seminario di Alba dove, vestiti gli abiti chiericali, seguì i corsi di filosofia e di teologia. Nel 1823 si iscrisse all’Università di Torino, ma fu presto richiamato ad Alba dal vescovo monsignor Giovanni Antonio Nicola come ripetitore nel seminario. Completati in ogni caso gli studi accademici, acquisì il titolo di professore di retorica nel 1826.
Per la sua formazione decisivo fu l’incontro con l’abate Giuseppe Anselmi (1769-1842), anch’egli cuneese, protagonista del dibattito scolastico subalpino del primo Ottocento con un progetto di riforma scolastica presentato nel 1818 (prevedeva l’abolizione del latino nelle scuole elementari, l’incremento dell’insegnamento della lingua italiana e il ricorso anche a insegnanti laici) e autore di innovativi libri di testo graduati sull’età degli allievi. Attraverso la sua frequentazione Troya fu introdotto alle idee liberali e alla visione della scuola come potente strumento di lotta contro l’ignoranza e di rinnovamento della coscienza pubblica.
Appena laureato fu chiamato a insegnare umanità e retorica nel collegio di Cherasco. Qui aprì un collegio-convitto, fondò una filodrammatica giovanile e soprattutto praticò uno stile di insegnamento, meno rigido e ossequioso rispetto alle prassi del tempo, aperto anche agli aspetti della vita quotidiana. Nel clima un po’ plumbeo che fece seguito ai moti piemontesi del 1821 le (tutto sommato) modeste aperture alla modernità del giovane chierico e professore non passarono inosservate e furono causa di un’ispezione e del conseguente allontanamento dalla scuola.
Grazie ai buoni uffici di alcuni estimatori, Troya fu tuttavia presto riabilitato e inviato nel collegio di Barge, vicino a Pinerolo (1828). Qui accaddero alcuni importanti eventi destinati a segnarne la vita pubblica e privata.
Accanto alla docenza ufficiale, diede vita a una sorta di scuola privata che, libera dai vincoli dei programmi ufficiali, gli offrì l’occasione di sperimentare il nuovo metodo didattico che stava elaborando. Nel far tesoro dei suggerimenti di Anselmi, bandì il latino nei primi due anni della scuola elementare, riservandoli all’apprendimento della lettura in lingua italiana, scrittura, calcolo e qualche nozione scientifica, legò la conoscenza della grammatica alla vita quotidiana e tenne in gran conto la necessità di adeguare l’insegnamento allo sviluppo delle capacità degli allievi.
Sul piano privato prese la decisione di abbandonare la carriera ecclesiastica, unendosi poi in matrimonio nel 1829 con Clotilde Simondi, la prima moglie che gli diede quattro figli: Giuseppa (1834-1856), Ettore (1840-1930), Giulietta (1843-1876) e Giovanni (1849-1897).
Le esperienze maturate sul piano pratico e le riflessioni sull’organizzazione degli studi lo spinsero a esporre pubblicamente un’analisi critica del sistema piemontese d’istruzione primaria e secondaria del tempo.
In occasione dell’inaugurazione dell’anno scolastico 1833-34 presentò una riforma degli studi articolata in tre punti: separazione della scuola elementare da quella a base latina; predisposizione di testi scolastici adeguati all’età degli allievi; metodi di insegnamento meno nozionistici e basati sull’attivazione dei «sensi dei fanciulli: essi sieno gli organi per cui si abbiano a infondere le cognizioni» (N. Pettinati, Vincenzo Troya..., 1896, p. 41).
Troya non mancò di attribuire anche un significato sociale alle sue proposte. L’istruzione basata sulla realtà e non sulle nozioni apprese meccanicamente a memoria poteva essere di grande utilità anche ai fanciulli dei ceti popolari in quanto essa «non disvia gli animi di coloro che all’agricoltura o alle arti meccaniche si destinano, i quali frequentando anche nel solo inverno, potranno tesoreggiare utilissime cognizioni e acquistare un maneggio di lingua italiana sufficiente per la loro condizione sociale» (ibid., p. 46). Le riflessioni proposte in questo documento rappresentano il nucleo fondante della sua pedagogia cui restò comunque fedele in seguito.
Queste tesi, inizialmente viste con qualche circospezione, costituirono dopo pochi anni – mutato il clima politico – un buon titolo per entrare a far parte del ristretto gruppo di studiosi impegnati nei progetti di riforma scolastica incoraggiati da Carlo Alberto nella seconda metà degli anni Trenta, volti a moltiplicare le scuole e a svecchiarne i contenuti.
