MARTELLI, Vincenzo
– Nacque a Firenze, nel «popolo» di S. Reparata, l’11 ott. 1509, da Alessandro di Francesco e da Adriana di Bartolomeo Ridolfi, secondo di quattro fratelli (oltre al M., Domenico, Baccio e Giovambattista). Il padre ricoprì varie cariche amministrative, ma non raggiunse la fama e la ricchezza di altri membri del casato.
Il M. si dedicò giovanissimo agli studi letterari e in particolare alla poesia, entrando precocemente in contatto con esponenti di primo piano della cultura toscana e non solo: Pietro Vettori, Benedetto Varchi, Luca Martini, Giovanni Mazzuoli (lo Stradino), Pietro Aretino, con i quali coltivò una salda amicizia, alimentata da un fitto scambio epistolare nei molti anni da lui passati lontano da Firenze. Questo corpus di lettere rappresenta, insieme con le opere poetiche, la fonte principale per la ricostruzione della biografia del M., mentre risultano scarse e frammentarie le fonti documentarie.
Come racconta il fratello Baccio nell’introduzione delle Rime di m. Vincentio Martelli. Lettere del medesimo (Firenze, Giunti, 1563), le drammatiche vicende politiche fiorentine impedirono al M. di dedicarsi interamente all’attività letteraria. Repubblicano convinto, come i suoi fratelli, scelse di allontanarsi da Firenze probabilmente subito dopo il ritorno della città nelle mani dei Medici nell’agosto 1530. Si stabilì a Roma alla vivace corte di letterati e artisti che si era raccolta intorno a monsignor Giovanni Gaddi, come testimonia una lettera di Annibale Caro (I, p. 18), segretario di Gaddi, datata 11 maggio 1534, a Benedetto Varchi, in cui Caro loda le opere del giovane Martelli.
Dall’esilio il M. scrisse un appello al duca Alessandro de’ Medici, esortandolo ad abbandonare la politica repressiva nei confronti degli oppositori. Per tutta risposta Alessandro lo indusse con l’inganno a rientrare in patria, dove fu arrestato e condannato a morte. Grazie all’intervento di alcuni amici, la pena fu commutata in prigione a vita nel maschio di Volterra. Da una lettera scritta dal duca al capitano della fortezza, il 4 sett. 1534 (Mediceo del principato, 181, c. 95) risulta che il M. godeva inspiegabilmente di alcuni privilegi rispetto agli altri reclusi, come la possibilità di comunicare liberamente a voce e per scritto con gli amici. Questo documento è la prima testimonianza sulla prigionia del M., sulla quale permangono molte lacune, anche riguardo la durata e le modalità della liberazione. Alla fine del 1535 la sua vicenda fu presentata nella famosa petizione che i fuoriusciti fiorentini rivolsero all’imperatore Carlo V a Napoli, di ritorno dall’impresa di Tunisi, nella quale denunciavano apertamente le ingiustizie commesse da Alessandro nei confronti di molti incolpevoli cittadini e chiedevano la liberazione dei prigionieri.
Il M. lasciò il carcere probabilmente nel settembre 1537, dal momento che il 10 ottobre successivo intraprese un pellegrinaggio a Loreto, forse proprio per rendere grazie alla Vergine della riacquisita libertà. Alla fine dello stesso anno soggiornò brevemente a Roma e, nel gennaio 1538, giunse a Napoli, dove fu accolto con grande favore alla corte del principe di Salerno Ferrante Sanseverino, che lo nominò prima suo segretario e poi lo innalzò alla carica di maestro di casa, come risulta da una lettera di Caro a Luca Martini del 22 nov. 1539 (Caro, I, p. 163).
I Sanseverino, duchi di Amalfi e principi di Salerno, erano una delle più illustri e potenti famiglie del Regno. Ferrante si era distinto fin dalla giovinezza per il valore militare, combattendo al fianco di Carlo V; fu allo stesso tempo un estimatore delle lettere, del teatro e della poesia, mecenate di artisti e letterati, che accolse numerosi da tutta la penisola nella sua corte (tra loro Bernardo Tasso, che divenne suo segretario).
Negli anni passati al suo servizio il M. si occupò principalmente della gestione finanziaria del Principato, oltre a svolgere incarichi diplomatici nelle corti italiane e straniere: nel novembre 1539 accompagnò il principe nelle Fiandre alla corte cesarea; nel maggio 1541 era a Ratisbona, da dove scrisse una lettera ad Aretino, testimoniandogli il favore e l’ammirazione sua e del suo signore (Rime. Lettere, p. 47). Nonostante gli impegni dell’ufficio, il M. non trascurò l’attività poetica: tra i destinatari dei suoi versi sono, oltre a Sanseverino, Vittoria Colonna, Tullia d’Aragona, Varchi, Pietro Bembo. Nel marzo 1541 fu accolto nei ranghi dell’Accademia Fiorentina (del 17 sett. 1541 è una lettera allo Stradino, in cui loda il suo ruolo fondamentale come ideatore dell’Accademia, Firenze, Biblioteca nazionale, Mss., II.IV.1, c. 134v); vi rimase ascritto fino alla riforma, voluta da Cosimo I nel 1546, che sancì la sua esclusione nel marzo dell’anno dopo. Continuò tuttavia a mantenere rapporti epistolari con i parenti e gli amici fiorentini, fra questi uno dei più affezionati fu Vettori, con il quale condivise l’amarezza per la lontananza da Firenze.
