SCAMOZZI, Vincenzo
SCAMOZZI, Vincenzo. – Figlio di Giandomenico (1526-1582) e di Caterina Calderaro, nacque a Vicenza nel 1548.
Il padre vi era giunto nel 1533, proveniente da San Matteo in Valtellina. Misuratore e stimatore di terreni, Giandomenico era anche costruttore: a lui si devono il restauro delle volte della cattedrale di Vicenza (1581) e le case dei Pizzioni in quartiere S. Pietro (1560).
Grazie ai pionieristici studi di Franco Barbieri, sappiamo che, sotto la guida del padre, Vincenzo fu avviato allo studio della geometria e della cultura classica, ma fu la conoscenza delle Regole generali di architettura di Sebastiano Serlio (parzialmente pubblicate dal 1537, fino all’edizione completa dei primi cinque libri del 1566) il principale lascito culturale al figlio. Dell’opera serliana Giandomenico avrebbe in seguito compiuto un’analitica dissezione, con la pubblicazione di un Indice copiosissimo delle cose più degne che si trovano per tutti i libri d’architettura del Serlio nelle edizioni serliane del 1584 (di cui la curatela a opera di Giandomenico è oggetto di dibattito tra gli studiosi), nonché con la pubblicazione del Discorso [...] intorno alle parti dell’Architettura, inserito nel primo libro dell’edizione del 1600. Le postille scamozziane sono di natura lessicale, concettuale e tecnica, ma soprattutto rivelano quanto dell’insegnamento serliano fu fondamentale nella formazione del giovane Vincenzo: la conoscenza archeologica dei monumenti antichi e il ruolo della prospettiva, fondata sulla matematica, come base per l’elaborazione di una teoria scientifica dell’architettura. D’altronde, un Trattato di prospettiva in sei libri fu composto da Scamozzi intorno al 1575: mai dato alle stampe, ce ne rimangono testimonianze letterarie e grafiche. La pubblicazione nel 1580 delle due tavole con la ‘corografia’ delle terme Antoniane e di Diocleziano dimostra inoltre quanto la prospettiva (in questo caso uno spaccato a volo d’uccello) fosse intesa da Scamozzi come strumento conoscitivo dell’architettura antica.
La conoscenza dei monumenti romani si basava sui viaggi compiuti a Roma da Scamozzi nel 1578-80, 1585 e 1598. Nei Discorsi sopra le antichità di Roma, pubblicati a cura di Girolamo Porro nel 1581, Scamozzi corredò di eruditi testi esplicativi le vedute delle rovine romane, incise in prima edizione nel 1561 da Battista Pittoni. La competenza archeologica in Scamozzi era infatti supportata da un’estesissima erudizione, testimoniata dall’imponente opera critica di glosse compiuta sui libri da lui posseduti, fino al tentativo di sistematizzazione costituito dagli inediti Sommari degli scrittori antichi (manoscritto risalente al 1586 e conservato presso la Biblioteca nazionale Marciana di Venezia, Cod. It., cl. IV, 128 [=5602]). A Roma, però, il giovane Scamozzi frequentò anche le lezioni tenute al collegio dei gesuiti dal matematico Cristoforo Clavio, da cui sarebbe scaturito il suo interesse per le arti meccaniche e per la matematica classica, in particolar modo per Pappo d’Alessandria e per Erone. L’attenzione per l’acustica e per l’idraulica, discipline che Scamozzi avrebbe utilizzato per la progettazione di teatri (soprattutto l’intervento a Sabbioneta) e di giardini, faceva parte di un approccio più generale a un bagaglio di conoscenze scientifiche, che era indispensabile per la fondazione dell’architettura come ‘scientia’, e che avrebbe portato l’architetto a contatto con Galileo Galilei, grazie al matematico vicentino Paolo Gualdo. Per tutta la sua vita, d’altronde, Scamozzi sarebbe rimasto in frequente contatto con umanisti e scienziati come Antonio Possevino e Scipio Gabrielli.
