GRANDI, Vincenzo (Gianvincenzo)
Nacque a Vicenza, da Lorenzo e da una Bianca d'ignoto casato, probabilmente nel 1493, se si può dar fede alla testimonianza del G. stesso, che in un documento del 1569 dichiara di avere settantasei anni (A. Sartori, p. 129).
Apparteneva a una famiglia di lapicidi originaria di Como, trasferitasi a Vicenza già agli inizi del XV secolo, come risulta dal fatto che un "Antonius murator de Cumis", bisnonno del G., era iscritto alla fraglia vicentina dei muratori e scultori fin dal 1422 (Zorzi, p. 139). Il cognome Grandi, o de Grandi, fu assunto invece più tardi, per via dell'imponente statura del padre Lorenzo, il quale era appunto per questo soprannominato Zasone, cioè Sansone.
Nulla si sa della formazione e primissima attività vicentina del G., che dovette comunque verosimilmente avviarsi nell'ambito della bottega paterna e soprattutto accanto al fratello Giammatteo, certamente il maggiore dei due, se già nel 1498 lo si trova impiegato a Vicenza in casa di Niccolò Chiericati.
Non più tardi del 1503 il G. si recò a Padova, dove il fratello si era già trasferito almeno da un paio d'anni, e qui dovette in un primo tempo collaborare come scalpellino per le commissioni allogate a Giammatteo.
Nel 1508 il G. tenne a battesimo (come egli stesso dichiara in un documento in Arch. di Stato di Padova, Ufficio del Porco, f. 12, c. 14v), come padrino, Andrea Palladio, verso il quale nutrì poi sempre una paterna sollecitudine: non solo favorendone e facilitandone il trasferimento a Vicenza, ma anche molto più tardi, quando nel 1563 si adoperò affinché il figlio del celebre architetto, Silla - allora studente nell'Università di Padova - ottenesse i medesimi benefici spettanti ai cittadini patavini.
Durante i primi due decenni del Cinquecento la bottega dei fratelli Grandi, diretta da Giammatteo, fornì una quantità di prodotti di artigianato specializzato destinati alle abitazioni private di vari cittadini padovani: cornici, capitelli, stipiti per porte e finestre, finiture per camini, tutte cose ispirate a un recupero antiquariale del classico declinato nei modi della solida tradizione decorativa lombarda.
In particolare, tra 1508 e 1509 il G. scolpì due medaglioni in pietra di Nanto con profili di imperatori romani per la casa di Beldomondo Candi in via Rogati: lavori che si possono considerare tra le prime prove autonome dell'artista, già rivelatrici di una vocazione e di un talento plastici che esorbitano dalle competenze ordinarie di un normale scalpellino. Ancora nel 1517 alla bottega di Giammatteo vennero commissionate opere per la facciata e il camino di casa Ruggeri e nel marzo dello stesso anno il G. è citato in un documento con cui il canonico Luca Viaro ratificò la quietanza per lavori realizzati nella propria abitazione al Ponte dei Tadi.
In questo stesso torno di anni al G. si presentò l'occasione decisiva per dar mostra delle proprie capacità in una importante commissione pubblica. Nel 1516 i massari dell'Arca di S. Antonio avevano concesso al filosofo francescano Antonio Trombetta, vescovo di Urbino poi arcivescovo di Atene, di farsi erigere un monumento funebre nella basilica del Santo.
Il prelato morì nel 1518, e il 9 ott. 1521 i massari dell'Arca assegnarono l'incarico della realizzazione della tomba ai fratelli Grandi, i quali si sarebbero occupati, per la somma di 80 ducati d'oro, di tutta la parte lapidea, architettonica e scultorea, mentre l'effige bronzea del Trombetta sarebbe stata modellata e fusa dallo scultore padovano Andrea Briosco, detto il Riccio. Ai primi di dicembre del 1524 l'opera doveva essere pressoché ultimata. Due marmi vennero a tale scopo condotti a Padova da Venezia e gli scultori incisero l'epitaffio sul cartiglio marmoreo in trompe-l'oeil.
Il Monumento Trombetta rivela già sufficientemente definite le componenti essenziali della formazione del G. e i suoi orientamenti stilistici, benché in opere di collaborazione come questa non sia sempre facile distinguere con precisione contributi e apporti specifici. Nondimeno, ragionevolmente presumendo nel G. un più spiccato talento rispetto al fratello, e soprattutto alla luce delle opere successive, si possono qui riconoscere alcuni lineamenti caratteristici della sua maniera. In particolare, un certo virtuosismo calligrafico, un gusto per intrecci e arabeschi decorativi, la resa realistica dei dettagli (come il cartiglio spiegazzato o i libri disordinatamente disposti ai lati dell'effigiato), motivi che il G. poteva aver desunto e agevolmente meditato sugli esempi di Antonio e Tullio Lombardo o dei loro eredi, nella stessa basilica del Santo, nonché sulle opere maestre di Donatello.
