MELLINI, Vincenzo
MELLINI (Mellini Ponce de León), Vincenzo. – Nacque il 15 dic. 1819 a Rio Marina, nell’isola d’Elba, da Giacomo e Lucrezia Ponce de León.
La famiglia materna si diceva discendente dal nobile José, primo governatore (1603) del forte spagnolo di S. Giacomo, sovrastante l’odierna Porto Azzurro; il M. ottenne poi il riconoscimento del titolo di nobiltà, e nelle pubblicazioni tarde fece seguire il cognome materno al paterno.
Il padre Giacomo (1759-1842) aveva frequentato la scuola militare di Parigi, entrando poi nell’esercito francese; dopo aver aderito alla Rivoluzione, si era segnalato nel 1794 nella difesa di Bastia contro gli Inglesi (fu decorato dal comitato di Salute pubblica). Divenuto tenente colonnello del genio e passato nella Marina, operò nel Tirreno; dopo essere stato prigioniero degli Inglesi (1795-97) mappò la costa tra La Spezia e l’Arcipelago toscano; partecipò poi alla campagna d’Italia, combattendo anche a Marengo; catturato nel 1799 dagli Austriaci e ferito due volte, fu insignito della Legion d’onore e di altre onorificenze sotto l’Impero. In seguito fu addetto alle fortificazioni di Peschiera e Alessandria e conservatore del monumento commemorativo di Marengo (G. Vanagolli, Un manoscritto inedito di Giacomo Mellini ufficiale napoleonico, in Riv. italiana di studi napoleonici, XX [1983], 1, pp. 55-70). Dopo l’annessione del Granducato di Toscana all’Impero francese, partecipò alle rilevazioni per la carta del dipartimento condotte dal ministero della Marina. Nel 1814 seguì Napoleone all’Elba come ufficiale del contingente assegnatogli; la figlia Rosa (1784-1867), nata da un matrimonio precedente a quello con la Ponce, divenne dama di lettura di Letizia Bonaparte, che la tenne poi con sé fino alla morte nel 1836 (fu quindi spettatrice di eventi di rilievo e compare spesso nella corrispondenza della Bonaparte; L. Damiani, Nel centenario napoleonico: Rosa Mellini, in La Donna, 1921, n. 349, pp. 14 s.). Pure al servizio di Bonaparte furono due nipoti di Giacomo, Jacopo e Gustavo. Quando Napoleone fuggì dall’isola (fine febbraio 1815), Giacomo comandò un’avanguardia del convoglio che lo portò in Francia, e ai primi di giugno guidò la delegazione isolana nel «Campo di Maggio» tenuto a Parigi. Dopo Waterloo, non volendo servire sotto i Borbone, lasciò l’esercito e tornò all’Elba; nello stesso anno, vedovo da tempo, sposò la Ponce de León, sorella di Domenico, capitano d’ordinanza di Napoleone all’Elba e insignito poi da Napoleone III della medaglia di Sant’Elena. Da Lucrezia, oltre al M., Giacomo ebbe sei figli.
Dopo il congresso di Vienna, passata l’Elba al Granducato di Toscana come parte del Principato di Piombino dei Boncompagni-Ludovisi, dal 1818 al 1835 diresse la vigilanza nelle miniere di ferro dell’isola, iniziando un rapporto con l’attività mineraria poi mantenuto dalla famiglia. Progettò anche edifici e risale a lui l’interesse per la storia e l’archeologia elbane, poi centrale nel figlio. Nel 1816 e 1817 scavò una o più tombe, recuperando molti oggetti, oggi in parte dispersi (Zecchini, pp. 169-184 e passim), e stendendo una relazione, conservata a Portoferraio nella Biblioteca comunale (il figlio ne dette un sunto nella parte archeologica delle Memorie storiche dell’isola d’Elba). La zona cemeteriale resta l’unica di età classica trovata all’Elba; ritenuta a lungo etrusca, è oggi datata tra il secolo III a.C. e il I d.C.