Contemporaneamente, Scamozzi iniziò a entrare in contatto con la nobiltà vicentina, formandosi un primo nucleo di committenza, cioè i Ferramosca, i Dal Ferro e i Verlato, per i quali costruì le sue prime ville. In queste opere l’eredità palladiana traspariva dall’integrazione di un corpo di fabbrica dominicale (con pianta tripartita e uso aulico di ordini architettonici all’esterno) ad annessi con uso agricolo (barchesse). Dopo le prime prove con le ville per Girolamo Ferramosca a Barbano (1568) e per Giovanni Giacomo e Giovanni Battista Dal Ferro a Giavenale (1572-73), nel 1574 Scamozzi iniziò una profonda revisione della villa palladiana con due opere rivoluzionarie. Nella villa per Leonardo Verlato a Villaverla la prevalenza della funzione celebrativa su quella agricola spiega l’aspetto di palazzo di città che assume la residenza domenicale, dove l’otium umanistico e il negotium delle occupazioni agricole devono rimanere nettamente separate. È però con la villa costruita a Lonigo per Vettor Pisani che finì l’epoca della villa-fattoria palladiana. Quanto integrata con il territorio e le attività agricole appare la villa palladiana costruita per la stessa famiglia a Bagnolo, tanto isolato sul colle di Lonigo risulta l’edificio scamozziano. Il confronto con Andrea Palladio non può esaurirsi in quello con la Rotonda vicentina, cioè nel diverso rapporto con il paesaggio (introverso in Scamozzi, estroverso in Palladio) e nel differenziato dialogo tra espressioni artistiche (pittura e scultura in Palladio, pura architettura in Scamozzi), perché Scamozzi proprio in quegli anni era chiamato a intervenire su cantieri di Palladio lasciati aperti dopo la sua morte nel 1580: la stessa Rotonda, i palazzi di Enea Thiene e di Alessandro Porto, ma soprattutto il Teatro Olimpico (1584), dove, nel ridisegno del sistema di accessi, nella riconfigurazione del frons scenae e soprattutto nella realizzazione delle scene prospettiche, ispirate alle scenografie di Serlio, Scamozzi si appropriò del capolavoro palladiano, mutandone molti dei significati.
La città di Vicenza fu il contesto in cui Scamozzi intervenne per un’altra operazione di rinnovo tipologico, in questo caso del palazzo. Rispetto al palazzo palladiano, quello concepito da Scamozzi è un manufatto più economico, di limitate dimensioni e con un atteggiamento quasi ‘mimetico’ nei confronti del contesto: i prospetti, infatti, si adattano alle quinte viarie senza imporsi con monumentali sistemi decorativi e la planimetria del piano terreno interagisce con il meccanismo viario preesistente, divenendo parte integrante di esso. In effetti, il palazzo costruito per Pierfrancesco Trissino in contrada del duomo (1577) è posto all’incrocio di due strade pubbliche che, grazie ai due ingressi e a un percorso interno che intercetta il cortile, risultano collegate tra di loro. Anche nel caso del palazzo per Galeazzo Trissino, iniziato nel 1588, Scamozzi inserì una residenza di grandi dimensioni nella strada principale della città (oggi corso Palladio), realizzando un sistema di spazi e di percorsi che, grazie al ruolo di snodo del cortile interno, interagiscono con il sistema viario urbano e risolvono con una limpida geometria l’irregolare forma del lotto. In questa prima fase della sua attività Scamozzi operò in una società vicentina in veloce trasformazione, con alcune famiglie, come i Valmarana, i Verlato e i Chiericati, che si allearono con la famiglia Porto in difesa della tradizione e dei privilegi degli antichi lignaggi. Soprattutto a questa fazione fece riferimento Scamozzi, che con il linguaggio della sua architettura, più sobrio e ‘severo’ rispetto ai precedenti palladiani, diede forma a una versione più dimessa e insieme elitaria di autocelebrazione familiare.
Quando, all’inizio degli anni Ottanta, Scamozzi tentò di affermarsi professionalmente anche a Venezia, trovò similmente una situazione politica in tumultuosa evoluzione, scaturita nella riforma istituzionale del 1582-83: tra la fazione dei ‘giovani’ (tradizionalisti e filofrancesi) e quella dei ‘vecchi’ (filoromani e legati a modalità fastose di autocelebrazione), Scamozzi si legò soprattutto a quest’ultima, trovando l’appoggio di personalità politiche di primo piano come Federico e Jacopo Contarini, Federico Corner, Pietro Duodo, Marino Grimani, il doge Nicolò Da Ponte (per il quale realizzò il monumento funerario nella chiesa della Carità, 1582) e soprattutto Marcantonio Barbaro.
Proprio il colto intendente di architettura che, insieme al fratello Daniele, era stato tra i principali promotori di Palladio, sarebbe stato uno dei protagonisti del clamoroso insuccesso che Scamozzi affrontò in due cantieri pubblici aperti in contemporanea in piazza S. Marco. Quando, nel 1581, egli ottenne l’incarico di completare la fabbrica sansoviniana della Libreria Marciana, fu proprio Marcantonio (eletto procuratore alla fabbrica nel gennaio del 1581 more veneto, cioè 1582) ad appoggiarne l’ipotesi di elevare l’edificio di un terzo livello di ordine corinzio, trovando la soluzione sansoviniana a due piani troppo sproporzionata. Di questa soluzione scamozziana, però, rimane soltanto il progetto che raffigura il compimento del primo piano nobile (Firenze, Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi, A 192 e 193), perché la decisione fu procrastinata fino al 1587-88, quando una commissione di capimastri (proti) sconsigliò la sopraelevazione per motivi statici e per un più generale ragionamento sull’equilibrio formale dell’area marciana.
