GRAMIGNA, Vincenzo
Nacque a Riccia, presso Campobasso, nel Molise, nel 1580 da una famiglia al servizio del feudatario del luogo, il conte d'Altavilla e principe della Riccia Vincenzo Luigi Di Capua. Dai pochi accenni autobiografici sparsi nei suoi libri (gran parte dei documenti sulla famiglia e la giovinezza del G. sono andati perduti a causa degli effetti della peste del 1600) si apprende che da ragazzo egli avrebbe voluto intraprendere il mestiere delle armi, ma, troppo gracile, dovette ripiegare sugli studi letterari, dedicandosi interamente a essi verso i sedici anni.
Grazie alla protezione del principe, il G. poté andare a studiare a Napoli, dove acquisì una vasta erudizione classica intorno ad argomenti di morale, politica, letteratura, poesia e scienze naturali. Tutta questa cultura fu però frutto di letture appassionate ma disorganiche, dato che egli non ebbe mai il tempo di approfondire alcuna di queste materie, essendo costretto a spendere la propria vita come segretario al servizio di vari signori, con frequenti cambi di residenza, senza trovare mai una collocazione tale da garantirgli una certa sicurezza e permettergli di farsi una famiglia.
A Napoli, comunque, il G. entrò a far parte dell'Accademia degli Oziosi (presieduta allora proprio dal Di Capua) e pubblicò le sue prime opere: la tragedia Amano nel 1614 (trasposizione della vicenda biblica di Ester e Aman intervallata da scene mitologiche), i Dialoghi e discorsi e il breve trattato Del governo tirannico, e regio nel 1615. La dedica al cardinale Scipione Borghese della tragedia e del trattato, nonché un brano dei Dialoghi rivelano che in quel periodo il G. si era già recato più di una volta a Roma (diventando accademico degli Umoristi) e in altre parti d'Italia per ragioni di lavoro, e aveva conosciuto Giovan Battista Manzi, Antonio Quarenghi e Mariano Valguarnera, insieme con altri letterati del tempo.
Intorno al 1620 il G. fu a Firenze e a Prato (dove entrò nell'Accademia dei Semplici), inviatovi dal cardinale Scipione Cobelluzzi, di cui egli si qualifica dipendente nel dialogo Il segretario, pubblicato proprio nel 1620 nella capitale toscana, così come pure gli Opuscoli. Nell'anno successivo andò a Viterbo, stavolta al servizio del cardinale Tiberio Muti, alle due nipoti del quale, suore nel monastero viterbese dei Ss. Cosma e Damiano, dedicò un libro di mistica, l'Estasi nella quale si descrive la vita della Beata Vergine (Viterbo 1621). La pubblicazione a Trento, nel 1625, di una sua raccolta di Orationi permette di affermare che il G. servì pure monsignor Carlo Emanuele Madruzzo, dal 1622 coadiutore dello zio Carlo Gaudenzio, principe-vescovo di quella città. Dopodiché, finalmente, gli riuscì di trovare una collocazione più stabile a Roma, nella cerchia di letterati che frequentavano il cardinale Francesco Barberini e la corte di Urbano VIII.
Fu purtroppo per breve tempo. La morte prematura lo colse nel 1627, a Roma, mentre stava preparando la pubblicazione delle Fantasie varie, da dedicare appunto al cardinale Barberini. L'opera venne curata dall'amico Marco Antonio Foppa e stampata postuma a Roma nel 1628.
Il trattato Del governo tirannico, e regio e il dialogo Il segretario sono le opere maggiori del Gramigna. La prima delle due riflette con stile barocco le idee politiche del suo tempo. Per lodare il governo di Paolo V, l'autore descrive prima le caratteristiche del governo tirannico (che attutisce la ragione, si serve della menzogna, strumentalizza la religione e divide i sudditi, beneficando il "popolo basso" e gravando di tasse la nobiltà) poi del buon governo, contrassegnato dalla pace, dalla giustizia e dal benessere. Esaminandone le varie forme e citando Tacito, il G. sostiene che la monarchia è la migliore forma di governo, perché è più facile che uno solo decida il bene per tutti anziché tanti si mettano d'accordo. Per il resto, il G. giustifica la guerra, approva i conflitti di religione e affronta con prudenza la questione della liceità di uccidere il tiranno.
Più interessante il tema del dialogo, che vorrebbe essere una difesa della tradizionale autonomia del segretario rinascimentale come lo aveva descritto B. Castiglione. Difesa poco riuscita, perché proprio il tentativo di conservare al segretario, badando a non ledere l'autorità del suo signore, almeno un minimo patrimonio di autonomia e di conoscenze finisce con il mostrare, in controluce, tutta la decadenza di questa figura professionale, ormai ridotta a burocratico strumento del potere. Tanto che il G., alla fine, ammette che in ogni caso il segretario deve "conformarsi al voler del padrone e per sodisfare al suo capriccio non si curar d'andar contra l'arte", facendo come il polpo, che assume "il colore della cosa a cui si accosta", in un camaleontismo il cui solo limite è il rispetto degli "insegnamenti della religione" (cit. in Bolzoni).
Fonti e Bibl.: Biblioteca apostolica Vaticana, Barb. lat. 2068, cc. 68-73; 3839, cc. 48-64; 3886, cc. 109-117; N. Toppi, Biblioteca napoletana, Napoli 1678, p. 306; L. Nicodemo, Addizioni copiose alla Biblioteca napoletana, Napoli 1683, pp. 244 s.; P. Albino, Uomini illustri della provincia di Molise, II, Campobasso 1865, pp. 43-52; T. Persico, Gli scrittori politici napoletani dal 1400 al 1700, Napoli 1912, pp. 240-247; L. von Pastor, Storia dei papi, XIII, Roma 1931, p. 911; T. Bozza, Scrittori politici italiani dal 1550 al 1650, Roma 1949, p. 126; L. Bolzoni, Il segretario neoplatonico (F. Patrizi, A. Quarenghi, V. G.), in La corte e il "Cortegiano", II, Un modello europeo, a cura di A. Prosperi, Roma 1980, pp. 133, 162-169; M. Rosa, La Chiesa e gli Stati regionali nell'età dell'assolutismo, in Letteratura italiana (Einaudi), I, Il letterato e le istituzioni, Torino 1982, p. 301; F. Pignatti, Foppa, Marco Antonio, in Diz. biografico degli Italiani, XLVIII, Roma 1997, p. 777.