RUSSO, Vincenzo
(Vincenzio).
– Nacque a Palma (provincia di Terra di Lavoro), nel Regno di Napoli, il 16 giugno 1770, da don Nicola e da Mariangiola Visciano, secondogenito di otto figli (cinque maschi e tre femmine), in un ambiente provinciale di professioni liberali.
La madre era figlia di un medico di Nola; il padre, di Palma, addottorato all’età di ventiquattro anni in utroque iure il 28 febbraio 1757, il 15 marzo dello stesso anno era stato abilitato agli uffici regi e baronali del Regno (Archivio di Stato di Napoli, Giunta degli approbandi, 20). Denominato Vincenzio nella prima edizione dei suoi Pensieri politici e poi dalla maggior parte degli studiosi a cominciare da Benedetto Croce, il nome accertato è Vincenzo, a parte il Vincentius dell’atto battesimale in latino (Sorrentino, 1999, p. 19).
Insieme con i fratelli Pietro e Giuseppe (primogenito), studiò nel seminario di Nola, dove seguì l’insegnamento, fra gli altri, del sacerdote Ignazio Falconieri, poeta, grecista e professore di retorica. Studiò poi diritto e medicina a Napoli e si diede all’avvocatura (ma non vi sono tracce archivistiche del suo titolo dottorale). Denunciato nel 1794 per aver preso parte alle attività cospirative della Società patriottica, riuscì a sottrarsi all’arresto grazie alla protezione di Giovanni e Nicola Vivenzio, cugini di suo padre (figlio di una sorella della madre dei Vivenzio, Teresa di Mauro), bene inseriti nelle alte cariche dello Stato, il primo come medico di corte, il secondo come giurista. Per questo fu sospettato di delazione. Per evitare ritorsioni sul patrimonio familiare, il 18 agosto 1794 il padre lo emancipò dalla patria potestà senza lasciargli nulla (Archivio di Stato di Napoli, Amministrazione generale dei beni dei rei di stato, b. 96, inc. 14/46).
Di nuovo inquisito dalla Giunta di Stato, nel maggio 1797 lasciò Napoli in nave per Genova, di qui passò a Milano e poi in Svizzera, dove secondo Mariano D’Ayala esercitò da medico a Ginevra e a Berna. Di nuovo a Milano tra la fine del 1797 e i primi del 1798, secondo Francesco Lomonaco «sparse colà gran lume e vi acquistò un nome immortale» (cit. in Croce, 1897, 1968, p. 97): ma non vi sono tracce di una sua collaborazione ai principali giornali stampati allora a Milano. Fu sicuramente a Roma dopo la proclamazione della Repubblica (15 febbraio 1798), partecipò alle riunioni del Circolo costituzionale in qualità di moderatore e intervenne ripetutamente sulle pagine del Monitore di Roma, collaborando alla sua redazione. Nel mese di maggio vi apparvero un suo discorso contro il lusso e una sua protesta contro le misure limitative dell’associazione e del ruolo del moderatore. In un articolo pubblicato il 21 giugno protestò contro gli attacchi ricevuti per un discorso sulla tolleranza fatto nel Circolo costituzionale, in cui si era espresso non contro il battesimo, come gli fu rimproverato, ma contro la sua somministrazione ai bambini appena nati, richiamandosi a quanto praticato fra i primi cristiani.
A Roma scrisse e pubblicò, verso la fine di agosto, i Pensieri politici, che costituiscono la sua opera principale, a parte articoli e discorsi pubblicati sul Monitore di Roma e sul Monitore napoletano e la memoria sulla feudalità del 1799, mentre nessuna traccia è rimasta dei testi attribuitigli da D’Ayala: un Catechismo civico, un non meglio identificato Frammento e «un libriccino a penna [...] su le cagioni per le quali cadeva la repubblica» (D’Ayala, 1883, p. 556). Maturati negli anni fra la congiura napoletana del 1794 e la creazione della Repubblica Romana, i Pensieri politici sono una delle maggiori testimonianze del sofferto ma radicale passaggio dalla cultura illuministica e riformatrice alla cultura rivoluzionaria. I loro riferimenti dicono molto sulla formazione ricevuta non solo da Russo ma anche da Vincenzo Cuoco, il cui itinerario si intreccia continuamente con il suo: entrambi ebbero come maestro Ignazio Falconieri, anch’egli partecipe del movimento repubblicano e per questo giustiziato il 31 ottobre 1799. All’opera risultano associati Pasquale Baffi e Mario Pagano, anch’essi rifugiati nella Repubblica Romana nel 1798.