Dopo studi primari nell’isola (forse col padre) e altri a Pisa, nel collegio arcivescovile di S. Caterina, il M. frequentò l’Università pisana. Secondo alcuni biografi (Vigo; Damiani) vi conseguì due lauree, in legge e in scienze naturali, ma l’Archivio dell’ Università attesta solo la prima (Lauree dell’Università di Pisa 1737-1861, 1** [1827-1861 e indice dei laureati], Pisa 1995, n. 9028). Anche se non si laureò in scienze, forse il M. ne seguì i corsi con qualche regolarità, perché la sua carriera e alcuni suoi scritti avvalorano conoscenze in chimica e mineralogia, e lo si trova qualificato come ingegnere. Ancora secondo quei biografi, il granduca Leopoldo II gli avrebbe offerto una cattedra di diritto penale nell’Università di Siena, che avrebbe però rifiutato per potere studiare gli aspetti storici e naturalistici dell’isola natale. Di fatto, il M. tornò subito all’Elba, dove visse stabilmente, e iniziò presto ricerche approfondite sulla storia dell’isola e di quelle limitrofe.
Nel 1852 compì la prima rilevazione accurata dell’abbazia benedettina di S. Mamiliano nell’isola di Montecristo, importante nella vita medievale dell’Arcipelago; poi studiò e in parte scavò i resti paleocristiani di Pianosa e rilevò antiche chiese al Giglio. Nel 1855 guidò, nella zona mineraria di capo Calamita, H. Drummond Wolff che ne elogiò la passione di ricercatore e le ampie conoscenze sul folclore e le leggende elbane, sondate nelle fonti antiche (v. The island empire, or, the scenes of the first exile of the emperor Napoleon I…, London 1855, pp. 108, 114, 117, 121). Collaborò e fu amico di un altro studioso del passato elbano, R. Foresi, cui donò tre crani, recipienti di terracotta, frammenti di collane, fusi e fibule da lui trovati nel 1865 in un riparo sotto roccia a capo Calamita, oggi datati nella prima età del ferro (R. Foresi, Sopra una collezione composta di oggetti antistorici trovati nelle isole dell’Arcipelago toscano e inviata alla Mostra universale di Parigi. Lettera…, Firenze 1867, poi in appendice a E. Foresi, L’isola d’Elba. Pagine di storia antica e moderna…, Pitigliano 1899 [rist. anast., Milano 1978], pp. 20-22). I reperti, donati alla città di Portoferraio, finirono in seguito nel Museo di antropologia di Firenze (descrizioni in Zecchini, pp. 59 s.). Con scavi e ritrovamenti in tutta l’isola il M. formò anche una propria collezione, donata pure (1886) al Comune di Portoferraio, che deliberò di farne un «Museo Mellini»; questo però non fu realizzato e la collezione si disperse presto (confluendo forse in parte nel museo fiorentino). Di queste indagini il M. riferì in parte in Ricerche sulla prima età del ferro nell’isola d’Elba (in Bull. di paletnologia italiana, V [1879], 5-6, pp. 84-90), soffermandosi su uno scavo del 1878 a Rio Marina. Le più originali e fruttuose avvennero nei grandi depositi di scorie di lavorazione del ferro distribuiti nell’isola, nei quali il M. trovò resti di forni di fusione, strumenti e oggetti vari.
Compì anche estese ricerche in biblioteche e archivi pubblici e privati, all’Elba e altrove; di certi documenti, oggi perduti (inclusi antichi statuti di alcune Comunità), restano solo sue copie o citazioni. Tutti i materiali, testuali e archeologici, dovevano confluire in un’opera di sintesi in 18 parti cui lavorò almeno fino al 1888, dal titolo complessivo Delle memorie storiche dell’isola d’Elba. In vita il M. pubblicò solo la quinta (Delle memorie storiche dell’isola d’Elba… Libro quinto. I Francesi all’Elba, Livorno 1890); un’altra fu pubblicata postuma dal figlio Giacomo e da amici (Firenze 1914; rist., ibid. 1962). Le rimanenti, in vari stadi di elaborazione, rimasero in possesso della famiglia; solo una è stata poi pubblicata (Roma 1996); una selezione delle parti relative a resti archeologici e monumenti è apparsa come Memorie storiche dell’isola d’Elba: parte archeologica ed artistica, a cura di G. Monaco (Firenze 1965); da ultimo, un Saggio di vocabolario del vernacolo elbano (Alessandria 2005) è apparso per cura di A. Nesi.