Se ancora nel 1523 il G. forniva elementi di decorazione in pietra per la casa di Alessandro Baldini, solo qualche anno più tardi, il 6 maggio 1527, i rettori del Comune di Padova lo pagavano per la realizzazione di una figura di leone destinata alla loggia del Consiglio, segno che nell'ambiente padovano la sua notorietà non si limitava più a quella di un semplice fornitore di prodotti "di serie".
Le credenziali acquisite con queste commissioni pubbliche e ufficiali furono evidentemente utili a procacciargli di lì a poco un ben più prestigioso e remunerativo impiego.
Nel luglio del 1531, infatti, i responsabili dei lavori di edificazione del Magno Palazzo, che il vescovo di Trento Bernardo Cles aveva voluto come ammodernamento del vecchio castello del Buonconsiglio, informavano il prelato, da poco creato cardinale, di "havere ritrovado un tajapreda paduano che torrà l'impresa de la porta principale et del camino de la sala" (Gerola - Ausserer, pp. 19 s.). Il G. quindi inviò al cardinale un disegno del camino che, in una lettera da Innsbruck datata 2 genn. 1532, veniva giudicato "molto sontuoso e vago", autorizzando così la commissione, senza lesinare sul compenso di 180 scudi richiesto dal G., ben più della mercede pretesa dal lapicida allora impiegato a Trento, Alessio Longhi da Como (Cessi, 1967, p. 19).
Alla fine di gennaio del 1532 vennero inoltre chiamati da Padova altri otto o dieci lapicidi per coadiuvare il G. e terminare i lavori lasciati incompiuti da Longhi. Il G. portò con sé a Trento il giovane nipote Giovanni Girolamo, figlio del fratello Giammatteo e scultore anche lui, che da allora in poi avrebbe sempre operato in stretta collaborazione con lo zio.
Varie ipotesi sono state avanzate circa l'esatta consistenza degli interventi realizzati dal G. e dalla sua bottega nel palazzo del vescovo di Trento. Sicuramente gli va ascritta la decorazione lapidea del camino della sala grande con i due imponenti telamoni in forma di satiri, con il petto fregiato dell'impresa clesiana con le sette verghe.
Qui lo scultore sembra voler attingere, rispetto alle opere precedenti, una più risoluta monumentalità e una più decisa vigoria plastica, forse non esente dagli influssi della scultura di Iacopo Sansovino e più in generale sensibile all'energia del disegno tosco-romano, evidente anche nei mascheroni barbuti dell'architrave (De Gramatica, 1999). È stata ricondotta all'attività del G. anche l'esecuzione di due stipiti in pietra in forma di cariatidi con lo stemma del cardinale, pure conservati al Castello del Buonconsiglio (Id., 1994).
Sempre a Trento il G. e suo nipote realizzarono quello che unanimemente è considerato il loro capolavoro: la cantoria per l'organo della chiesa di S. Maria Maggiore. Il lavoro, commissionato e sovvenzionato dal facoltoso mercante trentino - più tardi implicato in vicende inquisitoriali - Giovanni Antonio Zurletta, o Ciurletti, venne avviato nel 1534, ma procedette in modo tutt'altro che spedito e pacifico.
Nel 1537 il committente trascinò zio e nipote in tribunale per obbligarli a consegnare l'opera, non ancora conclusa e condotta con eccessivi ritardi e lungaggini. Lo stesso Cles intervenne personalmente per cercare di comporre la controversia e si fissò un termine di consegna di due anni. Ma nel 1541 Zurletta intentò una nuova causa contro gli scultori evidentemente ancora inadempienti; la vertenza si risolse soltanto l'8 marzo dell'anno successivo, quando i procuratori del committente corrisposero agli artisti la somma di 150 fiorini del Reno, "pro completa solutione organi et mercedum" (Benedetti, p. 34).
La cantoria di S. Maria Maggiore, in cui il G. si firmò - con consapevole orgoglio - "vicentino", rappresenta la sintesi e il compimento delle precedenti esperienze dell'artista. L'articolata e composta struttura, realizzata nella candida pietra delle cave di Pilo, poggiante su grandi modiglioni illustrati a rilievo e dotata di un alto parapetto con transenne traforate e plutei scolpiti (Adorazione dei pastori e l'Epifania), assomma ed esalta le capacità tecniche dell'architetto, del cesellatore e dello scultore vero e proprio. In particolare nelle parti che la critica più concordemente attribuisce al G. - il disegno generale, il lussureggiante parato decorativo, i rilievi biblico-mitologici sulle mensole, le figure di Sibille tra le transenne - si ritrova la propensione antiquariale e classicheggiante applicata con gusto incisivo e calligrafico, a coniugare un retaggio di matrice mantegnesca, l'influenza sempre viva dei Lombardo, quella più recente di un Riccio e gli aspetti maggiormente esornativi del Donatello padovano.