Ai Pensieri è legata la sua fama, in quanto elaborazione tra le più importanti del pensiero repubblicano giacobino italiano e contributo alla fondazione della «tradizione democratica italiana» (Galasso, 1965, p. 266). Considerati espressione di un socialismo «ascetico» legato al passato più che al futuro (Croce, 1897, 1968, p. 94), della «più accesa democrazia e del primo socialismo» (Battaglia, 1928, p. 51), di un «socialismo latente» o «concettuale» (Romano, 1952, 1976, p. 293) modellato sull’idea di una società di agricoltori filosofi, dalla metà del Novecento gli studi li hanno letti in più stretta relazione con il complessivo movimento politico del Triennio repubblicano 1796-99, collegandoli, da un lato, alla riflessione politica francese e più generalmente europea, dall’altro alla tradizione politico-filosofica italiana: da un lato, il sensismo e il materialismo di Condillac, Helvétius, La Mettrie, il pensiero scientifico di Leibniz e Newton e, ancora, Bayle, Hume, Montesquieu, Raynal; dall’altro Machiavelli, Vico e il pensiero riformatore illuministico meridionale, da Genovesi a Pagano e Filangieri. A questi si aggiungono i testi del pensiero classico, Platone, Aristotele, Tacito.
I Pensieri politici sono articolati in 44 brevi capitoli, preceduti da un avviso a « chi legge», per un totale di 190 pagine. Nell’avviso Russo dichiara di averli scritti a Roma, la terra dei Bruti e dei Catoni, «ispirato dall’idea della loro grandezza». Suo intento è indicare rimedi ai mali dell’umanità, riportare l’uomo dalla corruzione alla vera dignità. L’approccio è gradualistico: «L’ottimo non è già nemico del bene, qualora si sappia andarvisi approssimando per gradi opportuni». Nella sua ricerca di «un piano di ordine sociale» dichiara di non essersi ispirato a ipotesi o sistemi, alle repubbliche antiche o moderne, alle legislazioni preesistenti, ma di averlo cercato nell’uomo stesso (ed. 1956, pp. 255 s.). Si fonda sulla convinzione che sia possibile applicare il calcolo matematico alle leggi morali e politiche e alla ricerca della felicità, costruendo una «mattematica sensitiva morale e politica pari alla mattematica meccanica» (p. 346), una vera e propria scienza politica, grazie alla quale il legislatore, come un maestro di musica, potrebbe creare un’«armonia compita e perfetta» (p. 351).
L’autore espone all’inizio le basi logiche e filosofiche del suo ragionamento, prendendo le distanze dalla cultura tradizionale e dagli scritti apparsi nei tempi del dispotismo, inevitabilmente condizionati dalla mancanza di libertà, oppure complici del potere tirannico, come le «migliaia di volumi scritti dal teologo e dal giurista» dei quali quasi auspica la distruzione (p. 324). Nei primi cinque capitoli esamina la natura delle leggi, il loro scopo, i loro modi di esecuzione. Radicate nell’esistenza stessa dell’uomo, le leggi si distinguono in meccaniche, sensitive, morali. Il senso dell’umano è la «base della sociabilità fra tutti gli esseri sensibili» e porta l’uomo «a riconoscere la generale umana uguaglianza» (p. 260). Tutti gli esseri tendono alla perfettibilità e alla conservazione di sé, che è il maggior bene dell’uomo: i mezzi per realizzarla sono la libertà, l’irritabilità, la resistenza. La libertà è «la suprema, la prima facoltà umana», «è come l’antimurale dell’umana esistenza», poiché «la libertà dell’intelletto, ossia il calcolo» dirige i mezzi per conseguire il bene. Anche l’onestà è «il maggior bene possibile dell’uomo» e in quanto tale lo rende felice. E poiché il bene maggiore è quello che conserva e perfeziona, dal maggior bene verrà il maggior diletto (pp. 264-266).