La vicenda della Libreria era strettamente collegata a quella della costruzione delle Procuratie nuove. L’idea di continuare il partito architettonico della Libreria lungo tutto il perimetro della piazza per costruire un vero e proprio foro ‘all’antica’ era stata proposta dallo stesso Jacopo Sansovino, il quale, arretrando rispetto al campanile l’angolo nordorientale della Libreria, aveva di fatto condizionato qualunque successiva sistemazione del fronte meridionale della ‘platea marciana’, che risultava così molto più larga in seguito alla demolizione di preesistenti edifici medievali. La decisione di avviare i lavori, però, fu presa soltanto nel 1580, e il 10 aprile 1582, in seguito a un concorso, fu approvato il progetto di Scamozzi, che prevedeva un edificio a due soli livelli, raffigurato in parte in un modello ligneo realizzato da «artificiosi maestri vicentini» (L’idea della architettura universale, 1615, parte I, l. I, cap. 15, p. 52).
I tre procuratori responsabili della decisione erano Andrea Dolfin, Marcantonio Barbaro e Federico Contarini, fratello di Giacomo dedicatario nel 1581 dei Discorsi sopra le antichità di Roma. La variante con l’aggiunta di un terzo livello corinzio, presentata da Scamozzi il 20 ottobre e fatta approvare da Barbaro, è esplicitamente collegata alla contemporanea vicenda della Libreria: laddove un innalzamento sulla piazzetta avrebbe interferito con la mole di palazzo ducale e della stessa basilica, sulla piazza avrebbe comportato soltanto un utile aumento di superficie abitabile per gli appartamenti dei procuratori. Questi furono organizzati in modo molto funzionale, con due entrate, due logge sui cortili interni e una chiara distinzione tra ambienti di rappresentanza e spazi di servizio (ricavati nei mezzanini); un efficiente sistema di scale principali e secondarie, i sistemi incrociati di collegamento tra gli appartamenti e il ruolo del cortile come elemento ordinatore della planimetria erano tutti elementi che riprendevano in modo seriale quanto già sperimentato in palazzo Trissino al Corso.
Proprio l’eccessivo decoro delle pareti del cortile provocò però un’interruzione dei lavori, già nel 1589; le successive polemiche inerenti al progetto scamozziano furono superate soltanto nel 1597, quando il doge Marino Grimani e il partito dei ‘giovani’ approvarono definitivamente il modello a tre livelli, a prezzo, però, dell’estromissione di Scamozzi dal cantiere, di una drastica revisione formale dei cortili interni e perfino di una semplificazione della decorazione scultorea del prospetto sulla piazza. Così, la renovatio della platea magna diventò oggetto di dialettica politica e ideologica sul ruolo dell’architettura nella definizione dell’imago urbis.
Tutta la vicenda dimostra anche la radicale estraneità di Scamozzi al sistema architettonico veneziano, basato su quel pragmatico adattamento della novità alla secolare tradizione edilizia lagunare che Sansovino aveva saputo così efficacemente interpretare. In questo senso, il problematico innesto tra le Procuratie e la fabbrica della Libreria (faticosamente studiato da Scamozzi in altrettante varianti nei disegni in Firenze, Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi, A 194 e Gabinetto dei disegni del Louvre, 5448) ha tutta la forza visiva di un’esplicita critica all’uso ‘elastico’ degli ordini da parte dell’architetto fiorentino, cui Scamozzi oppone un’idea ‘universale’ (cioè decontestualizzata) e canonica, basata, cioè, sulla corretta applicazione degli esempi antichi. Ma il problema, qui, riguarda anche lo statuto professionale dell’architetto, che secondo Scamozzi, solo, conosce le regole della buona architettura, contro l’opinione dei «Capimastri delle fabbriche» (L’idea della architettura..., cit., parte I, l. I, cap. 28, pp. 84-86), i quali, in nome (e in forza) dell’interesse pubblico, e in base al loro sapere basato sulla pratica, rendono accidentato qualunque tentativo di sperimentare linguaggi e tecniche basati non sulla tradizione (garantita, in questo caso, dai proti veneziani), ma su un sapere speculativo.
Per questo insieme di motivi erano destinate al fallimento altre tre vicende veneziane che videro Scamozzi impegnato negli stessi anni: la chiesa della Celestia, il ponte di Rialto e la chiesa di S. Nicolò dei Tolentini. Il progetto per la chiesa della Celestia (1582) è descritto da Giovanni Stringa (Sansovino - Stringa, 1604, c. 426v) e probabilmente raffigurato in un disegno conservato a Chatsworth (Devonshire Collection, XXXV, 63): all’interno del perimetro della chiesa preesistente (danneggiata dall’esplosione dell’Arsenale del 1569) Scamozzi ricavò una sala rotonda (con oculo aperto nella sommità), con funzione di antitempio in asse con la navata vera e propria; il coro delle monache era sistemato in mezzo a questi due ambienti e aveva un doppio affaccio. Mentre la rotonda d’ingresso richiamava esplicitamente il Pantheon, la successione assiale dei tre spazi, pur riprendendo il principio compositivo del Redentore (Palladio, 1577), non rispondeva a nessuna ragionevole esigenza liturgica. La sospensione dei lavori nel 1604, la successiva demolizione e la sostituzione con un edificio più tradizionale danno la misura di quanto poco ricettivo fosse il contesto veneziano riguardo a uno spazio così esplicitamente sperimentale e ‘alla romana’.