Segno di questa crescente stima fu il trasferimento che portò nel 1838 Troya finalmente a Torino a insegnare nel prestigioso collegio di San Francesco da Paola. Qui, come da sua richiesta, gli fu concesso di aprire due classi elementari sperimentali senza latino nelle quali provare il suo metodo («non si potranno avere buone scuole elementari fino a che qualcuno non abbia mostrato praticamente come una tal scuola si faccia»: ibid., p. 59), primo abbozzo di scuola elementare non più funzionale agli studi secondari. Tale iniziativa – cui si aggiunsero l’apertura di un convitto privato e la promozione dell’insegnamento della ginnastica e del canto – gli diede larga notorietà.
Nel 1840 il magistrato della Riforma gli affidò un duplice incarico: preparare una Istruzione ai maestri delle scuole elementari e compilare una serie di libri di testo appositamente destinati all’istruzione primaria e centrati sull’apprendimento della lingua italiana.
L’Istruzione – il cui testo definitivo riunì anche le indicazioni di altri studiosi – suggeriva ai maestri come migliorare il loro insegnamento, invitando a renderlo «gradevole e razionale», adeguandolo alla «capacità delle varie classi», praticando «l’uso del metodo simultaneo e misto» al posto di quello individuale, tracciando un profilo di maestro imparziale, paziente, dolce, non manesco.
I testi rapidamente redatti da Troya (Sillabario, Primo libro di lettura, Secondo libro di lettura, Elementi di grammatica italiana, Elementi di aritmetica) erano ispirati al principio di una «piccola enciclopedia popolare» che mentre bastava a chi non era destinato a seguire ulteriori studi scolastici, assicurava comunque una base affidabile in vista degli studi ulteriori.
Fu quasi scontato che quando, nel 1844, Ferrante Aporti venne a Torino per tenere un corso di metodica ai futuri insegnanti, fosse chiamato Troya al posto di assistente del pedagogista cremonese. E quando, poco dopo, prese avvio il giornale scolastico L’Educatore primario (1846) promosso dalla élite pedagogica e politico-scolastica piemontese (Carlo Boncompagni, Domenico Berti, Giovanni Antonio Rayneri), Troya ne divenne uno tra i principali collaboratori.
La rinomanza conquistata in quei primi anni Quaranta spinse Troya a sperare in qualche riconoscimento accademico allorché nel 1846 nell’Ateneo subalpino venne istituita la cattedra di metodica per preparare i docenti delle Scuole provinciali di metodica a loro volta previste per formare maestri meno improvvisati e più esperti. Ma le autorità accademiche lo tennero fuori dal progetto e gli preferirono altri (dapprima Casimiro Danna e poi Rayneri, dopo la rinuncia di Boncompagni).
Le ragioni non sono del tutto chiare: forse la sua preparazione teorica era ritenuta un po’ fragile (così si adombrerebbe da un accenno di Boncompagni stesso in una lettera ad Aporti); forse il metodo propugnato scontava una certa lontananza dalla pedagogia rosminiana, allora in gran voga, con cui il suo sensismo pedagogico e le tracce di pestalozzismo erano poco in sintonia.
Troya fu così dirottato a Genova ove, dall’autunno del 1846, tenne corsi di metodica nella scuola per i maestri nel frattempo colà aperta sul modello torinese. Questi primi contatti con l’ambiente genovese furono l’inizio di una fruttuosa collaborazione che lo convinsero a trasferirsi l’anno seguente nel capoluogo ligure. Qui si legò agli ambienti del liberalismo riformista raccolti nel Circolo nazionale (di cui fu anche parte attiva) impegnati a potenziare la diffusione dell’istruzione pubblica in varie direzioni: lotta all’analfabetismo, rafforzamento della preparazione dei maestri e delle maestre, potenziamento dell’istruzione femminile e creazione di corsi professionali.
Negli anni trascorsi a Genova ricoprì molteplici incarichi (ispettore, direttore delle scuole elementari, promotore delle scuole serali per adulti e di quelle reggimentali per i soldati) che gli offrirono l’occasione di stendere importanti documenti tuttora preziosi per la ricostruzione delle vicende scolastiche del tempo come, ad esempio, le relazioni sulle scuole liguri e sulla formazione delle maestre (Bacigalupi, 2014, e 2018). Nonostante difficoltà e resistenze, il suo apporto favorì nella scuola genovese una svolta riformatrice che la dotò di un vero e proprio sistema di scuole elementari, per quanto condizionato dalla precarietà delle strutture scolastiche e dalla modesta qualità degli insegnanti.
Il cumulo delle responsabilità tuttavia non gli giovò e gli attirò molteplici critiche sia da parte degli ambienti tradizionalisti sia dai settori più radicali e antipiemontesi della città ligure, accompagnate talora da insinuazioni non benevole (fu accusato di una certa avidità economica) che non poco lo amareggiarono. Nel 1853 si risposò, dopo la scomparsa della prima moglie, con Rosina Balderacchi (1823-1868) da cui ebbe l’ultima figlia, Polissena (1857-1926).