Dal VI al XIII capitolo analizza le condizioni dell’uomo in società. Punto di partenza è l’affermazione aristotelica delle disposizioni originarie dell’uomo per la società. In contrasto sia con Thomas Hobbes sia con Jean-Jacques Rousseau, afferma che non vi è stato originario di guerra al quale il patto sociale porrebbe fine: le leggi esistono da che l’uomo esiste, il patto sociale è nato con l’uomo. Le leggi sono tutte uguali, senza distinzione tra leggi naturali, economiche, politiche, delle genti: tutte sono naturali (p. 271). Con il crescere dei membri della società diventa necessario stabilire delle condizioni, nominare dei magistrati, fissare delle leggi esterne. Nel regolare la convivenza sociale si riaffaccia la forte impronta gradualistica. Se, infatti, «il solo sistema di società conforme alla natura umana» è «il sistema popolare nel suo vero senso, che cioè il popolo si governi immediatamente da sé», le condizioni attuali degli uomini, degradati da lungo tempo dal dispotismo e dalla superstizione, richiedono che si ricorra intanto alla «rappresentanza legislativa», presumendo che coloro che vengono eletti non vogliano cose contrarie al bene dei loro elettori. Il sistema rappresentativo o «di fiducia», fondato su una costituzione emanata dalla volontà generale, servirà a educare il popolo fino a quando non potrà esercitare immediatamente la sua volontà. Il popolo di cui scrive, precisa, non è quello «degradato e corrotto», ma «una società di uomini che meritino questo nome». A questo popolo, «al popolo in corpo», si deve rendere assolutamente conto dell’amministrazione delle cose pubbliche (pp. 274-277). Poiché non si può concepire l’uomo senza libertà, la «repubblica popolare è la sola forma di unione che meriti nome di società», la sola conforme alla natura umana. In questa unione non vi è alcuna forma di cessione o di deposito di potere nelle mani dei funzionari, il popolo conserva intera la sua forza che, grazie alla volontà generale, si moltiplica all’infinito. L’uomo in società conserva tutta la sua libertà, tutta la sua indipendenza. La libertà sociale non è diversa dalla libertà morale. La società, però, non è uno «scompigliato affollamento», né è il selvaggio l’uomo della natura (p. 281): la società ha un suo ordine e le sue regole, fondati, come fra gli antichi, sull’amore di patria.
A partire dal XIV capitolo, l’opera esamina punto per punto le condizioni dell’uomo in società: libertà, eguaglianza, sicurezza, proprietà, tributi, commercio, agricoltura. La libertà sociale, non diversamente da quella individuale, è il calcolo di ciò che è meglio per l’uomo, conformemente alla legge. La libertà è conformità alla legge, non solo esterna ma interna. Solo un popolo di cittadini morali può essere interamente libero, senza costumi non vi è libertà e per questo è necessaria l’istruzione. L’eguaglianza intesa come parità individuale in natura non esiste: l’esistenza è uguale in tutti, ma i bisogni sono diversi. L’eguaglianza è indipendenza e possibilità per tutti di accedere agli impieghi politici, in base al merito. Cause di disuguaglianza sono le successioni ereditarie e la mancanza di istruzione. La sicurezza risiede nella impossibilità di ciascun membro della società di fare un uso illegittimo delle sue forze. Ma la «maggioranza del popolo che si muove non è mai una sedizione antipopolare» (p. 291).