La riflessione sullo spazio liturgico proseguì a Padova nello stesso 1582, con la costruzione del complesso di S. Gaetano, promossa dal vescovo di Padova, il veneziano Federico Corner, e destinata ai teatini.
Qui il tema dello spazio centralizzato è sviluppato sotto forma di un vano quadrato con angoli smussati, che genera una volta scandita da sedici costoloni; i tre ambienti laterali (compreso il presbiterio) e gli spazi accessori, destinati ai religiosi, diedero modo di risolvere razionalmente le nuove esigenze liturgiche dettate dalla Controriforma.
Al ritorno dal viaggio romano del 1585, Scamozzi lavorò contemporaneamente a Venezia (con la sistemazione dell’anticollegio di palazzo ducale, 1586), a Padova (con la proposta per l’altare del Santo a S. Antonio, 1586-87) e a Este, con la commissione per il monastero e la chiesa di S. Michele (iniziati nel 1586 e rimasti incompiuti). Nel 1588, oltre che nella costruzione di ville per committenti veneziani (Giorgio e Giovanni Corner a Poisolo; Pietro e Marco Badoer a Peraga di Vigonza), fu impegnato in due nuove commissioni da parte del vescovo Corner (la grotta ‘della fontana’ in villa dei Vescovi a Luvigliano e la chiesa e il convento di S. Agnese a Padova).
Contemporaneamente, Scamozzi venne chiamato da Vespasiano Gonzaga Colonna a progettare un teatro per Sabbioneta, la nuova città da lui fondata nel 1554 come capitale del suo ducato. Si trattava del primo teatro moderno costruito non riadattando ambienti preesistenti (come il Teatro Olimpico di Palladio o il Teatro Mediceo di Bernardo Buontalenti), ma erigendo ex novo un edificio che, anche nella sua ubicazione sulla via Giulia, principale arteria della città, era concepito per svolgere un ruolo urbano di primo piano nel progetto umanistico gonzaghesco, di cui l’iscrizione «ROMA QUANTA FUIT IPSA RUINA DOCET» appare come uno dei più efficaci motti. Dopo l’esperienza al Teatro Olimpico, con l’edificio di Sabbioneta (1588-90) Scamozzi rivoluzionò l’architettura teatrale: una sala rettangolare (memore della sistemazione a funzioni sceniche di sale e cortili nobiliari), il palcoscenico e la cavea dialogano tra di loro senza l’inserzione di un frons scenae, lo spazio riservato al pubblico è diviso tra le gradonate e il peristilio (destinato alla corte ducale), mentre lo spazio scenico era dominato dalla scenografia originaria, che, perduta in un incendio del 1780, è conosciuta attraverso un disegno di progetto (Firenze, Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi, A191r).
Tornato a Venezia, Scamozzi partecipò al concorso per la ricostruzione in pietra del ponte di Rialto, optando per una struttura a tre archi, piuttosto che a campata unica. In questo modo riprendeva le due ipotesi palladiane per lo stesso tema progettuale (1566 e 1570), adducendo l’autorità degli antichi e ragioni meccaniche di natura universale. Ancora una volta le divisioni interne all’élite veneziana condizionarono la politica architettonica: tra la soluzione a tre archi o a campata unica, la contesa tra i ‘giovani’ (capeggiati da Leonardo Donà e Alvise Zorzi) e i ‘vecchi’ (con Marcantonio Barbaro in testa) era di natura funzionale (legata al passaggio delle barche), strutturale (un sistema a piloni, piuttosto che a spalle laterali), ma soprattutto formale, perché mentre la prima opzione richiamava gli antichi ponti romani, la seconda sembrava più legata alle tradizioni veneziane. Nel confronto tra due diverse visioni dell’architettura come scienza (supportata anche da un anonimo Memoriale apparso nel pieno del dibattito: Cessi - Alberti, 1934, pp. 390-392, doc. 21), piuttosto che come empirica disciplina legata alla tradizione, fu quest’ultima a prevalere, con il progetto del proto Antonio Da Ponte definitivamente messo in opera entro il 1591.
Altrettanto traumatica fu la vicenda del cantiere della chiesa di S. Nicolò da Tolentino, alla cui progettazione Scamozzi fu chiamato dai teatini nel 1590, dopo una lunga operazione di acquisti fondiari e, forse, l’elaborazione di un progetto di autore ignoto già scartato diversi anni prima.
Il progetto scamozziano (testimoniato da disegni preparatori per il trattato: Timofiewitsch, 1961) prevedeva una successione longitudinale di spazi, secondo il modello palladiano del Redentore: una grande aula unica (con due file di tre cappelle laterali) incardinata su uno spazio triconco coperto da una grande cupola; il presbiterio era previsto in comunicazione con un retrocoro coperto da una cupola minore e collegato al convento mediante una serie di ambienti di servizio. Anche la facciata, con il sistema di ordini intersecati su alto piedistallo e l’uso di una serliana, richiamava modelli palladiani.