Ma anche in questi anni di notevoli impegni, il G. non dovette mancare di tornare a Padova di tanto in tanto per curare i suoi interessi. Nella sua città d'adozione lo si trova, infatti, nel novembre del 1535, per una lite con un certo Giuseppe lapicida, e di nuovo il 15 maggio 1541, quando i sovrintendenti all'Arca del Santo gli commissionarono, per un compenso di 110 ducati, la realizzazione di un pilastro scolpito nella cappella dell'Arca, la lunetta con la finta prospettiva da inserirsi sull'adiacente rilievo in cui Antonio Minello aveva raffigurato la scena dell'Investitura del santo, nonché interventi di finitura di minore entità. I lavori furono consegnati entro il dicembre dell'anno seguente e il 30 dello stesso mese il G. riceveva il saldo della somma pattuita.
A questo punto la notorietà e il credito dell'artista dovevano essere all'apice: già il 10 giugno 1541 egli aveva infatti stipulato un nuovo e più prestigioso contratto - in cui viene qualificato come "famosissimus scultor" (A. Sartori, p. 127) - col padre Bernardino Ardeo e gli altri massari dell'Arca che gli avevano allogato uno dei riquadri marmorei con i miracoli di s. Antonio, al prezzo di 300 ducati. Purtroppo l'importante commissione non ebbe seguito: nell'estate del 1554 il lavoro non era ancora cominciato e i massari approfittarono per dichiarare nullo il contratto e assegnare l'opera allo scultore fiorentino Paolo Peluca, che evidentemente aveva avanzato un'offerta economicamente più vantaggiosa.
Il quinto decennio del secolo vide il G. ancora impegnato in varie commissioni padovane. Nel 1544 il capitolo della cattedrale gli richiese un tabernacolo di marmo e bronzo sormontato da una statua anch'essa bronzea (opera oggi perduta, ma cui è forse possibile ricollegare uno sportello di tabernacolo raffigurante un'Imago Pietatis e attualmente conservato al Kunsthistorisches Museum di Vienna: De Gramatica, 2001).
Il 23 apr. 1545 la vedova del giureconsulto e professore dello Studio patavino Giovanni Antonio De Rossi gli commissionò la tomba del marito, da erigersi nella chiesa di S. Giovanni di Verdara (oggi trasferita nel chiostro del noviziato al Santo).
Infine, il 12 marzo 1548, il Consiglio cittadino deliberava l'erezione, nella basilica del Santo, del monumento sepolcrale del teologo Simone Ardeo, "alla similitudine de quella archa del R[everendissi]mo padre Trombetta" (Cessi, 1967, p. 48), ciò che ha indotto la critica a includere anche quest'opera nel catalogo dei Grandi.
Dopo questa data l'attività del G. sembra diradarsi, almeno dal punto di vista delle evidenze documentarie, e sono ancora tutte da verificare le ipotesi recentemente avanzate (Molteni; M. Sartori) circa una sua partecipazione a progetti e opere architettoniche a Trento.
Qualche indicazione sugli interessi architettonici e più in generale sulla cultura letteraria del G. si può evincere da una lettera - datata da Padova il 18 ott. 1546 - inviata a Trento a Cristoforo Madruzzo, in cui lo scultore cita, oltre alla Sacra Scrittura, Platone, Leon Battista Alberti e Vitruvio, per illustrare i significati simbolici e allegorici sottesi all'"invenzione" di un calamaio commissionatogli dal cardinale (Benedetti).
L'ultimo impegno pubblico dell'artista risale al novembre 1572, quando i massari del Santo lo elessero a perito, per la propria parte, per la stima dell'ultimo rilievo marmoreo destinato alla cappella dell'Arca, lasciato allora incompiuto da Danese Cattaneo e più tardi portato a compimento da Girolamo Campagna.
Il 4 luglio 1576 il G. dettò il suo ultimo testamento, in cui dichiarò di voler essere seppellito in S. Agostino, insieme con il nipote, e lasciò ai figli di quest'ultimo i propri beni. Risultava ancora vivente a Padova, in piazza Castello, nell'agosto del 1577. Morì prima dell'8 ag. 1578, come si ricava da un atto notarile che a quella data lo dichiarava defunto (E. Rigoni).
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