Ben cinque capitoli (XVIII-XXII) sono dedicati alla proprietà, sulla quale si manifesta appieno la radicalità del pensiero democratico di Russo. Tutti hanno diritto ai prodotti della terra, l’unico limite è dettato dalla diversità dei bisogni. E poiché ogni bisogno e ogni diritto cessano con la fine dell’esistenza, non debbono esservi atti di ultima volontà né successioni legittime, sull’esempio di Sparta, «la meglio ordinata società». Così, senza interventi violenti, si può «ridurre a giustizia» il sistema di proprietà (p. 297) ed eliminare fonti di oppressione incompatibili con la democrazia. I tributi spariranno, poiché in una società bene ordinata non occorrono truppe e i cittadini stessi provvedono alle opere pubbliche: prima di arrivare a quest’epoca fortunata, tuttavia, i tributi sono necessari, purché ricadano solo su chi ha il superfluo. Anche il commercio del superfluo è incompatibile con la democrazia, tutto il commercio passivo degli italiani deve scomparire. Alla condanna del commercio (capitolo XXIII) segue l’esaltazione quasi idilliaca della campagna, con i suoi costumi puri e frugali. Cadono qui riferimenti autobiografici alla vita lieta e tranquilla degli Appennini, delle Alpi, della Svizzera montagnosa, contrapposta al lusso corruttore delle grandi città. Solo lo sviluppo dell’agricoltura può assicurare la crescita della popolazione (capitoli XXIV e XXV).
Anche le pene (capitolo XXVI) diventeranno via via più lievi, fino a quando non saranno eliminate le fonti dei delitti: la miseria e la disuguaglianza. L’utopia delineata in queste pagine non è altro, in realtà, che l’obiettivo finale della rivoluzione e dell’opera di educazione che deve seguirla. È per realizzare la repubblica popolare e democratica ed eliminare la disuguaglianza che serve la rivoluzione. Collocato quasi al centro della trattazione, il capitolo XXVII, Rivoluzione, è il perno intorno al quale ruotano i Pensieri politici. Con la sua teoria della rivoluzione «come rigeneratrice delle virtù umane» e fondatrice di «un radicalmente nuovo ordine sociale» Russo rompe con la tradizione dell’utopismo e si colloca ben lontano da quella astrattezza che gli fu imputata da Cuoco e altri patrioti (Romano, 1952, 1976, p. 293). La rivoluzione divide il nuovo dal vecchio, con la rivoluzione il passato non esiste più. La rivoluzione dei fatti va incalzata rapidamente, prima che si esaurisca l’energia rivoluzionaria; mentre la rivoluzione delle opinioni non potrà avere che tempi più lunghi, poiché solo l’istruzione potrà realizzarla, distruggendo gli errori degli antichi. Un apposito magistrato di censura veglierà sulla formazione dell’opinione e contro la superstizione. Si istituiranno due scuole, per la morale repubblicana e per l’agricoltura, per formare «una generazione di contadini filosofi, felici elementi di democrazia» (p. 327). Cinque capitoli (XXXIII-XXXVII) sono dedicati alla Società universale. Qui il progetto di Russo, già costantemente indirizzato all’Italia e agli italiani nel loro insieme, si slarga fino a configurare la rigenerazione dell’umanità intera, senza distinzioni di cittadinanza né di nazionalità, se non per motivi di comodità di governo. La società universale, basata sul libero commercio, non avrà né trattati né guerre: l’unica guerra giustificabile è quella di liberazione, fatta ai tiranni e non al popolo oppresso (p. 338). La rivoluzione e il calcolo politico porteranno al pieno dispiegamento delle facoltà umane, senza trascurare quelle delle donne, «l’umanità del bel sesso» (p. 360).
Solo alla fine, negli ultimi due capitoli, avvertendo che avrebbero dovuto invece collocarsi dopo il XXIV (Agricoltura) Russo affronta il tema della religione, quasi a tenerlo il più lontano possibile dalla lettura di eventuali censori, visto il modo in cui era stato attaccato per le idee espresse sul battesimo nel Circolo costituzionale. Una vera tolleranza non si può avere che con una totale indifferenza religiosa. Se proprio deve esservi una religione, non può essere che la stessa per tutti per evitare i conflitti. Ma di religione non vi è bisogno per assicurare un freno morale, poiché le leggi sono scritte nell’uomo stesso e lo rendono naturalmente onesto e virtuoso, senza «bisogno di alcuna potenza estranea alla sua persona» (p. 373). Per avere un buon ordine sociale, il popolo ha bisogno di due costituzioni: una per formarlo alla libertà, l’altra per conservarvelo (p. 377).