Nelle carte rimaste ai discendenti si trovano, oltre a materiali documentari e a una biografia del padre, abbozzi di diverse parti dell’opera: parti del libro I («Dalla caduta dell’Impero d’Occidente alla distruzione del Regno dei Longobardi»), del III («Dall’origine della Repubblica di Pisa alla formazione dello Stato di Piombino [1005-1399]») e del IV («Dal trattato di Londra allo stato definitivo dei confini dello Stato di Piombino all’Elba») e la seconda sezione del V («Situazione delle cose elbane fino al ritorno dei Francesi [20-7-1799 / 30-4-1801]»). L’incompletezza rende in parte oscuro lo schema progettato dal Mellini. Certamente originale fu il suo ricorso anche a dati archeologici, folclorici, linguistici, geologici e botanico-zoologici, utili a chiarire la preistoria, aspetti del popolamento nonché la vita sociale ed economica remota dell’isola. Le sezioni completate ed edite suggeriscono, però, che il M. non pensava a fondere tutti questi materiali in un intreccio unico, ma piuttosto ricostruire l’evoluzione di ogni aspetto in una parte apposita, come nel caso del lessico. Inoltre, pur fornendo per ogni periodo un quadro generale, intese forse dedicare una monografia a ogni Comunità isolana (scelta giustificata in parte dalla loro separazione geografica, che pur in un territorio non grande dava luogo a marcate differenziazioni), curando anche aspetti interni e quotidiani di solito trascurati dalla storiografia politico-militare. Lo sforzo di documentazione ed elaborazione fu grande in rapporto agli standard della storiografia locale di allora e, ancor più, all’isolamento e alla scarsità di fondi librari e archivistici imposti dalla situazione periferica, cui il M. fece fronte con ripetuti viaggi di studio e procurandosi molti materiali tramite corrispondenti. Alcune sezioni delle Memorie restano riferimenti obbligati. Un forte «patriottismo» elbano vi fa apparire vicende e caratteri della vita isolana meno come esiti periferici delle forze storiche agenti in Italia, nel Mediterraneo occidentale o nell’Europa centromeridionale – delle quali pure documentano le ripercussioni sull’Elba – che come dovuti a uno sviluppo autoctono, in parte distinto da quello della Toscana anche per il filtro costituito dalla lunga appartenenza dell’isola al Principato di Piombino. Il M. criticò i grandi agenti storici esterni quando il loro intervento sull’isola aveva violato non solo vite e beni, ma la volontà della popolazione. Contro i giudizi positivi di storici locali precedenti (soprattutto del filogiacobino G. Ninci nella Storia dell’isola dell’Elba, Portoferraio 1815), ricostruì criticamente la rottura del particolarismo elbano tra 1799 e 1814, quando la Francia rivoluzionaria impose all’isola il proprio modello politico-ideologico. Volle «purgare dalla taccia di traditori, di ribelli, e di barbari, uscita dalla penna di alcuni scrittori, o ignari delle cose nostre, o interessati a svisarle, i Popoli Elbani che impugnarono le armi nel 1799, per cacciare lo straniero dal suolo della loro patria, che noi vecchie code siamo abituati a considerare per sacro», anche se «gli uomini […] dal cervello freddo e dal cuore arido, giudicheranno […] stolta […] la impresa tentata […] da pochi isolani, male armati e senza un capo celebre che li dirigesse, contro una gran Nazione» (prefaz. in I Francesi all’Elba, cit., pp. V s.). La sua descrizione delle violenze francesi – in particolare del sacco di Capoliveri nel 1799 – fondata su documenti oggi in parte perduti e su testimonianze dirette, riassume interesse nell’attuale ripresa di attenzione verso le «insorgenze» antirivoluzionarie italiane di quegli anni. Il M. presentò invece positivamente, pur senza toni celebrativi e non celando aspetti o momenti discutibili, il periodo di sovranità diretta di Napoleone (maggio 1814 - febbraio1815), non tanto per il ruolo avuto dalla sua famiglia ma perché Bonaparte aveva evitato forzature ideologiche, coltivato il sentimento di una «nazionalità» elbana e avviato opere neglette dai governi precedenti.