L’esperienza del M. alla corte salernitana risentì delle tensioni che si erano venute a creare nel Regno, causate dall’antagonismo tra Sanseverino e il viceré Pedro Álvarez de Toledo. Il M., schierato con il principe, subì gli attacchi del partito del viceré e nel 1546 fu imprigionato con l’accusa di complicità nella fuga in Francia di Bernardo Sanseverino, parente di Ferrante. Ottenuta la libertà, un anno dopo si scontrò nuovamente con il governo spagnolo, deciso a introdurre nel Regno il tribunale dell’Inquisizione all’uso di Spagna.
La nobiltà napoletana, fortemente contraria a questo provvedimento, chiese a Ferrante di guidare un’ambasceria a Carlo V per contrastare la decisione del viceré. Il M. tentò di convincere Sanseverino a ricusare l’incarico, a suo giudizio destinato all’insuccesso, mentre Bernardo Tasso fu di parere contrario. Lo scontro tra i due segretari fu piuttosto aspro, o almeno così lo rappresenta nel dialogo Il Gonzaga overo Del piacere onesto (Venezia 1583) Torquato Tasso, che probabilmente enfatizzò l’episodio per celebrare la figura paterna. Dalle lettere dei due segretari, soprattutto da quelle di Tasso al M., emerge che il loro rapporto fu sostanzialmente improntato a reciproca stima. Peraltro, Torquato presenta il M. con il titolo di maestro di casa e non di segretario, come il padre, e lo caratterizza come un fuoruscito, che denuncia il governo tirannico di casa Medici, cosa che non trova conferma nella biografia del M. a questa altezza. Sanseverino decise infine di seguire il parere di Tasso accettando la missione diplomatica presso l’imperatore, che si risolse con un completo fallimento e con la sua personale disgrazia.
Al M. non arrise miglior fortuna, dal momento che fu nuovamente imprigionato: per ottenere la libertà fece voto di compiere un pellegrinaggio a Gerusalemme (Rime. Lettere, p. 70) ma, una volta liberato grazie all’intervento di Sanseverino, ottenne dal papa lo scioglimento dal voto. Conclusasi la sua attività presso la corte salernitana, nel 1549 tornò in patria insieme con la moglie Maria di Francesco Mannelli, che aveva sposato nel 1527 e con la quale aveva avuto due figlie: Gemma, che nel 1550 sposò Vincenzo da Rabatta, e Cassandra, che si fece monaca nel monastero di Chiarito. Degli ultimi anni, trascorsi a Firenze, rimangono poche e frammentarie notizie: il suo passato di esule e prigioniero politico non gli aveva alienato la benevolenza di Cosimo I, con il quale, in veste di segretario di Sanseverino, aveva mantenuto rapporti cordiali, ma non sono noti nuovi incarichi di responsabilità.
Il M. morì a Firenze il 10 genn. 1551 e fu sepolto in S. Lorenzo, nella cappella di famiglia, per la quale G. Vasari aveva appena terminato la pala di S. Gismondo. Nel testamento, rogato da Niccolò Parenti il 6 genn. 1551, lasciò i fratelli eredi dei suoi beni non molto opulenti: metà della casa in via Martelli, due case e due botteghe in piazza S. Giovanni e un podere a S. Gervasio.
Dopo l’edizione del 1563 delle Rime e lettere, curata dal fratello Baccio, che premise una toccante dedicatoria «all’illustrissimo ed eccellentissimo sig. Ferrante Sanseverino principe di Salerno», il volume fu ristampato nel 1606, con una nuova dedica dell’editore Cosimo Giunti al nipote Vincenzo Martelli, ma già l’anno dopo la princeps, le lettere erano state ristampate in Lettere di XIII huomini illustri, nelle quali sono due libri di diversi altri auttori… (Venezia, Comin da Trino, 1564), mentre le rime avevano preso a circolare da tempo in miscellanee poetiche: Rime diverse di molti eccellentiss. auttori…. Libro primo, ibid., G. Giolito, 1545; Libro terzo delle rime di diversi nobilissimi et eccellentissimi autori, ibid., Al segno del Pozzo, 1550; Rime di diversi, et eccellenti autori…, ibid., G. Giolito e fratelli, 1556; I fiori delle rime de’ poeti illustri…, ibid., G.B. e M. Sessa, 1558; De le rime di diversi nobili poeti toscani…, Libro secondo, ibid., L. Avanzo, 1565; Delle rime scelte da diversi autori, I, ibid., G. Giolito, 1565, pp. 345-357. Un capitolo In lode delle menzogne è nel Secondo libro dell’opere burlesche, di m. Francesco Berni, del Molza, di m. Bino, di m. Lodovico Martelli, di Mattio Francesi, dell’Aretino, et di diversi autori (Firenze, Eredi B. Giunti, 1555).
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