I Pensieri non sfuggirono comunque alla furia censoria, anche se più tardi, qualche anno dopo la nuova edizione milanese del 1801. La censura, richiesta sulla prima edizione romana alla Congregazione del S. Uffizio il 26 agosto 1805, fu redatta dal canonico Rocco Carboni e portò alla sua piena condanna il 24 marzo 1806 come «ammasso di empietà, e di stravaganze eversive di ogni religione, ed anche di ogni morale società» (Roma, Archivio della Congregazione per la dottrina della fede, S. Offizio, Censura librorum 1803-1806, inc. 1).
Nei mesi successivi alla pubblicazione Russo continuò a partecipare alle sedute del Circolo costituzionale e a scrivere sul Monitore di Roma, riprendendo molte delle idee espresse nei Pensieri. Così, nell’articolo sui Doveri de’ magistrati pubblicato tra il 30 settembre e i primi di ottobre, definì i governi repubblicani già insediati in Italia «piani di educazione generale per ricondurre gli uomini alla dignità repubblicana» (Giacobini italiani, I, 1956, p. 385). In altri articoli usciti in ottobre ribadì il gradualismo delle misure repubblicane a fronte dei tanti mali da riparare: i tributi sarebbero stati solo gradualmente aboliti, ma intanto già si erano soppressi feudi, primogeniture, fedecommessi (p. 390). Il 28 novembre, a proposito di libertà e eguaglianza, ribadì che la libertà andava intesa non come «capriccioso arbitrio» né «smoderata licenza» ma come rispetto delle leggi (p. 397). Il giorno dopo Ferdinando IV di Borbone entrò a Roma con il suo esercito e Russo fu forse tra i patrioti napoletani che precipitosamente si rifugiarono a Milano. Qui il giacobino Pietro Custodi nel suo Diario alla data del 26 dicembre registrava che Mario Pagano era stato «consigliato a partire: un’eguale intima venne fatta al napoletano Rossi e ad altri napoletani venuti recentemente» (cit. in Giacobini italiani, II, 1964, p. 538 nota 4).
La fallita campagna romana costrinse Ferdinando alla fuga da Roma e dal suo stesso Regno, dove il 21 gennaio 1799 fu proclamata la Repubblica napoletana. Russo tornò allora a Napoli come ufficiale medico del 101° reggimento dell’esercito francese e fu tra i protagonisti del dibattito politico. Nominato invigilatore della Sala di istruzione pubblica, nel corso della sua prima riunione, il 10 febbraio, partecipò al dibattito sulla legge feudale in discussione nel Governo provvisorio e nel Comitato di legislazione con una Memoria sull’abolizione della feudalità che è stata a lungo data per dispersa e poi ritrovata (Sorrentino, 1999; Rao, 2012). Pubblicata con la data del 3 ventoso (21 febbraio), la memoria era seguita da alcune Riflessioni utili per la legge sulla feudalità secondo le leggi dell’ex Regno. Russo sostenne che la feudalità era totalmente estranea a qualunque idea di diritto, «una violenza che si ha ogni ragione di distruggere appena si può» e bisognava perciò far tornare «tutti i beni feudali alla nazione» (Memoria..., cit., p. 4). Ma poiché «tutti gli uomini sono fratelli», suggerì anche che si potessero mantenere a spese di questi beni per qualche mese i familiari dei feudatari fino a nuova occupazione e soccorrerli in caso di bisogno (p. 14). I feudatari dovevano comunque dimostrare a loro spese la legittimità dell’acquisto delle terre sulle quali gravavano le prestazioni reali, contro qualunque forma di presunzione e prescrizione. Duramente attaccato per il suo intervento da Antonio Capece Minutolo dei principi di Canosa, che replicò dando alle stampe un lungo discorso, anche tra i patrioti non mancarono critiche alle sue posizioni radicali.