Il cantiere procedette in modo molto contrastato: Scamozzi dovette scontrarsi con un’irrisolta situazione inerente alla proprietà del lotto su cui fondare la chiesa, ma anche con l’opposizione delle maestranze riguardo alla tecnologia da adottare per fondare i piloni di supporto della cupola. I dissidi con la committenza portarono, nel 1593, alla sua esautorazione e alla prosecuzione di un edificio depauperato di alcuni degli elementi più innovativi: la cupola, le absidi laterali, la sistemazione del presbiterio e la gerarchia tra le cappelle laterali.
Fu proprio nei difficili anni del cantiere dei Tolentini che Scamozzi ottenne alcuni prestigiosi incarichi statali, a cominciare dall’allestimento dello statuario pubblico nell’antisala della Libreria Marciana. La sistemazione della collezione di statue antiche che Domenico Grimani, nel 1525, e suo nipote Giovanni, nel 1587, avevano donato alla Repubblica gli dette la possibilità di realizzare nell’invaso sansoviniano uno spazio esplicitamente ispirato all’interno del Pantheon, con le pareti scandite da lesene e da edicole timpanate che inquadrano su due dei quattro lati le finestre e, sugli altri due lati, delle nicchie destinate a ospitare le statue. L’intera operazione (1590-93) venne concepita da Scamozzi come un capitolo significativo di quella renovatio in senso antichizzante già impostata cinque decenni prima nell’area marciana dal doge Andrea Gritti, realizzando uno spazio moderno ma intriso di cultura antiquaria. Qui, però, Scamozzi dimostrò anche una singolare attenzione nel progettare il sistema d’illuminazione, un tema che avrebbe affrontato estesamente nel suo trattato (L’idea della architettura..., cit., parte I, l. II , cap. 13, pp. 137-139, l. III, cap. 14, p. 279).
In tutta la sua opera, egli, oltre a dimostrare una particolare attenzione per l’illuminazione zenitale (completamento della Rotonda, Rocca Pisana, trasformazione interna della chiesa veneziana di S. Salvador, progetto per la Celestia, cappella di S. Giorgio a Monselice), delineò una vera e propria tipologia delle soluzioni illuminotecniche, soffermandosi soprattutto sulle potenzialità di ‘lumi’ secondari che, fuori dalla vista, permettono però di regolare la luce concentrandola scenograficamente su alcuni punti precisi. È quanto riuscì a ottenere, per esempio, nella contemporanea sistemazione (1593 circa) dell’ambiente di palazzo ducale precedentemente adibito alla collezione di Domenico Grimani e convertito in cappella del doge (o ‘Chiesetta’). Lì, il gruppo della Madonna col Bambino di Jacopo Sansovino venne inquadrato in un complesso sistema di colonne corinzie, a sua volta sistemato all’interno di un monumentale portale e illuminato da due invisibili finestre laterali.
Tra gli anni Ottanta e Novanta del XVI secolo, una nutrita serie di commissioni in terraferma permise a Scamozzi di elaborare numerose varianti della villa palladiana, sviluppando in particolare il tema della ristrutturazione di edifici preesistenti (per Giovanni Francesco Priuli a Treville, 1590 circa); quello del prospetto allungato e scandito da un ordine monumentale di lesene (per Girolamo Ferretti a Dolo, 1596); il modello palladiano di villa Emo (casa dominicale cubica e due lunghissime barchesse ai lati) nella residenza per Giacomo Contarini a Loreggia (1590); la limpida associazione di volumi attorno a un ambiente quadrato centrale a tutta altezza (per Nicolò Molin alla Mandria, Padova, 1597) o l’astratto trattamento delle superfici esterne (villa Godi a Sarmedo, 1597-98). In questo panorama, rimane un’opera sui generis il complesso residenziale per la famiglia Duodo sul colle di Monselice. Lì, Scamozzi lavorò per due decenni, realizzando la villa per Francesco e Domenico (1589-90) – dove i resti della torre medievale vennero riutilizzati con un’inedita soluzione di sala a cielo aperto con funzione di belvedere –, poi la chiesa di S. Giorgio Martire (1592-97) e, infine, su commissione di Pietro Duodo, sei cappelle in un percorso devozionale che forma un vero e proprio ‘sacro monte’ (1605-ante 1611). Della villa Priuli a Carrara (oggi Due Carrare, 1597) ci rimane anche uno dei rari disegni di progetto di Scamozzi (Chatsworth, Devonshire Collection, XXXV, 70; Grant Keith, 1935, pp. 531-534), dove il tema della pianta tripartita e due scale laterali viene studiato in sei diverse varianti, con preziose indicazioni sulle coperture e dimensioni delle stanze, sulla direzione dei venti dominanti e sulla posizione di alcuni arredi.