Tali posizioni, socio-ideologiche prima ancora che politiche, paiono contrastare con l’adesione del padre alla Rivoluzione (sebbene su posizioni moderate) e il suo rifiuto di servire i Borbone, nonché con le idee democratiche circolanti nell’ambiente universitario pisano nel quale il M. si formò. I nessi plurimi e durevoli della sua famiglia con i Bonaparte, nonché la conoscenza diretta dei problemi dei ceti rurali e operai avrebbero potuto farne un sostenitore non solo d’un superamento della frammentazione politica della Penisola (come potrebbe confermare l’apparente disponibilità a partecipare alla guerra del 1848) ma di un’evoluzione in chiave mazziniano-democratica, e fargli considerare la parentesi francese della storia dell’Elba come avvio di una rottura col governo statico e inadeguato nella fase del Principato di Piombino. Mancano dati sul concreto orientamento politico del padre dopo il 1815 e sulla formazione del M., ma l’ottica espressa nelle Memorie è confermata dalle sue prese di posizione come uomo pubblico. Dal 1847 al 1849 comandò, col grado di capitano, il distaccamento di Capoliveri della guardia civica istituita da Leopoldo II, di solito impiegato a tutela della proprietà agricola ma che nel 1848 fu in predicato di unirsi, con altri dell’isola, ai volontari toscani recatisi a sostenere il Piemonte nella I guerra d’indipendenza; l’idea tuttavia non si concretò e il M. rimase all’Elba. Intorno al 1855 ricevette una medaglia d’oro al valor civile del Granducato di Toscana, probabilmente per avere organizzato l’assistenza durante un’epidemia di colera in alcuni centri elbani; dopo l’Unità fu ancora capitano della guardia civica a Capoliveri (1861) e a Rio Marina (almeno dal 1863 al 1865), dove controllò le tensioni tra la maggioranza della popolazione e una nascente comunità valdese; dal 1861, almeno fino al marzo 1866, fu sindaco di Rio Elba (Comune da cui dipendeva Rio Marina), e in parte dello stesso periodo consigliere della Provincia di Livorno. Dal 1886 al 1888, divenuta Rio Marina – anche col suo sostegno – Comune autonomo, ne fu sindaco, adoperandosi per il potenziamento del porto e la difesa della sua importante marina velica, insidiata dallo sviluppo di quella a vapore; realizzò l’acquedotto locale ed ebbe parte in quelli di Capoliveri (1887) e Portoferraio (1889-90). Pur con ruoli amministrativi più che direttamente politici, già dagli anni Quaranta contrastò i mazziniani e guerrazziani, pur senza essere uno stretto lealista lorenese (fu favorevole all’Unità e filosabaudo); in seguito, come dirigente delle miniere, contrastò i nascenti gruppi operai anarchici e poi socialisti, pur avviando iniziative in favore dei disagiati.
Non si conoscono attività professionali del M. (è possibile che vivesse principalmente dei redditi di proprietà agricole) fino al 1861, quando fu nominato vicedirettore delle miniere elbane, forse a seguito della collaborazione con l’ing. Enrico Grabau, dirigente generale delle miniere dello Stato sabaudo che dal 1860, dopo l’unione col Granducato di Toscana, ispezionò quelle dell’isola. Il M. sondò con lui l’estensione dei giacimenti e produsse una carta geologica dell’Elba su scala 1:20.000, oltre a più rilevazioni e relazioni che, morto Grabau nel 1865, rimasero alla sua famiglia; entro il 1880 furono acquisite dal Servizio geologico d’Italia (Cocchi, p. 12; Lotti, p. IX), ma non sembrano trovarsi più nel suo archivio, passato in quello romano del Dipartimento per i servizi tecnici nazionali (DSTN). In seguito il M. supportò altri tecnici nel determinare sempre più precisamente consistenza e qualità dei giacimenti e nel formulare proposte per migliorarne lo sfruttamento; aiutò anche Cocchi nei suoi rilievi per una nuova carta geologica dell’isola (1871) e collaborò a quella coordinata da Lotti (1882).