In una sessione della Sala d’istruzione riportata sul Monitore napoletano del 23 marzo (pp. 311 s.), riprese alcuni temi chiave dei suoi Pensieri politici esponendo «4 canoni di Logica rivoluzionaria»: che non si dovesse tener conto dei libri scritti sotto la tirannia, o almeno leggerli con grande cautela; che il commercio in democrazia non solo non fosse necessario, ma dannoso all’uguaglianza; che il «rigorismo» fosse la condizione per vivere «sicuri, e quieti»; che non serviva cambiare governo se non si cambiavano i costumi. Conformemente a queste idee, nel Giornale patriottico del 9 germile (29 marzo) pubblicò un Avviso salutare al popolo in cui, dichiarandosi «repubblicano deciso», attaccò il lusso dei membri del governo, dicendosi pronto a «morire da forte» come Emanuele De Deo, giustiziato nel 1794 (Giacobini italiani, I, 1956, pp. 399-404). Nominato membro della nuova Commissione legislativa creata il 14 aprile, il 17 e il 18 aprile presentò subito mozioni in cui propose che si riducessero gli stipendi di tutti gli impiegati, e che questi venissero pagati non in rapporto alle cariche ma in rapporto ai loro bisogni, fissando comunque un massimo di cinquanta ducati; che si aprisse un libro intitolato dell’Amor della Patria, in cui annotare le rinunzie al soldo dei funzionari, e un libro intitolato doveri de’ Cittadini, per quelli che avessero bisogno di un aumento di salario (Il Monitore napoletano 1799, 1974, p. 446; De Nicola, 1906, p. 109). Il 18 aprile propose che i membri della Commissione legislativa offrissero una parte del loro soldo per gli urgenti bisogni della Repubblica, proposta che fu subito approvata ed eseguita (foglio volante in Battaglini - Placanica, 2000, I, pp. 538 s.).
Contro queste sue proposte sul Veditore repubblicano del 19 aprile apparve un durissimo attacco di un altro giovane patriota, Gregorio Mattei, che accusò Russo e gli altri membri della Commissione legislativa di attardarsi in «lunghissime discettazioni», anziché affrontare i gravissimi problemi che affliggevano la Repubblica e realizzare le riforme più importanti, innanzi tutto la legge abolitiva della feudalità. Era Russo «l’autore primiero della condotta debole, che si tiene dalla Commissione Legislativa», discutendo di stipendi e di Guardia nazionale, mentre nel golfo erano arrivati gli inglesi, mancava la moneta e il popolo, oppresso dalle imposte, non vedeva «alcun vantaggio sensibile di questa da noi tanto vantatali democrazia». Ironizzava sulle velleità antichizzanti di Russo che in tre mesi di rivoluzione pensava di rendere tutti «virtuosi come gli Spartani dei tempi della prima guerra Persiana, o i Romani della prima guerra Punica» e riportarli «alle antiche ghiande» (Napoli 1799. I giornali giacobini, a cura di M. Battaglini, 1988, pp. 51-54). La reazione di Russo fu immediata: il 20 aprile presentò nella Commissione legislativa una mozione sulla legge abolitiva della feudalità, rassegnando subito dopo, il 23 aprile, le sue dimissioni (Il Monitore..., 1974, pp. 450, 470). Lo difese Marcello Fiorentini con il Ragionamento sui mezzi più efficaci per conservare la libertà e per rendere florida la Repubblica (Battaglini - Placanica, 2000, III, p. 32), che invitò a seguire «le orme luminose del degno patriota» che aveva «dato l’esempio del coraggio che si conviene ad un determinato Repubblicano, nel ricordare i proprj doveri agli stessi Rappresentanti», invitandoli «al disinteresse ed alla frugalità».