In effetti il corpus dei disegni scamozziani conosciuti, pur essendo limitato (G. Beltramini, «LEONEM EX UNGUIBUS AESTIMARE». Un primo sguardo d’insieme ai disegni di Vincenzo Scamozzi, in Vincenzo Scamozzi 1548-1616, 2003, pp. 53-57), può essere organizzato in base alla loro funzione nel processo progettuale, dai primi schizzi a mano libera, alla riduzione geometrica delle prime idee (villa Duodo, S. Gaetano, Teatro Olimpico), fino ai disegni di presentazione, dove i diversi edifici (palazzo del podestà a Bergamo, cappella Duodo, progetto per la Libreria Marciana ecc.) sono offerti quasi sempre in una unica soluzione e non, come era solito Palladio, proponendo al committente diverse alternative.
Un caso a parte sono i grafici preparatori delle tavole per il trattato pubblicato nel 1615. L’intenzione di compendiare tutto il proprio sapere (scientifico, filosofico, letterario, tecnologico e archeologico) in un trattato di architettura risale probabilmente al 1581, ma fu solo dal 1591 che egli iniziò a lavorare a un’opera in dodici libri, poi ridotti a dieci. La stampa a Venezia dell’Idea dell’architettura universale (fine del 1615), presso la bottega di Giorgio Valentino, riguardò però soltanto sei volumi, rimanendone esclusi il IV (dedicato agli edifici civili dell’antichità), il V (templi), il X e l’XI: di questi, solo pochi lacerti grafici sarebbero andati a integrare l’edizione olandese del 1713 (a cura di Samuel du Ry). Il trattato è il tentativo di dimostrare la natura scientifica dell’architettura, una disciplina, cioè, basata sulla ‘certezza delle dimostrationi’, in cui la speculazione deve precedere l’esperienza. Solo su questo assunto aristotelico può basarsi una ‘scientia’ che anche nel suo aspetto creativo mantenga la sua natura filosofica e che, nella sua universalità e nella sua completezza, sia più uno strumento conoscitivo che il risultato di un sapere enciclopedico. In questa ottica, i disegni (leggibili su più livelli insieme alle parti scritte, come in una sorta d’ipertesto) sono rappresentazioni dense d’informazioni (rosa dei venti, note dimensionali, situazione del contesto), che nella realizzazione incisa si arricchiscono della caratteristica griglia ortogonale. Quest’ultima permette di leggere in un unico sguardo piante, sezioni e prospetti dell’edificio: una soluzione grafica che rende il disegno più uno strumento di conoscenza che mero supporto illustrativo.
Negli anni Novanta del Cinquecento Scamozzi tornò a occuparsi di architettura palaziale sia a Venezia – con il progetto per Federico Corner per il compimento del palazzo sansoviniano sul Canal Grande (post 1592) –, sia a Padova (con il probabile incarico per il completamento del palazzo di Antonio Priuli, 1597) e a Vicenza, dove, nel palazzo per Stefano Valmarana (1590-93), sviluppò il tema dell’inserimento nel contesto urbano, grazie al trattamento raffinatissimo e astratto dei prospetti e, ancora una volta, all’interazione tra la strada pubblica e i percorsi interni all’edificio.
A Venezia, il circolo di committenti ormai consolidato attorno alla sua figura gli garantì prestigiose commissioni. Il doge Marino Grimani, per esempio, lo incaricò di realizzare non solo il proprio monumento funebre a S. Giuseppe di Castello (1598-1604), ma anche l’apparato effimero per l’incoronazione a dogaressa di sua moglie Morosina (1597), risolto con un ‘portico argonautico’, cioè un teatro galleggiante ispirato alle navi cerimoniali romane. La committenza veneziana, però, si era nel frattempo allargata e, di conseguenza, anche la varietà degli incarichi: l’altare per la Confraternita degli orefici a S. Giacomo di Rialto (1601), il portale per la sacrestia dei Ss. Giovanni e Paolo (1601-03), e l’ospedale di S. Lazzaro dei mendicanti, per il quale fu presentato nel 1601 un modello che, però, rimase irrealizzato.
I numerosi viaggi compiuti da Scamozzi in quegli anni (nel 1598 a Roma; nel 1599-1600 a Praga, in Germania, in Francia e in Svizzera; nel 1600 e 1602 a Firenze) gli permisero di assumere una visione cosmopolita (L’idea della architettura..., cit., parte I, l. I, cap. 22, p. 67) e la statura di architetto internazionale. Da qui l’attenzione, inedita nella sua scientificità, per l’architettura gotica di Oltralpe (riassunta nel Taccuino di viaggio da Parigi a Venezia, 1600) e la raccolta di numerosi incarichi in parte realizzati, come il progetto di palazzo-fortezza per il duca polacco di Sbaras (1605 o 1612), il progetto per il palazzo Nuovo a Bergamo (1611, quasi in contemporanea con il progetto per il palazzo del podestà a Vicenza), i progetti del 1611 per due palazzi nobiliari (per Bartolomeo Fino a Bergamo e per la famiglia Ravaschieri a Genova) e la controversa vicenda del palazzo Strozzi a Firenze (1602). Ma fu soprattutto a Salisburgo che Scamozzi poté portare a compimento le sue riflessioni sullo spazio sacro, che nel frattempo aveva sviluppato nella ristrutturazione del duomo di Este (entro il 1592), nell’intervento sulle cupole di S. Giustina a Padova (1600) e nel progetto per il duomo di Bergamo (1611).