In Notizie varie intorno alla industria mineraria dell’isola dell’Elba apparse anonime (Livorno 1866) tracciò una storia dell’estrazione fin dal Medioevo e prese posizione sul dibattito, allora vivissimo, tra i sostenitori della proprietà pubblica o di quella privata delle miniere. Mentre Grabau in più scritti aveva sostenuto i privati in nome della libertà economica, il M. difese l’esclusiva statale, riferendosi anche a una nota causa intentata da Teresa Gamba Ghiselli marchesa di Boissy (l’antica compagna di lord Byron, che nel 1854 aveva acquistato i diritti di sfruttamento di un’area di Capo Calamita), dapprima contro il Granducato di Toscana e poi contro il Regno d’Italia, terminata nel 1862 con sentenza favorevole allo Stato. Le Notizie non conclusero il lavoro storico del M. sulle miniere. Numerosi fascicoli di suo pugno, per centinaia di fogli aventi il titolo complessivo Della fabbricazione, lavorazione e commercio del ferro dai tempi più antichi fino al secolo attuale (1881) nell’isola d’Elba, giunti per via ignota al Dipartimento di discipline storiche dell’Università di Bologna (Carte Vincenzo Mellini, due contenitori col n. 6878) conservano una congerie di testi – capitoli di un futuro volume, note di lettura, dati statistici sulla produzione, ma anche sugli infortuni sul lavoro – che tracciano una storia dell’estrazione e lavorazione del ferro (non solo nell’Elba) fin dalla protostoria, con ampi excursus sugli aspetti geologico-geografici, tecnologici, economici, basati su un gran numero di fonti, dall’antichità agli arabi, agli autori rinascimentali e ai geologi e tecnologi del Sette-Ottocento. Resta da chiarire se tutto questo dovesse divenire una sezione delle Memorie o un’opera a sé.
Nel 1871, quando la scelta pubblica si fu affermata, il M. fu nominato direttore delle miniere. Iniziò una nuova stagione, avviando o potenziando l’estrazione da giacimenti poco o mai utilizzati (Capo Pero, Giove, Calamita); sostituì al trasporto animale quello su ferrovia; realizzò pontili di carico del minerale; aggiornò le tecniche e gli impianti; avviò la costruzione di magazzini che razionalizzarono l’attività del porto di Rio Marina e ne mutarono l’assetto; tra 1870 e 1873 quasi triplicò la produzione delle miniere, che richiese per il trasporto una flotta crescente di velieri e portò un forte aumento del numero degli addetti. Il M. migliorò anche le condizioni di lavoro, introdusse alcune provvidenze per il personale e non gli mancarono riconoscimenti.
Se una medaglia d’argento di Napoleone III gli venne forse per i legami della sua famiglia con i Bonaparte, fu la sua attività a procurargli il cavalierato dell’Ordine della Corona d’Italia (post 1868) e poi quello dell’Ordine dei Ss. Maurizio e Lazzaro.
Negli anni Ottanta lo Stato cedette lo sfruttamento delle miniere elbane a privati mediante appalti pluriennali e, come direttore, il M. fu coinvolto nell’urto conseguente tra gruppi finanziario-politici. Nel 1881, con un armatore locale, G. Tonietti, costituì una società per impedire che l’appalto andasse a esterni all’isola. Tuttavia nella prima gara, indetta solo nel 1888, sostenne l’avvocato livornese R. Marassi, che soccombette di fronte a un gruppo formato da Tonietti e da un politico locale, P. Del Buono, esponente della Sinistra e popolare tra le maestranze. Con le nuove forme associative e l’accendersi delle tensioni di classe il suo paternalismo illuminato si trovò in difficoltà di fronte a nuove figure del genere di Del Buono, più politiche e spregiudicate. Un nesso tra il suo rapporto non facile con la nuova gestione, le sue dimissioni da sindaco, quelle da direttore delle miniere e il trasferimento a Livorno (1891), in sé plausibile, è accreditato dall’allusione di un biografo («dové un giorno lasciare il suo paese natale e ridursi a Livorno»: Damiani, p. 12). Nella direzione gli subentrò Del Buono.
Il M. morì a Livorno il 13 dic. 1897.
Dispose di esservi sepolto, invece che all’Elba, forse per un estremo rimprovero alla sua terra, il cui appoggio gli era venuto meno sebbene le avesse dedicato decenni di studio e lavoro.
Dalle nozze (1858) con Abelinda Ifer o Ifner, di famiglia pure elbana ma di origine tedesca, il M. ebbe una figlia e due figli. Il maggiore, Giacomo (n. 1862), avvocato, prima fu a fianco del padre nelle tensioni della gara del 1888 e nel 1897, quando fu bandito un secondo appalto, si associò a Marassi contro Del Buono e un figlio di Tonietti, che tuttavia ancora prevalsero. La vicenda sconfinò sul piano politico – fin quasi agli scontri di piazza – e superò l’ambito locale: nelle elezioni del 1897 per la Camera nel collegio livornese Marassi prevalse su Del Buono, ma la votazione fu annullata per brogli e ripetuta (1898) con una vittoria netta del secondo. Nei primi anni del nuovo secolo, tuttavia, dopo mutamenti nella società controllante, Giacomo ottenne la direzione delle miniere. Fece fronte, anche con durezza, alle rivendicazioni di crescenti gruppi operai anarchici e socialisti, fino a momenti di grave tensione: nel 1911, durante il lungo sciopero dei minatori e degli operai metallurgici dell’Elba e Piombino, si attentò anche alla sua vita.