Ispirando la sua condotta a una fiera applicazione dei suoi principi repubblicani, Russo continuò a partecipare alla vita pubblica, mentre la situazione diventava sempre più drammatica. Il 19 maggio pronunciava un acceso discorso ai legislatori e ai «commilitoni», in occasione della festa in cui furono bruciate le bandiere prese agli insorgenti. Nominato commissario organizzatore per le Calabrie, l’avanzata dell’esercito sanfedista guidato dal cardinale Fabrizio Ruffo gli impedì di recarvisi. In un foglio volante del 10 giugno (Croce, 1896 (1968), p. 110) figura nella Commissione per la coscrizione della Guardia nazionale del Cantone Sebeto. Partecipò alla difesa di Castel Sant’Elmo, fu ferito al ponte della Maddalena il 13 giugno. Fatto prigioniero, fu rinchiuso ai Granili, dove il 15 giugno consegnò a Gherardo Sabini una copia dei Pensieri politici per farla bruciare. Secondo Cuoco ne stava preparando una nuova edizione, «rendendola più moderata» (Cuoco, 1801, 1806 (1976), p. 209), ma lo stampatore mandò tutto alle fiamme (D’Ayala, 1883, p. 552).
Nicola Vivenzio cercò di nuovo di aiutarlo, ma invano. Processato dalla Giunta di Stato, un «Notamento dei rei di stato» per i quali si era ordinata la confisca dei beni, accanto al nome di «Russo Vincenzo, Palma, Terra di Lavoro» registra «nulla possidet» (Archivio di Stato di Napoli, Amministrazione generale dei beni dei rei di stato, b. 6, inc. 11). Che nulla possedesse, anche perché era «figlio di famiglia», si dichiara anche in altri documenti registrati presso l’Amministrazione generale dei beni dei rei di Stato. In particolare, in un rendiconto del 4 dicembre 1799 un impiegato affermò di essersi recato presso l’abitazione di Russo, «dietro il Purgatorio», e di avere trovata la sua casa interamente saccheggiata: a detta di tutti, era stata la truppa a massa al momento dell’ingresso delle armi regie (b. 53, inc. 20). In ottobre risulta rinchiuso in S. Elmo, insieme con tanti altri patrioti, fra i quali Mario Pagano (b. 1, inc. 1).
Condannato a morte, morì impenitente il 19 novembre 1799 inneggiando alla libertà e alla Repubblica (Croce, 1896, 1968, p. 112) e manifestandosi come «deciso pirronista» (De Nicola, 1906, I, p. 380).
Opere. Pensieri politici, Roma, presso il cittadino Vincenzio Poggioli, anno I della ristabilita Repubblica Romana [1798], Milano anno IX [1801]; Pensieri politici di Vincenzo Russo e sulla vita dell’autore, Napoli 1861; Pensieri politici, preceduti dalle ricerche sulla vita del Russo di Bernardo Peluso e da uno studio sulla mente del Russo di Errico De Marinis, Napoli 1894; Pensieri politici, con prefazione di G. Macaggi, Napoli 1913; La società degli agricoltori filosofi (Pensieri politici), a cura di A. Saitta, Roma 1946, in Giacobini italiani, I, a cura di D. Cantimori, Bari 1956, pp. 255-377; Avellino, Biblioteca provinciale, Sez. M, Misc. B.37: Memoria del Cittadino Vincenzio Russo sull’abolizione della feudalità, seguita alle pp. 16-20 dalle Riflessioni utili per la Legge sulla Feudalità secondo le Leggi dell’Exregno, «Napoli addì 3 Ventoso An. I della Rep. Napoletana» (riprodotta in Sorrentino, 1999, pp. 111-120).
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Napoli, Giunta degli approbandi o dei dottori, b. 20; Amministrazione generale dei beni dei rei di stato, bb. 1, inc. 1; 6, inc. 11; 53, inc. 20; 96, inc. 14/46; Roma, Archivio della Congregazione per la dottrina della fede, S. Offizio, Censura librorum 1803-1806, inc. 1; M. Battaglini - A. Placanica, Leggi, atti, proclami ed altri documenti della Repubblica napoletana 1798-1799, Cava de’ Tirreni 2000, I, p. 538 s.; III, p. 32; Il Monitore napoletano 1799, a cura di M. Battaglini, Napoli 1974, ad ind.; V. Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799 (1801, 1806), a cura di P. Villani, Roma-Bari 1976, ad indicem.