La demolizione della cattedrale medievale di Salisburgo avrebbe permesso all’arcivescovo Wolf Dietrich von Raitenau di costruire una delle prime cattedrali europee secondo i dettami della Controriforma: il progetto di Scamozzi (1603-11) prevedeva di riutilizzare il prototipo del S. Giorgio Maggiore palladiano (a sua volta eco del dibattito sui modelli per S. Pietro in Vaticano) arricchendo la pianta a croce latina, cupola e terminazione triconca, con una maggiore enfasi sul presbiterio (coperto da una seconda cupola) e con un pronao addossato alla facciata. Le ingenti spese non permisero di realizzare il progetto per la cattedrale (eretta dal 1614 su progetto di Santino Solari), né il palazzo arcivescovile, progettato da Scamozzi nel 1604.
Nell’ultimo decennio della sua vita Scamozzi fu impegnato su più fronti sia in terraferma (villa Cornaro ‘il Paradiso’ a Castelfranco, 1607; palazzo per l’Accademia Delia a Padova, 1608; villa per Domenico Trevisan a San Donà di Piave, 1609) sia a Venezia, dove, con la costruzione del palazzo Contarini degli Scrigni (1609), sviluppò in modo innovativo il tipo tradizionale della casa-fondaco, con la facciata progettata su modelli serliani e sanmicheliani e, soprattutto, con il prospetto del cortile interno che riprende il linguaggio dei cortili delle Procuratie nuove.
Il 4 agosto 1616 Scamozzi fece testamento, in cui lasciò come erede universale il figlio adottivo Iseppo Gregori di Vicenza, essendo morti tutti i sei figli avuti fuori dal matrimonio da Veneranda Tiepolo. Il lascito, istituito nel testamento, per avviare ad infinitum un giovane all’architettura avrebbe avuto come più importante beneficiario Ottavio Bertotti Scamozzi (1719-1790), e si sarebbe estinto nel 1836.
Scamozzi morì il 7 agosto a Venezia dove fu sepolto nella basilica dei Ss. Giovanni e Paolo.
Egli è ritratto nell’antiporta dell’Idea della architettura universale e recentemente (G. Beltramini - P. Marini, L’immagine di Vincenzo Scamozzi, in Vincenzo Scamozzi 1548-1616, 2003, pp. 527-535) è stato riconosciuto anche in un ritratto di Paolo Veronese risalente al nono decennio del XVI secolo e conservato al Denver Art Museum (Charles Bayly, Jr. Collection, E-126 [1951.85]).
Corpus grafico: la grande maggioranza dei disegni di Scamozzi è andata perduta dopo la sua morte. Dei sessantacinque autografi certi, una parte consistente è conservata nella Devonshire Collection di Chatsworth e presso il RIBA – Royal Institute of British Architects di Londra. In Italia i fondi più importanti sono presso il Museo civico di Vicenza, il Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi e il Museo Correr di Venezia. Si registrano presenze sporadiche al Canadian centre for architecture di Montreal, al Gabinetto dei disegni del Louvre, alla Biblioteca civica di Verona, alla Fondazione Querini Stampalia di Venezia, negli archivi di Stato di Padova e di Mantova, nell’Archivio dell’Università di Padova, nella Biblioteca civica di Bergamo e presso collezionisti privati.
Opere. Discorsi sopra le antichità di Roma, Venezia 1582; Discorso sull’architettura ed indice del Trattato del Serlio, Venezia 1584; L’idea della architettura universale, Venezia 1615, ultima edizione con prefazione di F. Barbieri e testo di W. Oechslin, pubblicata a Vicenza nel 1997 dal Centro internazionale di studi di architettura Andrea Palladio; Taccuino di viaggio da Parigi a Venezia (14 marzo-11 maggio 1600), a cura di F. Barbieri, Venezia-Roma 1959.
Fonti e Bibl.: S. Du Ry, Opere di architettura di V. S. con il VI Libro nella traduzione di A.C. D’Aviler ed aggiunte le tavole dei più begli edifici di Roma, Leida 1713; Due lettere al Canonico Gualdo, in Alcune lettere scritte nei secoli XVI e XVII e non più stampate, a cura di P.A. di Caldogno, Venezia 1835; G. Cadorin, Pareri di XV architetti e notizie storiche intorno al Palazzo Ducale di Venezia, Venezia 1838, pp. 177-180; C. Elam, V. S. and the Medici family. some unpublished letters, in Renaissance studies in honor of Craig Hugh Smyth, a cura di A. Morrogh et al., II, Firenze 1985, pp. 203-217.