La collaborazione con i giornali scolastici gli consentì di restare sulla scena del dibattito pubblico, ma la lontananza dal ministero della Pubblica Istruzione lo escluse, di fatto, dalla partecipazione diretta alle decisioni di politica scolastica. Invano tentò attraverso le amicizie di un tempo (in specie Berti e Rayneri) e la conoscenza di Aporti di rientrare nel circuito ministeriale. La fortuna dei suoi libri scolastici, continuamente ristampati, cominciò inoltre a essere erosa da altri autori e da altre iniziative editoriali, anche se non mancarono ancora alcuni testi fortunati come l’Antologia di prose e poesie italiane, un Sillabario e un Libro di letture per adulti.
Lasciata Genova nel 1857, Troya accettò un incarico presso il collegio militare di Asti inaugurato nel febbraio del 1858, posto di prestigio e ben retribuito, ma anche lontano dai suoi interessi e dalle specifiche competenze. Nel 1862 diede le dimissioni dagli incarichi ufficiali e si ritirò nel paese natale ove fu nominato sindaco, carica che tenne fino al 1865 quando, a causa di un’incipiente malattia agli occhi che lo condusse in seguito alla cecità, tornò ad abitare a Torino.
In quello stesso anno la nomina di Berti, suo antico sodale, a ministro della Pubblica Istruzione riaprì le porte ministeriali a Troya che fu incaricato di preparare un progetto di riforma delle scuole normali. Nonostante le precarie condizioni di salute si trasferì temporaneamente nella nuova capitale del Regno e in pochi mesi provvide alla stesura di un testo poi raccolto nel volume Documenti sull’ordinamento delle scuole (Firenze 1866). La breve permanenza di Berti al vertice dell’istruzione nazionale non consentì tuttavia a questo e a nessun altro piano d’azione di approdare a esiti tangibili (in particolare fallì il progetto, condiviso anche da Troya, di costituire la Società italiana per l’educazione popolare per favorire l’iniziativa privata in ambito scolastico).
Nel 1868 fu colpito da una seconda vedovanza in seguito alla morte della moglie Rosina. Dal 1875 al 1878 si stabilì nuovamente a Genova ove accettò di dirigere il giornale scolastico La Scuola e la famiglia, espressione di liberalismo moderato favorevole alla libertà d’insegnamento nel rispetto dei diritti educativi della famiglia. Fu l’ultimo capitolo pubblico del pedagogista cuneese ormai quasi completamente cieco.
Nel 1878 rientrò a Torino e qui, assistito dalla figlia Polissena e dal genero Nino Pettinati, morì all’alba del 30 gennaio 1883.
Fonti e Bibl.: Le carte private di Troya sono andate perdute; ne restano tracce nella biografia di N. Pettinati, Vincenzo Troya e la riforma scolastica in Piemonte, Torino 1896. Documenti relativi a Troya rispettivamente in: Archivio di Stato di Torino (Istruzione pubblica e Scuole normali, 1841-1849); Torino, Archivio storico dell’Università degli studi (Corrispondenza magistrato della Riforma 1842-1847; registri Esami verbali de’ professori di metodo); Genova, Archivio storico del Comune (Segreteria amministrazione civica. 1845-1860).
G. Vidari, Lettere di Piemontesi a Ferrante Aporti nel periodo 1838-1849, in Atti della Reale accademia delle scienze di Torino, LXII (1927), pp. 650-708, ad ind.; N. Nada, Le vicende politiche genovesi del marzo 1848 in alcune lettere di V .T. a Cesare Alfieri, in Miscellanea di storia del Risorgimento..., Genova 1967, pp. 251-262; V.G. Cardinali - L. Antonetto - F. Primosich, V. T. Vita e opere di un educatore piemontese, Magliano Alfieri 1983; Scuola e stampa nel Risorgimento. Giornali e riviste per l’educazione prima dell’Unità, a cura di G. Chiosso, Milano 1989, pp. 29-35, 38-45, 53 s.; La stampa pedagogica e scolastica in Italia (1820-1943), a cura di G. Chiosso, Brescia 1997, nn. 421, 634, 1016; C. Sideri, Ferrante Aporti: sacerdote, italiano, educatore, Milano 1999, pp. 360-366; M.C. Morandini, Scuola e nazione. Maestri e istruzione popolare nella costruzione dello Stato unitario (1848-1861), Milano 2003, pp. 32-44; M. Bacigalupi, Le scuole liguri nelle relazioni dell’ispettore V. T. (1848-1857), in Annali di storia dell’educazione e delle istituzioni scolastiche, XXI (2014), pp. 245-282; Ead. - P. Fossati, Dal «ludimagister» al maestro elementare. Le scuole in Liguria tra Antico Regime e Unità d’Italia, Milano 2016, pp. 533-597 e passim; M. Bacigalupi, Diventare maestre a Genova nel decennio preunitario, in Rivista di storia dell’educazione, V (2018), 1 (giugno), pp. 227-245.