M. D’Ayala, V. R., in Id., Vite degl’Italiani benemeriti della libertà e della patria, Torino-Roma-Firenze 1883 (rist. anastatica con Introduzione di G. De Martino, Napoli 1999), pp. 548-556; B. Croce, La rivoluzione napoletana del 1799. Biografie-Racconti-Ricerche (1896), Bari 1968, pp. 85-112, 217, 459 s.; C. De Nicola, Diario napoletano 1798-1825, I, Napoli 1906, ad ind.; F. Battaglia, I primi conati di riforma sociale nel Settecento e il pensiero di V. R., in Giornale critico della filosofia italiana, IX (1928), pp. 49-69, 85-110; D. Cantimori, V. R., il «Circolo costituzionale» di Roma nel 1798 e la questione della tolleranza religiosa, in Annali della R. Scuola Normale Superiore di Pisa. Lettere storia filosofia, s. 2, IV (1942), pp. 179-200; Id., Utopisti e riformatori italiani. 1794-1847. Ricerche storiche, Firenze 1943, pp. 105-127; R. Romano, V. R. e gli estremisti della Repubblica napoletana del 1799, in Atti dell’Accademia di Scienze morali e politiche della Società nazionale di scienze, lettere ed arti in Napoli, LXIV (1952), poi in Id., Napoli: dal Viceregno al Regno. Storia economica, Torino 1976, pp. 265-317; M. Capurso, Il concetto di rivoluzione in V. R., in Id., Matteo Galdi dalla monarchia riformistica alla monarchia costituzionale, in Studi economico-giuridici della Facoltà di giurisprudenza dell’Università di Cagliari, XXXVIII (1954), pp. 95-105; Giacobini italiani, I, a cura di D. Cantimori, Bari 1956, ad ind.; Id., Illuministi e giacobini, in La cultura illuministica in Italia, a cura di M. Fubini, Torino 1957, pp. 260-277; Giacobini italiani, II, a cura di D. Cantimori - R. De Felice, Bari 1964, ad ind.; G. Galasso, Il pensiero politico di V. R., in Id., Mezzogiorno medievale e moderno, Torino 1965, pp. 231-299 (poi in Id., La filosofia in soccorso de’ governi. La cultura napoletana del Settecento, Napoli 1989, pp. 549-621); E. Pontieri, V. R. e la legge eversiva della feudalità nella Repubblica Napoletana del 1799, in Storia e cultura del Mezzogiorno. Studi in memoria di Umberto Caldora, Cosenza 1978, pp. 281-307; G. Addeo, Un discorso del 1799 di V. R. nel crepuscolo della Repubblica napoletana, in Rassegna storica del Risorgimento, LXVI (1979), pp. 145-150; Napoli 1799. I giornali giacobini, a cura di M. Battaglini, Roma 1988, ad ind.; G. Galasso, La Memoria di V. R. sull’abolizione della feudalità nel 1799, in Id., La filosofia in soccorso de’ governi, 1989, pp. 623-631; A. Iannaco, La Memoria del cittadino V. R. sull’abolizione della feudalità, patriota e giacobino di Palma Campania, in Economia irpina, XXXII (1994), pp. 83-93; C. Passetti, Il giacobinismo radicale di V. R., Napoli 1999, ad ind.; L. Sorrentino, Io muoio libero e per la Repubblica. Vita ed opere di V. R. ideologo e martire del 1799, Somma Vesuviana (Na) 1999; A.M. Rao, «Questo è momento di travaglio, e non di riposo». Gregorio Mattei, V. R. e la legge feudale del 1799, in Territori, poteri, rappresentazioni nell’Italia di età moderna. Studi in onore di Angelo Massafra, a cura di B. Salvemini - A. Spagnoletti, Bari 2012, pp. 193-212. An
(Vincenzio)
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