Gli studi più aggiornati su Vincenzo Scamozzi sono contenuti in tre opere miscellanee: V. S. 1548-1616 (catal., Vicenza), a cura di F. Barbieri - G. Beltramini, Venezia 2003; Annali di Architettura, 2015, n. 27, monografico: Scamozzi e i libri; V. S. teorico europeo, a cura di F. Barbieri - M.E. Avagnina - P. Sanvito, Vicenza 2016. F. Sansovino - G. Stringa, Venezia città nobilissima e singolare, Venezia 1604; T. Temanza, Vita di V. S., Venezia 1770; F. Milizia, Memorie degli architetti antichi e moderni, II, Parma 1781, pp. 104-138; B. Orsini, Architettura universale di V. S. in compendio riformata, Perugia 1803; F. Scolari, Elogio di V. S., Venezia 1836; Id., Commentario della vita e le opere di V. S., Venezia 1837; R. Cessi - A. Alberti, Rialto. L’isola, il ponte, il mercato, Bologna 1934, pp. 390-392, doc. 21; W. Grant Keith, Drawings by V. S., in Journal of the Royal Institute of British architects, XLII (1935), pp. 525-535; R. Pallucchini, S., V., in U. Thieme - F. Becker, Künstlerlexicon, XXIX, Leipzig 1935, pp. 524-527; G. Lukowsky, Disegni inediti dello S. a Londra, in Palladio, IV (1940), pp. 65-72; F. Barbieri, V. S., Vicenza 1952; W. Timofiewitsch, Unpublizierte Scamozzi-Zeichnungen aus Muenchner Privatbesitz, in Bollettino del Centro internazionale di studi di architettura Andrea Palladio, 1961, vol. 3, pp. 137-142; L. Puppi, Scamozziana: progetti per la “via romana” di Monselice e alcune altre novità grafiche con qualche quesito, in Antichità viva, XIII (1974), 4, pp. 54-80; A. Fabrizi, V. S. e gli scrittori antichi (studio sui ‘Sommari’ inediti), in Studi secenteschi, 1976, vol. 17, pp. 101-152; D. Lewis, V. S., in Macmillan Encyclopedia of architetcs, III, New York-London 1982, pp. 667-671; G.B. Gleria, Il progetto scamozziano per la chiesa della Celestia a Venezia, in Ricerche di storia dell’arte, 1983, vol. 21, pp. 97-109; F. Barbieri, La Rocca Pisana di V. S., Vicenza 1985; M. Tafuri, Venezia e il Rinascimento: religione, scienza, architettura, Torino 1985, pp. 252-271; F. Barbieri, Palazzo Trissino al Duomo, San Martino Buonalbergo 1989; D.M. Breiner, V. S., 1548-1616: a catalogue raisonné, PhD diss., Cornell University, Ann Arbor (Mich.) 1994; R. Franz, V. S. (1548-1616), der Nachfolger und Vollender Palladios, Petersberg 1999; W. Lippmann, Der Salzburger Dom 1598-1630, unter besonderer Berücksichtigung der Auftraggeber und des kulturgeschichtlichen Umfeldes, Weimar 1999, passim; C. Davis, Architecture and light. V. S.’s statuary installation in the chiesetta of the palazzo Ducale in Venice, in Annali di architettura, 2002, vol. 14, pp. 171-193; K.A. Ottenheym, L’idea della architettura universale de V. S. et l’architecture du XVIIe siècle aux Pays-Bas, in Théorie des arts et création artistique dans l’Europe du Nord du XVIe au début du XVIIIe siècle, a cura di M.-C. Heck - F. Lemerle - Y. Pauwels, Villeneuve-d’Ascq 2002, pp. 121-139; G. Beltramini, V. S. intellettuale architetto, in Storia dell’architettura italiana. Il Seicento, a cura di A. Scotti, II, Milano 2003, pp. 574-587; J.S. Ackerman, V. S. and Renaissance attitudes toward Medieval architecture, in Per Franco Barbieri: studi di storia dell’arte e dell’architettura, a cura di M.E. Avagnina - G. Beltramini, Venezia 2004, pp. 35-45; L. Collavo, L’esemplare dell’edizione giuntina de “Le Vite” di Giorgio Vasari letto e annotato da V. S., in Saggi e memorie di storia dell’arte, 2005, vol. 29, pp. 1-213; Appunti di viaggio. Il restauro del Taccuino di V. S. dei Musei Civici di Vicenza, a cura di M.E. Avagnina, Padova 2009 (con la trascrizione del testo pubblicata da F. Barbieri nel 1959); K. Isard, Architectural criticism in late Sixteenth-century Italy: V. S.’s annotations to Pietro Cataneo’s L’Architettura (1567), in Annali di architettura, 2013, vol. 25, pp. 135-154; A.M. Borys, V. S. and the chorography of early modern architecture, Farnham 2014; A. Hopkins, Palladio and S. drawings in England and their Talman marks, in The Burlington Magazine, 2015, vol. 157, n. 1344, pp. 172-180.