Il figlio di Giacomo, Ubaldo Alberto (1896-1969), noto col solo secondo nome, percorse un’importante carriera diplomatica negli Stati Uniti, Medio Oriente e Africa, dandone parziale testimonianza in Storia e aspetti del Sudan Orientale: Sudan anglo-egiziano (Milano 1943). Nel secondo conflitto mondiale aderì alla Repubblica sociale italiana, divenendone una figura diplomatica centrale; la sua Guerra diplomatica a Salò (Milano 1945; rist., Bologna 1950), testimonianza interna sull’ultima fase del regime fascista, fu integrata da L’Italia entra in guerra: gli eventi diplomatici dal 1° genn. 1939 al 10 giugno 1940 (Bologna 1963). Nel dopoguerra partecipò, pur senza incarichi pubblici, alla riorganizzazione di gruppi della Destra politica e curò edizioni di scritti di statisti quali J. Foster Dulles (Guerra o pace, Bologna 1952) e P. Reynaud (Memorie, Bologna 1962). S’interessò anch’egli alla storia dell’Elba (Un turista inglese all’isola d’Elba nel 1789, in Boll. italiano di studi napoleonici, II [1963], 4, pp. 39-43; curò la ristampa del 1962 di Napoleone I all’isola d’Elba e scrisse una nota biografica sul nonno che può leggersi in V. Mellini, Memorie storiche dell’isola d’Elba. Parte archeologica e artistica, cit., pp. VII-XVIII).
Fonti e Bibl.: I. Cocchi, Descrizione geologica dell’isola d’Elba per servire alla carta della medesima, Firenze 1871, pp. 12, 23, 150 s., 155, 157 s.; A. Fabri, Relazione sulle miniere di ferro dell’isola d’Elba, Roma 1877, pp. 49, 73; A. Gelsi, Capoliveri e Capoliveresi. Ricordi e note…, Livorno 1885, passim; B. Lotti, Descrizione geologica dell’isola d’Elba, Roma 1886, ad ind.; L. Damiani, Commemorazione del dott. V. M. tenuta in Capoliveri, 26 luglio 1914, Portoferraio 1914; M. Bitossi, V. M. ed una giusta riparazione, in Il Popolano, 18 genn. 1922, p. 1; R. C., Una lettera di V. M. al principe Napoleone, in Boll. italiano di studi napoleonici, II (1963), 6, pp. 52-54; P. Vigo, prefazione a V. Mellini, L’isola d’Elba durante il governo di Napoleone I, cit., pp. n.n.; L. Dal Pane, Industria e commercio nel Granducato di Toscana nell’età del Risorgimento, I, Il Settecento, Bologna 1971, p. 138 n. 2; A. Preziosi, Fermenti patriottici religiosi e sociali all’isola d’Elba, Firenze 1976, pp. 123 s.; Id., Cronache dell’Elba preunitaria, Pisa 1985, pp. 11, 51 s.; A. Canestrelli, Storia degli Elbani dall’Unità all’industrializzazione (1860-1904), Pisa 1983, pp. 12, 159; G. Vanagolli, Fonti per la storia delle miniere e delle comunità minerarie elbane. I rapporti manoscritti del capitano di gita A. Pietri, in La via del ferro tra storia ed attualità. Atti del Seminario, Rio nell’Elba… 1989, Livorno 1990, pp. 29-39 e passim; M. Zecchini, Isola d’Elba: le origini, Lucca 2001, ad ind.; L. Giannoni, La vena del monte e le vie del mare. Storia della marineria riese dal XVII al XX secolo, Roma 2003, pp. 68, 71, 185 s.; C. Bertelli, Biografia di V. M., in app. a V. Mellini, Saggio di vocabolario del vernacolo elbano, cit., pp. 195-204.
U. Baldini